Cari redattori,
non so se avete fatto bene nel
vostro blog FAQ Trieste, a dare risalto alle idee di Costa ed alle esternazioni
(per usare un eufemismo) del prof. Maresca, riportate con ossequiosa
sollecitudine da MediTelegraph nel numero del 14 aprile, nel senso che è già
grave veder subito proiettate nello spazio della comunicazione certe scemenze.Vederle rilanciate provoca, in me
almeno, un senso di sconforto. Comunque, visto che ci siamo, andiamo avanti.
Vi
inviterei allora a mettere accanto ai prodotti dei due autori succitati altre
due notizie che lo stesso numero di MediTelegraph
riporta, quelle in particolare che si riferiscono all’IMEC, meglio nota come l’International Maritime Employers’ Council, l’Associazione degli armatori che usano le bandiere ombra.
riporta, quelle in particolare che si riferiscono all’IMEC, meglio nota come l’International Maritime Employers’ Council, l’Associazione degli armatori che usano le bandiere ombra.
Fino a ieri, anzi fino a stamane, prima di aprire la posta
elettronica, ero convinto che gli armatori delle flag of convenience fossero in
sostanza degli evasori fiscali legalizzati. Iscrivere una nave sul registro di
un paese delle flag of convenience equivale a fare un’operazione off shore per
fini fiscali. Proprio in questi giorni, dove tutto il mondo sta discutendo dei
Panama Papers, questa cosa dovrebbe apparire evidente.
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Ci dice invece un certo
signor Guadagna (nomen est omen), socio dell’IMEC, che non è più così e che
l’immagine delle bandiere ombra trasmessa dal passato appartiene ormai alle
leggende metropolitane. Ne prendo atto e ne sono felice. Al tempo stesso questo
signore avanza l’ipotesi che, per superare l’attuale momento di difficoltà del
settore dell’armamento (causato, voglio ricordarlo, dalla politica sconsiderata
di aumento dell’offerta perseguito dagli armatori stessi) il governo italiano
potrebbe concedere qualche piccola misura di alleggerimento fiscale.
Ora, a me
viene spontaneo rivolgere in questo momento un pensiero alle migliaia di
imprenditori italiani di tutti i settori (meccanico, chimico, tessile,
siderurgico ecc. ecc.) per sapere come fanno ad andare avanti, essendo privi di
quelle agevolazioni fiscali – al limite del vergognoso – di cui gode invece un
imprenditore dell’armamento nel nostro paese. Questo pensiero è tanto più
pertinente se teniamo presente che, malgrado il regime di favore di cui godono,
i nostri armatori si trovano nella grande maggioranza con l’acqua alla gola,
ostaggi della volontà/disponibilità delle banche a ristrutturare i loro debiti,
a tenerli in vita con iniezioni di quell’ossigeno che viene negato invece a
tantissimi imprenditori con buone prospettive economiche e di mercato o a
giovani startupper.
Ma ci rendiamo conto che un’Associazione come Confitarma in
realtà è un lazzaretto di imprese in crisi? Quale autorevolezza può pretendere
di avere un’Associazione del genere? Con quale diritto pontifica sulle sorti
della portualità italiana? Il cav. Grimaldi si rende conto della sua singolare
somiglianza con un certo Brancaleone?
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Ma torniamo all’IMEC, la quale
comunica tramite MediTelegraph con grande enfasi alla shipping community, che
ha deciso di recarsi in Cina a cercare marittimi a miglior prezzo perché ormai
“strozzata” dalle pretese dei marittimi filippini, i quali eserciterebbero una
specie di monopolio sul mercato degli equipaggi, imponendo i contratti-capestro
dell’ITF. Ora, soltanto la mia non giovane età mi permette di ricordare come
sono stati trattati i marittimi filippini per decenni, con quale disprezzo per
la loro dignità umana e come ci siano voluti anni di lotte, di sacrifici –
anche della vita – di certi coraggiosi sindacalisti per riuscire a mobilitarli
in difesa dei loro diritti elementari ed a farne da schiavi degli uomini.
Anni
di sudore e di sangue, che hanno portato lo Stato filippino ad investire
massicciamente in formazione (con l’aiuto di altre nazioni marinare, certo, ed
anche di alcuni armatori responsabili) al punto che oggi quando si parla di un
marinaio filippino della bassa forza non si parla più di un disperato che
balbetta qualche parola d’inglese ma di un lavoratore con una sua qualifica ed
una sua dignitosa preparazione professionale. Che chiede di essere pagato
meglio. Vedremo se lo stato cinese, che ancora fa sventolare sui suoi uffici la
bandiera rossa, sarà disposto a dare in pasto a questi galantuomini delle
bandiere ombra migliaia di suoi concittadini.
Perché mi viene spontaneo dire
questo, leggendo certe notizie?
