Gli
analisti lo aspettavano da tempo e finalmente è arrivato, il perfect storm. A
guardarlo un po’ da vicino è uno spettacolo sconvolgente ma affascinante,
perché con un colpo d’occhio ti permette di vedere l’essenza della logistica,
la sua vera natura, capisci perché la chiamano the physical Internet, ti rendi
conto di cos’è la globalizzazione. E’ accaduto nello shipping specializzato nel
traffico container: la settima compagnia marittima mondiale, la coreana Hanjin,
ha fatto bancarotta.
Gravata
da 4,5 mld di dollari di debiti degli ultimi cinque anni, non è riuscita a
convincere le banche a tenerla in piedi ancora. In realtà non ha convinto il
governo della Corea del Sud, perché il principale
finanziatore di Hanjin è la
Korean Development Bank, istituto pubblico, che già è alle prese con la
situazione critica dell’altra compagnia marittima importante Hyundai Merchant
Marine (HMM) e con quella dei due cantieri navali, Stx
Offshore&Shipbuilding e Daewoo, quest’ultimo una potenza nel suo settore,
in grado di applicare sulle sue costruzioni le più sofisticate tecnologie ma
caduto nelle mani di manager ladri e disonesti.
A dirla così, sembra cosa di
ordinaria amministrazione, immaginate però cosa significa avere una flotta di
circa 100 navi, cariche di merci valutate sui 14 miliardi di dollari, che
vagano per i mari in quanto, se toccano un porto, rischiano di essere
sequestrate su richiesta dei creditori con tutto il loro carico.
Ed in effetti
la Daily Edition di Lloyd’s List del 13 settembre dava per 14 il numero delle
navi già sequestrate, oggi a più di due settimane dal crack, la situazione è
ancora confusa e cambia di ora in ogni ora. Alcune navi sono ferme in porto in
attesa della decisione dei magistrati, altre sono alla fonda davanti al porto
di destinazione e non possono muoversi. Come la ‘Hanjin Rome’, abbordata
davanti a Singapore da una troupe della BBC, cui però è stato negato l’accesso,
ma che comunque ha potuto intervistare su Facebook il comandante, per farsi
dire che lui non ne sapeva nulla, la sua compagnia non lo aveva informato di
niente e, mentre si apprestava ad entrare in porto, si era visto piombare
addosso un rappresentante legale dell’ente, che gli aveva intimato di non
muoversi e stava lì da quasi due settimane senza sapere che poter fare…
Si
valuta che siano sui 2.500 uomini d’equipaggio bloccati in giro per il mondo,
che non trovano un provveditore di bordo disposto a vendere loro una scatoletta
di tonno o una bottiglietta d’acqua, ma chiedono soprattutto tessere SIM per
poter comunicare coi loro cari. In un porto canadese ha dovuto soccorrerli la
missione Stella Maris.
Su un’altra nave Hanjin è invece bloccata una performer
(si può dire così?) dell’absurdist art (quante cose s’imparano in casi come
questi!) impegnata in un progetto culturale finanziato da una Galleria d’arte
di Vancouver e intitolato “23 giorni in mare”. Era al suo 22mo giorno di
navigazione e di cose assurde ne avrà viste e continuerà a vederle, per cui
rischia di scoprire che la sua absurdist art non è poi così lontana
dall’iperrealismo di Duane Hanson.
Spettacolare
è l’intreccio delle ramificazioni di questo crack.

Poi ci sono i porti a cui non sono state pagate le tasse di ancoraggio o i
servizi (rimorchio, ormeggio), i terminal che hanno caricato e scaricato le
navi Hanjin a credito, il Canale di Suez che deve avere dei grossi crediti,
perché oggi non lascia passare le navi sudcoreane, i fornitori di bordo, le
agenzie di reclutamento degli equipaggi, quelle di gestione della nave ecc.
ecc.. E qui non finisce, comincia.
Perché il grosso è rappresentato dalle
migliaia di società, di spedizionieri, di operatori logistici che hanno
affidato la loro merce a Hanjin, qualcosa come tre – quattrocentomila
contenitori (la capacità totale della flotta Hanjin viene valutata in 600 mila
TEU), merce che rimane bloccata a bordo.
Ma fosse solo questo…Le compagnie
marittime di container oggi operano in consorzi o “alleanze” per scambiarsi i
carichi, secondo una serie di agreement complicati di slot sharing e quindi un
container affidato a Hanjin può viaggiare sulle navi di un’altra compagnia e
viceversa.

