Ma non avresti potuto lasciar perdere ? Una svista può capitare ? Ma tu non sbagli mai ?
Inizio dalla fine : io sbaglio spesso ma mi piace che chi mi legge lo faccia con attenzione e corregga i miei errori.
Questa è peggio di una svista.
Mi sono letto l'ennesimo articolo dove si parla e si analizza , dal punto di vista del linguaggio, il carattere dei due protagonisti dell'ultimo ballottaggio elettorale. Forse sarebbe il caso di smetterla di rappresentare le ultime elezioni come il confronto tra due personaggi in commedia e evidenziare gli interessi e le politiche che questa scelta degli elettori ha compiuto, insomma le reali forze in campo che hanno giocato in queste elezioni comunali.
LE "CONVERGENZE PARALLELE" DI ALDO MORO E NON DI ANDREOTTI

L'espressione è spesso usata per indicare che a due partiti
o movimenti può capitare di convergere su alcuni punti, pur mantenendo una
sostanziale coerenza con le rispettive (e differenti) culture e linee
politiche.
Si tratta di un'espressione d'autore, storicamente
attribuita ad Aldo Moro, che, verosimilmente, trae origine da un discorso
pronunciato nell'ambito del
congresso di Firenze della Democrazia Cristiana del
1959, inerente alla politica delle alleanze. L'affermazione secondo cui
"in tale direttrice diviene indispensabile progettare convergenze di lungo
periodo con le sinistre, pur rifiutando il totalitarismo comunista" ha
dato spunto al concetto delle convergenze parallele.
Il III° Governo Fanfani dura dal luglio 1960 al febbraio
1962. Passa alla storia come il governo
"delle convergenze parallele", il processo politico che porta con
cautela e determinazione verso il centro-sinistra organico. Sono anche gli anni
del boom economico per l'Italia, di una emigrazione interna al Paese, di una
massiccia scolarizzazione rispetto al decennio precedente.

Dal frasario meditato dell’ex sindaco alla battuta diretta e
immediata dell’attuale
Il nuovo lessico della politica triestina
di Pietro Spirito
TRIESTE Da Roberto Cosolini a Roberto Dipiazza, a cambiare
non è stato solo il sindaco, ma anche il lessico della politica triestina. Da
una parte, quella vincente, «l’abbraccio dei cittadini», l’emozione di «vivere
in questa città magica», il «parlare con la gente».
Dall’altra, quella
sconfitta, il «rinnovamento civico», la «discussione serrata», le «componenti»
che sono sempre «altre». Da una parte l’espressione diretta, immediata, la
battuta sparata ad alzo zero. Dall’altra il frasario meditato, mediato,
l’arguzia sottile in punta di fioretto. Il confronto tra i due Roberti non è
stato solo un duello politico-elettorale ma, come del resto spesso accade in
politica, una dialettica fra mondi diversi, non sempre contrapposti, ma
comunque lontani, comunicati attraverso linguaggi riconoscibili, forme del parlare
in cui significati e significanti a volte si ingarbugliano, si elidono a
vicenda, ma descrivono lo stesso un modo di interpretare le cose, con
l’obiettivo di condividerlo con quante più persone, o elettori, possibili.
Per
Dipiazza l’iconografia corrente ci restituisce l’immagine di un uomo fai da te,
schietto e diretto, rodata in quindici anni di amministrazione da primo
cittadino. Nessuna scuola politica, nessuna militanza di lungo corso nei ranghi
di un partito, quei percorsi che un tempo forgiavano il linguaggio dei giovani
destinati e diventare politici di carriera, dal «non rinnegare, non restaurare»
di Almirante alle «convergenze parallele» di Andreotti alla «sinistra sono io»
di Craxi. Come un’apprendista samurai dell’antico Giappone, Dipiazza ha
imparato imitando a specchio il suo maestro, sorretto dall’esperienza acquisita
sul campo e nel contatto diretto con la gente, affinando la capacità di
ascoltare il cliente, percepire i suoi bisogni e andargli incontro per offrire
la sua merce migliore. Il linguaggio è rimasto quello: pragmatico, aperto,
spesso ingenuo, incline all’aforisma facile o, nel peggiore dei casi, alle
clamorose cadute di stile al limite della maleducazione.
Ma, soprattutto,
dedito a una forma comunicativa giocata sul piano emozionale: la «città
magica», i «cittadini che amo», l’«emozione che provo», puntando dritto al
cuore della gente, e pazienza se qualche volta si manca il bersaglio. Le sue
famose e numerose gaffe, dall’onore ai martiri delle foibe gridato in Risiera
fino alla dichiarata volontà, secondo vulgata, di telefonare ad Andy Warhol per
risolvere una spinosa questione in occasione, nel 2006, della mostra
dell’artista scomparso nel 1987, sono figlie di un’attitudine
linguistico-formale che ha fatto del populismo - inteso più come atteggiamento
demagogico per assecondare le aspettative del popolo che come attitudine a una
politica fondata sui valori delle classi popolari - la sua cifra di
riferimento. Di tutt’altra trama la radice linguistica di Cosolini, che nasce e
cresce come uomo d’apparato, progredito nelle organizzazioni dell’economia e
del lavoro.
Quel mondo strutturato che gli ha dato la «possibilità di maturare
esperienze gestionali di alto profilo in un’area vasta con problematiche
fortemente differenziate», abituandolo a un «approccio riformista e condiviso
di tutela del lavoro che rafforza la coesione sociale». La sua iconografia
corrente rimanda a quello spassoso libretto pubblicato anni fa dall’editrice
Bora.La e intitolato “El libreto rosso de Cosolini” (che Cosolini stesso regalò
ai suoi più stretti collaboratori) in cui i rimandi alla nomenclatura di
sovietica memoria ironizzavano sulla sua propensione a prediligere forme
comunicative tipiche degli organi direttivi di un governo, di un partito o di
un’organizzazione. Ed ecco allora due linguaggi a confronto: la voce impostata
e sostenuta di Dipiazza, con la ricerca di soluzioni affabulatorie quanto più
spedite possibili («Dobbiamo agganciarci a Venezia»), quel rivolgersi diretto
all’interlocutore («Non dovete dimenticare che avete due assi per rilanciare la
città»), un atteggiamento da buon compagnone, da caposquadra, da allenatore al
campetto o sceriffo vagamente burbero, ma solo perché ha da svolgere un gravoso
compito che gli è stato affidato.
All’opposto Cosolini con la sua erre blesa,
che rimanda inevitabilmente al modello Bertinotti. Modello che incombe come
un’ombra sulla massiccia figura dell’ex sindaco il quale, parlando per esempio
di un argomento allarmante come la Ferriera, rimanda a un «accordo che ha
previsto interventi migliorativi per ridurre le emissioni», confessando che
«sul benzopirene siamo soddisfatti». Ce l’ha messa tutta, Cosolini, per
alleggerirsi almeno un po’ di quell’antipatia congenita della sinistra
italiana, fatta di linguaggi codificati e perciò definitivi, di schemi
esclusivi e preminenza morale. Ma non è servito. Due mondi, due linguaggi, una
sola città. Abituata per altro ad esprimere nella sua lingua vernacolare il
senso di una verità secondo la quale «anche se se parla de monade, le robe va
fatte ben».
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