Container, Federagenti: "In Italia solo piccoli
giganti"
I grattacapi degli assicuratori e il destino della logistica
in Italia di fronte a bestioni da oltre 15mila teu che condizioneranno,
direttamente o indirettamente, il futuro del trasporto in Italia. Di questo si
è discusso oggi a Roma al convegno organizzato da Federagenti Il confine dei
giganti che, oltre ai saluti del presidente Michele Pappalardo, ha visto le
relazioni di professori e analisti.
Saranno pochi i porti italiani che potranno ospitare le
grandi navi portacontainer, e neanche le più grandi: fino a un massimo di
15mila, forse in casi eccezionali 16mila teu. E ciò non solo perché le
infrastrutture portuali e le dimensioni dei nostri porti non consentono
l'ingresso di navi da 21mila teu lunghe quattro campi di calcio di San Siro,
larghe 60 metri e con uno scafo immerso per oltre 17 metri. I motivi sono due.
In Italia non c'è una concentrazione di porti-container.
In secondo luogo le
strategie degli armatori sulle grandi portacontenitori
prediligono rotte
Asia-Europa direttamente collegate al northern range, dando al Mediterraneo un
ruolo di trasbordo. In altre parole, i giganti del mare non arriveranno in
Italia, questo è sicuro. La questione è: quali saranno le conseguenze per la
nostra economia?
La fragilità della logistica italiana
Gli agenti marittimi, e più in generale l’intero cluster
marittimo italiano, denunciano una fragilità complessiva del sistema Italia.
Secondo il presidente Federagenti Michele Pappalardo non ci sono attualmente
interventi legislativi, regolatori e infrastrutturali nel settore. Il paese
perciò si trova a subire passivamente scelte sulle quali non può incidere
perché non può contare sulla definizione di un piano logistico (tenendo anche
conto che quello che il governo sta preparando è in parte incostituzionale) né
su scelte precise su quali porti (e quali sistemi infrastrutturali coerenti)
potranno ambire a un ruolo sulle grandi rotte del trasporto container.
«La
rivoluzione in atto nel mercato dei container – secondo Pappalardo – implica la
messa in campo di una macchina organizzativa seria. E i tempi per costruirla
sono terribilmente stretti». Questa incertezza risulta ancora più rischiosa
vista la lontananza dalle coste italiane delle navi giganti, oggetto di
contratti di costruzione sempre più frequenti da parte delle grandi compagnie
di trasporto container. «La scelta dei grandi gruppi armatoriali ha una sua
logica» secondo Pappalardo: «in un mercato dei noli che ormai da quasi dieci
anni ha prua verso il basso, le economie di scala garantite da queste navi
forniscono una risposta logica».
Secondo il professore Sergio Bologna il mondo marittimo,
dove viaggiano il novanta per cento dei beni di consumo, rischia una grande
bolla finanziaria. Negli ultimi cinque anni la flotta mondiale per il trasporto
merci è cresciuta a un tasso medio del 7 per cento, a fronte di una recessione
economica mondiale e di una domanda globale di beni di consumo che non supera
il 6 per cento annuo. A questo si aggiunge una flessione del tasso di sviluppo
della Cina. Tassi di crescita della capacità della flotta quasi a doppia cifra
a fronte di una crescita media del due per cento del Pil mondiale. L'Italia
rischia di subire non solo l’impatto dello squilibrio fra domanda e offerta ma
anche una crescente emarginazione dalle grandi rotte dell’interscambio
mondiale.
Navi giganti inassicurabili
Fino al 2006 era Guangzhou Cosco la portacontainer più
grande con i suoi 9,500 teu di capacità. Nello stesso anno è seguita Emma
Maersk da 13mila teu.
Nel 2014 è arrivata Cscl Globe da oltre 19mila teu. All'inizio
di quest'anno Msc Oscar, Msc Oliver ed Msc Zoe, che con 19.200 teu sono
attualmente le più grandi costruite.
