mercoledì 20 aprile 2016

CI SCRIVE SERGIO BOLOGNA E NON SA SE ABBIAMO FATTO BENE A ....

Cari redattori,
non so se avete fatto bene nel vostro blog FAQ Trieste, a dare risalto alle idee di Costa ed alle esternazioni (per usare un eufemismo) del prof. Maresca, riportate con ossequiosa sollecitudine da MediTelegraph nel numero del 14 aprile, nel senso che è già grave veder subito proiettate nello spazio della comunicazione certe scemenze.Vederle rilanciate provoca, in me almeno, un senso di sconforto. Comunque, visto che ci siamo, andiamo avanti. 

Vi inviterei allora a mettere accanto ai prodotti dei due autori succitati altre due notizie che lo stesso numero di MediTelegraph
riporta, quelle in particolare che si riferiscono all’IMEC, meglio nota come l’International Maritime Employers’ Council, l’Associazione degli armatori che usano le bandiere ombra. 

Fino a ieri, anzi fino a stamane, prima di aprire la posta elettronica, ero convinto che gli armatori delle flag of convenience fossero in sostanza degli evasori fiscali legalizzati. Iscrivere una nave sul registro di un paese delle flag of convenience equivale a fare un’operazione off shore per fini fiscali. Proprio in questi giorni, dove tutto il mondo sta discutendo dei Panama Papers, questa cosa dovrebbe apparire evidente. 

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Ci dice invece un certo signor Guadagna (nomen est omen), socio dell’IMEC, che non è più così e che l’immagine delle bandiere ombra trasmessa dal passato appartiene ormai alle leggende metropolitane. Ne prendo atto e ne sono felice. Al tempo stesso questo signore avanza l’ipotesi che, per superare l’attuale momento di difficoltà del settore dell’armamento (causato, voglio ricordarlo, dalla politica sconsiderata di aumento dell’offerta perseguito dagli armatori stessi) il governo italiano potrebbe concedere qualche piccola misura di alleggerimento fiscale. 

Ora, a me viene spontaneo rivolgere in questo momento un pensiero alle migliaia di imprenditori italiani di tutti i settori (meccanico, chimico, tessile, siderurgico ecc. ecc.) per sapere come fanno ad andare avanti, essendo privi di quelle agevolazioni fiscali – al limite del vergognoso – di cui gode invece un imprenditore dell’armamento nel nostro paese. Questo pensiero è tanto più pertinente se teniamo presente che, malgrado il regime di favore di cui godono, i nostri armatori si trovano nella grande maggioranza con l’acqua alla gola, ostaggi della volontà/disponibilità delle banche a ristrutturare i loro debiti, a tenerli in vita con iniezioni di quell’ossigeno che viene negato invece a tantissimi imprenditori con buone prospettive economiche e di mercato o a giovani startupper. 

Ma ci rendiamo conto che un’Associazione come Confitarma in realtà è un lazzaretto di imprese in crisi? Quale autorevolezza può pretendere di avere un’Associazione del genere? Con quale diritto pontifica sulle sorti della portualità italiana? Il cav. Grimaldi si rende conto della sua singolare somiglianza con un certo Brancaleone?

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Ma torniamo all’IMEC, la quale comunica tramite MediTelegraph con grande enfasi alla shipping community, che ha deciso di recarsi in Cina a cercare marittimi a miglior prezzo perché ormai “strozzata” dalle pretese dei marittimi filippini, i quali eserciterebbero una specie di monopolio sul mercato degli equipaggi, imponendo i contratti-capestro dell’ITF. Ora, soltanto la mia non giovane età mi permette di ricordare come sono stati trattati i marittimi filippini per decenni, con quale disprezzo per la loro dignità umana e come ci siano voluti anni di lotte, di sacrifici – anche della vita – di certi coraggiosi sindacalisti per riuscire a mobilitarli in difesa dei loro diritti elementari ed a farne da schiavi degli uomini. 

Anni di sudore e di sangue, che hanno portato lo Stato filippino ad investire massicciamente in formazione (con l’aiuto di altre nazioni marinare, certo, ed anche di alcuni armatori responsabili) al punto che oggi quando si parla di un marinaio filippino della bassa forza non si parla più di un disperato che balbetta qualche parola d’inglese ma di un lavoratore con una sua qualifica ed una sua dignitosa preparazione professionale. Che chiede di essere pagato meglio. Vedremo se lo stato cinese, che ancora fa sventolare sui suoi uffici la bandiera rossa, sarà disposto a dare in pasto a questi galantuomini delle bandiere ombra migliaia di suoi concittadini.

Perché mi viene spontaneo dire questo, leggendo certe notizie? 

