martedì 28 giugno 2016

CURIOSITA' O CATTIVERIA ?

IL NOSTRO ESPERTO DI COMUNICAZIONE E' SEMPLICEMENTE CATTIVO !

   Ma non avresti potuto lasciar perdere ? Una svista può capitare ? Ma tu non sbagli mai ?

Inizio dalla fine : io sbaglio spesso ma mi piace che chi mi legge lo faccia con attenzione e corregga i miei errori.

Questa è peggio di una svista.

Mi sono letto l'ennesimo articolo dove si parla e si analizza , dal punto di vista del linguaggio, il carattere dei due protagonisti dell'ultimo ballottaggio elettorale. Forse sarebbe il caso di smetterla di rappresentare le ultime elezioni come il confronto tra due personaggi in commedia e evidenziare gli interessi e le politiche che questa scelta degli elettori ha compiuto, insomma le reali forze in campo che hanno giocato in queste elezioni comunali.

LE "CONVERGENZE PARALLELE" DI ALDO MORO E NON DI ANDREOTTI

Dal punto di vista retorico, l'espressione è un ossimoro, perché nasce dall'accostamento di due parole in antitesi. Le convergenze parallele sono infatti un paradosso. Nella comune intuizione geometrica, e nella geometria euclidea, due rette parallele non possono convergere: nel piano, infatti due rette si dicono parallele proprio quando sono prive di punti in comune, cioè quando non si intersecano.

L'espressione è spesso usata per indicare che a due partiti o movimenti può capitare di convergere su alcuni punti, pur mantenendo una sostanziale coerenza con le rispettive (e differenti) culture e linee politiche.

Si tratta di un'espressione d'autore, storicamente attribuita ad Aldo Moro, che, verosimilmente, trae origine da un discorso pronunciato nell'ambito del
congresso di Firenze della Democrazia Cristiana del 1959, inerente alla politica delle alleanze. L'affermazione secondo cui "in tale direttrice diviene indispensabile progettare convergenze di lungo periodo con le sinistre, pur rifiutando il totalitarismo comunista" ha dato spunto al concetto delle convergenze parallele.


Il III° Governo Fanfani dura dal luglio 1960 al febbraio 1962.  Passa alla storia come il governo "delle convergenze parallele", il processo politico che porta con cautela e determinazione verso il centro-sinistra organico. Sono anche gli anni del boom economico per l'Italia, di una emigrazione interna al Paese, di una massiccia scolarizzazione rispetto al decennio precedente.


per dovere di cronaca di seguito trovate il testo completo dell'articolo sul lessico della politica triestina .... ma prima ci permetta l'autore di consigliare un libro che nel titolo riporta una analoga affermazione : La misteriosa curva della retta di Lenin












Dal frasario meditato dell’ex sindaco alla battuta diretta e immediata dell’attuale

Il nuovo lessico della politica triestina

di Pietro Spirito

TRIESTE Da Roberto Cosolini a Roberto Dipiazza, a cambiare non è stato solo il sindaco, ma anche il lessico della politica triestina. Da una parte, quella vincente, «l’abbraccio dei cittadini», l’emozione di «vivere in questa città magica», il «parlare con la gente». 

Dall’altra, quella sconfitta, il «rinnovamento civico», la «discussione serrata», le «componenti» che sono sempre «altre». Da una parte l’espressione diretta, immediata, la battuta sparata ad alzo zero. Dall’altra il frasario meditato, mediato, l’arguzia sottile in punta di fioretto. Il confronto tra i due Roberti non è stato solo un duello politico-elettorale ma, come del resto spesso accade in politica, una dialettica fra mondi diversi, non sempre contrapposti, ma comunque lontani, comunicati attraverso linguaggi riconoscibili, forme del parlare in cui significati e significanti a volte si ingarbugliano, si elidono a vicenda, ma descrivono lo stesso un modo di interpretare le cose, con l’obiettivo di condividerlo con quante più persone, o elettori, possibili. 