Da
tutto questo si può capire il rompicapo delle compagnie di assicurazione di
mezzo mondo (e il volume delle parcelle degli avvocati). Perché è successo,
perché doveva succedere? Perché da anni le compagnie marittime viaggiano in
perdita, hanno messo in servizio troppe navi, hanno continuato a ordinarle ai
cantieri sempre più grandi, i cantieri si sono fatti concorrenza spietata e le
hanno costruite, malgrado siano dei gioielli tecnologici, a prezzi stracciati,
i noli sono andati a picco, i volumi crescevano ma il guadagno per unità di
carico trasportata diminuiva. Poi la Cina ha rallentato l’export ed è arrivato
il perfect storm. E adesso?
Quante delle dieci-quindici compagnie che contano
rimaste sul mercato sono dei zombie carrier? Così vengono chiamate quelle che
stanno in piedi solo perché le banche decidono di non farle fallire (a
proposito, quasi l’80% delle compagnie armatoriali italiane è in queste
condizioni).
L’Economist segnala che delle prime 12 mondiali 11 hanno segnato
pesanti perdite quest’anno (già, ma la 12ma è la MSC, che nella sua storia non
ha mai fatto trapelare una notizia che sia una sui suoi conti…). La Maersk,
prima al mondo, sempre secondo la stessa fonte, perde 11 dollari per ogni
container trasportato, mica male, Hanjin ne perdeva 100. E chi sarà la prossima
a cadere? La Daily Edition del sito di Lloyd’s List riportava in prima pagina
il 16 settembre il nome di Rickmers, come società a rischio (Rickmers warns of
liquidation if debt restructuring fails). Rickmers, glorioso nome dello
shipping tedesco, traslocata a Singapore, è piccolina però in confronto a
Hanjin.
Oggi, a disastro avvenuto, c’è chi dice che è colpa dei clienti, a
voler pagare sempre meno ed a fidarsi di chi offre il prezzo migliore anche se
si sa che è alla canna del gas e può fallire da un momento all’altro. Ma non si
è mai visto un logistico replicare a un trasportatore che gli chiede 1.000 per
portargli un container oltremare: “No amico, te lo pago 1.100”.
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TROPPO GRANDI PER FALLIRE |
Come si è visto
nel settore bancario, la filosofia del too big to fail, tipica della debt economy,
è semplicemente il riflesso della pigrizia mentale del management moderno. Che
ancora una volta appare quasi come il cancro del capitalismo contemporaneo.
Questi manager di alto livello, dagli stipendi favolosi, privi di idee di
business, privi di animal spirit, del tutto irresponsabili, tanto se va a picco
la società loro non ci rimettono, non sembrano persone, sono oggetti
intercambiabili, tutti uguali.
Uno di loro ha confessato: “Come ci muoviamo?
Beh, guardiamo quello che fa il più forte di tutti (in questo caso la Maersk,
prima compagnia mondiale, NdA) e lo copiamo.”
Gli analisti di Alphaliner hanno
usato parole durissime sia verso il governo coreano che verso il management per
non aver agito in tempo ma soprattutto, una volta constatata l’impossibilità di
salvare Hanjin, per non aver nemmeno tentato di fare in modo che la bomba
scoppiasse con i minori danni possibili. Sono anni che i migliori analisti ed
esperti predicano la necessità di cambiare modello di business delle compagnie
marittime del container. Niente, si preferisce andare avanti sulla stessa
strada, quasi sempre a spese della forza lavoro.
E di riflesso si comportano
alla stessa maniera i manager portuali, che in questi ultimi anni, con un
mercato sempre più fuori controllo, hanno continuato a costruire porti sempre
più grandi, in un delirio infrastrutturale favorito e incentivato dalle
politiche insane dell’Unione Europea, che continua a credere nella teoria che
la costruzione d’infrastrutture fisiche rilancia l’economia. Solo di recente,
solo nel 2015 si sono avvertiti i primi segnali di un ripensamento, si sono
denunciati i rischi del gigantismo navale, si è messo il dito, in Europa, su
porti costruiti ex novo e rimasti vuoti, come in Spagna o al Nord e qualcuno
anche in Italia.