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Perché penso ai giovani che noi avviamo agli studi negli istituti nautici. Se facciamo vedere a loro in faccia la realtà, se soltanto forniamo loro alcuni cenni della situazione attuale sui mari, dove l’irresponsabilità collettiva ha portato di fatto a distruggere il mercato dei noli, a costruire navi giganti per poi metterle in disarmo o demolirle, a gravare sui bilanci delle banche con crediti deteriorati,  senza parlare dei crimini quotidiani contro l’ambiente (nello stesso numero di MediTelegraph si comunica con entusiasmo che una nave da crociera extralusso, la ‘Crystal Serenity’, si prepara ad attraversare l’Artico scortata da una rompighiaccio, alla faccia del riscaldamento globale e dello scioglimento dei ghiacci – immaginate quanti selfie scatteranno i crocieristi sullo sfondo di un orso polare inscheletrito?). 

Se noi quindi davanti a questi giovani aspiranti uomini di mare dispieghiamo la realtà di oggi, quale messaggio morale trasmettiamo, quale dei valori che hanno reso degna di vivere una professione del genere riusciamo ancora a identificare come retaggio prezioso? Soldi e disonestà, denaro e irresponsabilità, queste le accoppiate vincenti. Questo è il messaggio che rischiamo di trasmettere, se siamo onesti nei loro confronti. Se vogliamo invece ingannarli, allora basta che seguiamo lo stile della cosiddetta “stampa specializzata”.

E veniamo alle idee di Paolo Costa, che, anche se non sono condivisibili, sono sempre stimolanti mentre le esternazioni (per usare un eufemismo) del suo collega professore difficilmente riescono a suscitare un minimo d’interesse (tranne nelle alte sfere del governo, dice lui).

Fateci caso: è una delle prime volte che Costa si pone il problema dell’utenza finale. 

Quali vantaggi porterebbe la realizzazione della sua piattaforma d’altura all’impresa veneta? Questa domanda se l’è posta finalmente lui o qualcuno, tra i suoi critici, gliela ha messa sul tavolo? So per certo che qualcuno l’ha tirata fuori questa questione.

Costa si pone correttamente il problema: come viene distribuito il valore nella sequenza della supply chain che vede protagonisti gli armatori, i terminalisti, gli spedizionieri/operatori logistici, gli imprenditori manifatturieri? 

Viene distribuito in maniera ineguale ed una parte sproporzionatamente alta andrebbe agli intermediari, ossia agli spedizionieri, secondo lui. Il problema dell’intermediazione parassitaria è un problema annoso, una specie di tormentone che ci perseguita da anni, sarebbe ora anche di mandarlo in soffitta. 

Guardiamo invece come si è modernizzato il settore. Premesso che è lo spedizioniere/operatore logistico a rispondere delle operazioni di trasporto, sia verso il proprietario della merce che verso l’armatore, con l’introduzione della figura dell’”operatore economico autorizzato” come soggetto accreditato presso gli uffici doganali, con l’istituzione dei corridoi doganali, con il preclearing ed altro, lo spedizioniere ha acquistato un ruolo istituzionale che certo non può essere banalizzato come “intermediazione”. 

Invece di chiedersi quale degli attori della supply chain dovrebbe rinunciare a una sua fettina di torta, Paolo Costa dovrebbe dirci come vede lui la quota di valore che viene assorbita dall’Autorità portuale. Io non ho idee in proposito, so soltanto che il Presidente di un porto è un funzionario pubblico al quale è affidata la valorizzazione di un patrimonio pubblico. 

Quindi deve avere prima di tutto un alto senso dello Stato ed una forte attenzione affinché le sue azioni non gravino ulteriormente sul contribuente. Quando vedo dei Presidenti che con estrema leggerezza praticano sconti indecenti agli armatori per sottrarre traffico al porto vicino o decidono di abbassare tariffe di servizi nautici a gogò, penso sempre che la loro generosità è fatta alle spalle dei cittadini che pagano le tasse. 

Se tutta la loro potenza di marketing si riduce a questo, poveri noi! 

Ma lo stesso pensiero mi viene all’idea di un porto di altura dal costo di due miliardi di euro, che non porta nessun vantaggio, né in termini di tempo, né in termini di costo, né in termini di qualità del servizio, all’utente finale ma fa gola soltanto ai costruttori. 

Oppure che porta dei vantaggi così limitati da chiedersi se vale la pena investire tanti soldi pubblici in un momento come questo, in un mercato come quello del container oggi dove non si capisce chi guadagna che cosa e in un paese dove mancano fondi per la scuola, per l’università, per i musei, per la manutenzione delle strade, per la tutela del territorio, per l’emergenza migranti, con grandi Comuni come Milano privi di risorse, con banche gravate da 180 miliardi di sofferenze!

Ma queste parole chi le raccoglie, chi le ascolta? Se invece proponessi di costruire una nave-drone che, giunta in un porto, si solleva e vola fino al primo Interporto, magari alimentata a LNG, troverei subito un MediTelegraph pronto a metterla in copertina.

Sergio Bologna



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