Per Dipiazza l’iconografia corrente ci restituisce l’immagine di un uomo fai da te, schietto e diretto, rodata in quindici anni di amministrazione da primo cittadino. Nessuna scuola politica, nessuna militanza di lungo corso nei ranghi di un partito, quei percorsi che un tempo forgiavano il linguaggio dei giovani destinati e diventare politici di carriera, dal «non rinnegare, non restaurare» di Almirante alle «convergenze parallele» di Andreotti alla «sinistra sono io» di Craxi. Come un’apprendista samurai dell’antico Giappone, Dipiazza ha imparato imitando a specchio il suo maestro, sorretto dall’esperienza acquisita sul campo e nel contatto diretto con la gente, affinando la capacità di ascoltare il cliente, percepire i suoi bisogni e andargli incontro per offrire la sua merce migliore. Il linguaggio è rimasto quello: pragmatico, aperto, spesso ingenuo, incline all’aforisma facile o, nel peggiore dei casi, alle clamorose cadute di stile al limite della maleducazione. 

Ma, soprattutto, dedito a una forma comunicativa giocata sul piano emozionale: la «città magica», i «cittadini che amo», l’«emozione che provo», puntando dritto al cuore della gente, e pazienza se qualche volta si manca il bersaglio. Le sue famose e numerose gaffe, dall’onore ai martiri delle foibe gridato in Risiera fino alla dichiarata volontà, secondo vulgata, di telefonare ad Andy Warhol per risolvere una spinosa questione in occasione, nel 2006, della mostra dell’artista scomparso nel 1987, sono figlie di un’attitudine linguistico-formale che ha fatto del populismo - inteso più come atteggiamento demagogico per assecondare le aspettative del popolo che come attitudine a una politica fondata sui valori delle classi popolari - la sua cifra di riferimento. Di tutt’altra trama la radice linguistica di Cosolini, che nasce e cresce come uomo d’apparato, progredito nelle organizzazioni dell’economia e del lavoro. 

Quel mondo strutturato che gli ha dato la «possibilità di maturare esperienze gestionali di alto profilo in un’area vasta con problematiche fortemente differenziate», abituandolo a un «approccio riformista e condiviso di tutela del lavoro che rafforza la coesione sociale». La sua iconografia corrente rimanda a quello spassoso libretto pubblicato anni fa dall’editrice Bora.La e intitolato “El libreto rosso de Cosolini” (che Cosolini stesso regalò ai suoi più stretti collaboratori) in cui i rimandi alla nomenclatura di sovietica memoria ironizzavano sulla sua propensione a prediligere forme comunicative tipiche degli organi direttivi di un governo, di un partito o di un’organizzazione. Ed ecco allora due linguaggi a confronto: la voce impostata e sostenuta di Dipiazza, con la ricerca di soluzioni affabulatorie quanto più spedite possibili («Dobbiamo agganciarci a Venezia»), quel rivolgersi diretto all’interlocutore («Non dovete dimenticare che avete due assi per rilanciare la città»), un atteggiamento da buon compagnone, da caposquadra, da allenatore al campetto o sceriffo vagamente burbero, ma solo perché ha da svolgere un gravoso compito che gli è stato affidato. 

All’opposto Cosolini con la sua erre blesa, che rimanda inevitabilmente al modello Bertinotti. Modello che incombe come un’ombra sulla massiccia figura dell’ex sindaco il quale, parlando per esempio di un argomento allarmante come la Ferriera, rimanda a un «accordo che ha previsto interventi migliorativi per ridurre le emissioni», confessando che «sul benzopirene siamo soddisfatti». Ce l’ha messa tutta, Cosolini, per alleggerirsi almeno un po’ di quell’antipatia congenita della sinistra italiana, fatta di linguaggi codificati e perciò definitivi, di schemi esclusivi e preminenza morale. Ma non è servito. Due mondi, due linguaggi, una sola città. Abituata per altro ad esprimere nella sua lingua vernacolare il senso di una verità secondo la quale «anche se se parla de monade, le robe va fatte ben».




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