Nel frattempo sempre quest'anno Maersk ha
ordinato ai cantieri coreani Daewoo unità da oltre 20mila teu. Curiosamente,
sono navi che crescono soltanto in ampiezza: Emma Maersk è lunga 397 metri, Msc
Oscar 396. Navi sempre più grandi ma sempre meno cariche di merci in
proporzione per via della crisi economica. Così i tassi di nolo degli spazi
dove ospitare i container sono oggi più bassi del 2008, raggiungendo oggi i
1.080 dollari per teu.
Assicurare questi bestioni è molto complicato. «Mentre il
valore di una ultra large container vessel sarebbe di 200 milioni – spiega il
direttore operativo Siat Assicurazioni Alessandro Morelli – il valore del
carico varierebbe tra gli 800 milioni e il miliardo con un carico all'80 per
cento della capacità. Una stima che riguarderebbe solamente nave e del carico,
senza prendere in considerazione la rimozione del relitto».
Gigantismo sintomo della finanziarizzazione dello shipping
In un mercato che ha cercato di ritrovare margini di
redditività facendo viaggiare a velocità ridotta le navi o procedendo a fusioni
e concentrazioni, la corsa al gigantismo è solo apparentemente motivata dal
raggiungimento di economie di scala. In realtà il corollario di incentivi
statali e bancatri permette agli armatori (questo in generale da sempre, ma
ancor di più oggi) di costruire a prezzi molto bassi. Risiede più qui la corsa
al gigantismo piuttosto che in un generico “ottimismo” di facciata sul futuro
del mercato. «La finanza dello shipping – spiega Bologna – assomiglia al
settore immobiliare. Le banche hanno elargito generosamente crediti alla
costruzione di navi perché avevano in garanzia un bene materiale, la nave.
A
questo si aggiungono, come fattore distorsivo del mercato, i generosi sussidi
pubblici forniti alla cantieristica del Far East. Sono state costruite navi
dotate dei dispositivi più sofisticati e vendute a prezzi stracciati». Lo
shipping si è finanziarizzato, e non è una bella notizia. «La nave – spiega
Bologna – è sempre meno uno strumento del commercio mondiale e sempre più un
puro asset finanziario. Le banche esposte nel credito all'armamento cedono i
loro non performing loans a cosiddetti “fondi avvoltoio” che s'impadroniscono
di beni già svalutati e li cedono sul mercato dell'usato».
Cosa succederà quando queste navi imbarcheranno e
sbarcheranno in poche ore volumi mai visti di container?
Le opportunità del gigantismo
Le economie di scala, come osserva il professore Acciaro, è
tale solo se anche le infrastrutture a terra siano altrettanto “giganti”,
«altrimenti si parla di economia di densità, che sono già esaurite». Acciaro
non vede nel gigantismo il colpo di grazia alla singhiozzante logistica
italiana, piuttosto rappresenta un'altra opportunità.
«Se da una parte è vero
che gli scali italiano non hanno la rendita di posizione di Amburgo o Rotterdam
– spiega Acciaro -, è vero che anche la dotazione infrastrutturale a mare di
alcuni dei nostri porti, Vado e Trieste per esempio e la posizione di porti del
Nord Tirreno e Adriatico, non ha nulla da invidiare ai porti del Nord Europa.
Il gigantismo potrebbe essere l'incantesimo del pifferaio magico necessario a
risolvere alcuni problemi del sistema portuale italiano, perché l'utilizzo di
queste navi potrebbe favorire l'emergere di nuovi hubs». Per esempio
riprendendo il transhipment, anche se, di fronte a questi colossi i porti di
trasbordo non dovrebbero essere più “puri” ma svilupparsi anche in altre
attività. «Come stanno facendo Tangeri e Port Said – conclude Acciaro -,
sviluppando nuove attività logistiche nel tentativo di consolidare la loro
posizione di porto di adduzione».
Il convegno, dopo i saluti di Paolo Uggè (Confcommercio) ha
visto confrontarsi in una tavola rotonda il presidente di Assoporti, Pasqualino
Monti, il presidente di Assiterminal, Marco Conforti, l’amministratore delegato
di Fercam, Thomas Baumgartner e Ignazio Messina, amministratore delegato della
Ignazio Messina & C. Le conclusioni sono state tracciate dal dirigente del
ministero dei Trasporti Ivano Russo.
Nessun commento:
Posta un commento