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Perché penso ai giovani che noi avviamo agli
studi negli istituti nautici. Se facciamo vedere a loro in faccia la realtà, se
soltanto forniamo loro alcuni cenni della situazione attuale sui mari, dove
l’irresponsabilità collettiva ha portato di fatto a distruggere il mercato dei
noli, a costruire navi giganti per poi metterle in disarmo o demolirle, a
gravare sui bilanci delle banche con crediti deteriorati, senza parlare dei crimini quotidiani contro
l’ambiente (nello stesso numero di MediTelegraph si comunica con entusiasmo che
una nave da crociera extralusso, la ‘Crystal Serenity’, si prepara ad attraversare
l’Artico scortata da una rompighiaccio, alla faccia del riscaldamento globale e
dello scioglimento dei ghiacci – immaginate quanti selfie scatteranno i
crocieristi sullo sfondo di un orso polare inscheletrito?).
Se noi quindi
davanti a questi giovani aspiranti uomini di mare dispieghiamo la realtà di
oggi, quale messaggio morale trasmettiamo, quale dei valori che hanno reso
degna di vivere una professione del genere riusciamo ancora a identificare come
retaggio prezioso? Soldi e disonestà, denaro e irresponsabilità, queste le
accoppiate vincenti. Questo è il messaggio che rischiamo di trasmettere, se
siamo onesti nei loro confronti. Se vogliamo invece ingannarli, allora basta
che seguiamo lo stile della cosiddetta “stampa specializzata”.
E veniamo alle idee di Paolo Costa,
che, anche se non sono condivisibili, sono sempre stimolanti mentre le
esternazioni (per usare un eufemismo) del suo collega professore difficilmente
riescono a suscitare un minimo d’interesse (tranne nelle alte sfere del
governo, dice lui).
Fateci caso: è una delle prime
volte che Costa si pone il problema dell’utenza finale.
Quali vantaggi
porterebbe la realizzazione della sua piattaforma d’altura all’impresa veneta?
Questa domanda se l’è posta finalmente lui o qualcuno, tra i suoi critici,
gliela ha messa sul tavolo? So per certo che qualcuno l’ha tirata fuori questa
questione.
Costa si pone correttamente il
problema: come viene distribuito il valore nella sequenza della supply chain
che vede protagonisti gli armatori, i terminalisti, gli spedizionieri/operatori
logistici, gli imprenditori manifatturieri?
Viene distribuito in maniera
ineguale ed una parte sproporzionatamente alta andrebbe agli intermediari,
ossia agli spedizionieri, secondo lui. Il problema dell’intermediazione
parassitaria è un problema annoso, una specie di tormentone che ci perseguita
da anni, sarebbe ora anche di mandarlo in soffitta.
Guardiamo invece come si è
modernizzato il settore. Premesso che è lo spedizioniere/operatore logistico a
rispondere delle operazioni di trasporto, sia verso il proprietario della merce
che verso l’armatore, con l’introduzione della figura dell’”operatore economico
autorizzato” come soggetto accreditato presso gli uffici doganali, con
l’istituzione dei corridoi doganali, con il preclearing ed altro, lo
spedizioniere ha acquistato un ruolo istituzionale che certo non può essere
banalizzato come “intermediazione”.
Invece di chiedersi quale degli attori
della supply chain dovrebbe rinunciare a una sua fettina di torta, Paolo Costa
dovrebbe dirci come vede lui la quota di valore che viene assorbita
dall’Autorità portuale. Io non ho idee in proposito, so soltanto che il
Presidente di un porto è un funzionario pubblico al quale è affidata la
valorizzazione di un patrimonio pubblico.
Quindi deve avere prima di tutto un
alto senso dello Stato ed una forte attenzione affinché le sue azioni non
gravino ulteriormente sul contribuente. Quando vedo dei Presidenti che con
estrema leggerezza praticano sconti indecenti agli armatori per sottrarre
traffico al porto vicino o decidono di abbassare tariffe di servizi nautici a
gogò, penso sempre che la loro generosità è fatta alle spalle dei cittadini che
pagano le tasse.
Se tutta la loro potenza di marketing si riduce a questo,
poveri noi!
Ma lo stesso pensiero mi viene all’idea di un porto di altura dal
costo di due miliardi di euro, che non porta nessun vantaggio, né in termini di
tempo, né in termini di costo, né in termini di qualità del servizio,
all’utente finale ma fa gola soltanto ai costruttori.
Oppure che porta dei
vantaggi così limitati da chiedersi se vale la pena investire tanti soldi
pubblici in un momento come questo, in un mercato come quello del container
oggi dove non si capisce chi guadagna che cosa e in un paese dove mancano fondi
per la scuola, per l’università, per i musei, per la manutenzione delle strade,
per la tutela del territorio, per l’emergenza migranti, con grandi Comuni come
Milano privi di risorse, con banche gravate da 180 miliardi di sofferenze!
Ma queste parole chi le raccoglie,
chi le ascolta? Se invece proponessi di costruire una nave-drone che, giunta in
un porto, si solleva e vola fino al primo Interporto, magari alimentata a LNG,
troverei subito un MediTelegraph pronto a metterla in copertina.
Sergio Bologna
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