Sul piano globale che succederà ora? I noli si sono
alzati, i concorrenti si sono già gettati sulle spoglie di Hanjin. Maersk e MSC,
le due prime compagnie mondiali, hanno riempito in pochi giorni il buco
lasciato da Hanjin sulla rotta transpacifica. Ogni giorno viene fuori qualcuno
a dire che questa crisi è salutare, che ci voleva proprio.
Invece la mia
opinione è che non cambierà nulla, così come non è cambiato nulla nel mondo
bancario dopo il crollo di Lehman Brothers. Oltretutto non si vede chi potrebbe
avere la forza e l’autorità di cambiare qualcosa e di far cambiare agli altri
qualcosa. Il mare continua ad essere terra di nessuno.
Gli organismi di
regolazione continuano a sfornare norme ma il potere costrittivo per farle
applicare non c’è. Anche in questo caso la solerzia normativa produce inutile
burocrazia, un capitano di nave deve riempire tante scartoffie quando naviga
che ci si chiede come abbia tempo di fare altro, ma quando si arriva al dunque
casca l’asino. In questi ultimi anni ho seguito alcuni grandi incidenti in mare
nel settore cargo, dalla dinamica dell’accaduto ai report degli organi
investigativi ai processi ai responsabili (o alle teste di turco), per constatare
una volta di più che i colpevoli o se le cavano sempre o nemmeno vengono alla
luce.
Ci sarebbe un solo modo per cambiare le cose: una rivolta generalizzata della
forza lavoro coinvolta nella catena di trasporto, ma sappiamo che è utopia, le condizioni materiali d’isolamento in cui vive
un equipaggio sono di per sé garanzia di assoggettamento. Tuttavia è un dato di
fatto che la conflittualità all’interno della Global Supply Chain è in aumento,
è una conflittualità endemica con talune punte molto alte, riguarda le
condizioni di lavoro, il salario, l’occupazione, ma anche, in misura crescente,
la sicurezza. Last but not least.
Alcuni organi di stampa molto accreditati
nell’universo finanziario si sono chiesti se la crisi di Hanjin può restare
confinata al settore dei traffici marittimi e della logistica o può investire
anche la grande finanza. Da tempo le banche specializzate nel credito navale
sono sull’orlo della crisi, si barcamenano tra bail out e cessioni dei crediti
in sofferenza, i fondi d’investimento tedeschi specializzati nel noleggio e
gestione di naviglio conto terzi, sono falliti a centinaia
(era il tema del mio
scritto “Il crack che viene dal mare”, redatto in epoca non sospetta: dicembre2012). Ciononostante l’insieme del capitale mobile ed immobile investito nel
settore navale è una parte modesta del sistema finanziario mondiale.
Molto più
preoccupante mi sembra invece dover constatare che l’unica ricetta oggi in voga
per rilanciare l’economia, quella del quantitative easing delle Banche
Centrali, sembra non funzionare, in particolare in Europa ma ormai anche, dalle
ultime notizie, negli Stati Uniti. Se non tira l’economia, lo shipping non
marcia.
Aggiungiamo a questo la fragilità del sistema bancario cinese, su cui
molti acuti osservatori stanno puntando il dito da anni, e ci accorgiamo che,
dopotutto, la crisi di Hanjin forse non è poi così drammatica. C’è di peggio,
il problema è alla radice. Purtroppo siamo talmente impotenti che non ci resta che
sperare che un nuovo crack stile 2008 - ma stavolta sarebbe una deflagrazione
molto più
devastante – non debba accadere, magari domani…..
O nel 2017,
centenario della rivoluzione di ottobre. Perché allora vedremmo affiorare sul
volto del povero Lenin, che in questi decenni si dev’essere rivoltato nella tomba
come un trottola, un sarcastico sorriso di Schadenfreude.*
Sergio
Bologna
NOTA DI FAQ TRIESTE : Ringraziamo Sergio Bologna per aver inserito Faq Trieste nei suoi contatti e di permetterci di pubblicare i suoi interventi e ragionamenti.
* sorriso di Schadenfreude : sorriso provocato dal piacere per le disgrazie altrui
La mia cartomante (PhD in maritime economics) mi ha detto che ci saranno altre failures nel settore.
RispondiEliminaE, come in Highlander, ne RESTERA' UNO SOLO (che però, stanco dalla lotta, si dedicherà ai nipotini).
Al premio Nobel Michael Porter si chiede una conferma nonchè una benevola comprensione per l'ABUSO delle sue teorie economiche sulla leadership di prezzo