Intervista a Sergio Bologna di Anika Perrini-Ritschl
- Prof. Bologna, tra qualche giorno Lei sarà a Vienna per
partecipare come relatore al Rail Summit (Schienengipfel) e parlerà di
collegamenti ferroviari tra porti e hinterland.
Vorrei farLe qualche domanda a questo proposito, prima però vorrei
chiederLe di dirmi qualcosa in generale sulla logistica, perché Lei è reduce
dal congresso di Berlino della BVL. Secondo Lei dove sta andando la logistica,
vede degli sviluppi interessanti?
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| SERGIO BOLOGNA |
Se consideriamo la logistica come un settore a se
stante, direi che ha raggiunto lo stadio della maturità, sistemi organizzativi
e processi hanno ormai un elevato grado di standardizzazione, per cui non vedo
da anni innovazioni di grande portata.
Quello che è cambiato è il contesto in
cui la logistica e le supply chain globali si muovono e per far fronte a questi
mutamenti anche la logistica deve inventarsi qualcosa di nuovo. Per esempio nel
risk management, segmento originariamente ancillare ma che sta diventando pian
piano strategico. Oppure nell’integrazione tra attori diversi della catena, le
stesse piattaforme informatiche sono sempre più “collaborative”.
Gli organizzatori del congresso dicono che erano presenti 40
paesi. Ha notato delle differenze tra la logistica che si fa in Italia rispetto
a quella che si fa in altri Paesi?
Come Le ho detto i processi hanno raggiunto un grado di
standardizzazione tale che non possono esserci differenze sostanziali tra
diversi mercati. Se la logistica italiana è qualcosa di particolare nel
panorama europeo, lo è per le stesse ragioni per le quali l’impresa italiana è
particolare, purtroppo in negativo.
Le grandi aziende italiane quotate in Borsa
distribuiscono in dividendi più del 30% delle loro risorse, cioè non investono
o investono troppo poco, manager e azionisti spolpano le imprese e poi le
vendono. Per fortuna che esiste la media impresa. Nella logistica sono poche
purtroppo le aziende che investono in tecnologie e in risorse umane, i criteri
con cui anche grandi gruppi gestiscono i loro centri di distribuzione in Italia
sono fondati sul basso costo del lavoro e sul ricorso a cooperative che
reclutano immigrati, le quali non rispettano le regole, non pagano i contributi
ai lavoratori e non pagano le tasse.
Proprio in questi giorni la magistratura ha messo sotto
accusa un consorzio di cooperative che ha evaso il fisco per 1,7 miliardi di
euro. La logistica oggi in Italia – penso ai magazzini ma penso anche al
trasporto su strada - è uno dei principali veicoli di diffusione della
criminalità organizzata secondo gli organismi inquirenti. E tutto si basa sulle
condizioni di lavoro ai limiti della schiavitù (non è una mia espressione,
l’hanno usata i magistrati nei confronti di un’impresa di trasporto del
milanese).
Qual è il risultato di questa politica miope? Che oggi la logistica
in Italia è un territorio di conflittualità sindacale altissima, con scioperi
frequenti condotti con durezza. Dai sindacati? Manco per sogno, anzi, non è
raro scoprire qualche sindacalista complice nel perpetuare il sistema delle
cooperative irregolari. Chi organizza i facchini sono i Cobas e questo rende la
negoziazione spesso non facile per le aziende.
Quindi ciò che caratterizza la logistica in Italia è
l’alta conflittualità sindacale?
No, quello che caratterizza la logistica in Italia è la
scarsa propensione a investire in tecnologie e risorse umane. La conflittualità
sindacale, se Lei allarga lo sguardo a livello mondiale, è molto diffusa
ovunque e si sta diffondendo ulteriormente in tutti i comparti del trasporto,
dai porti alle ferrovie agli aeroporti. Può darsi che in alcuni casi il
conflitto sia determinato dalla volontà di alcuni gruppi di lavoratori di
difendere i loro privilegi (o, meglio, le loro conquiste, ed hanno ragione) ma
in moltissimi casi si tratta di una reazione di risposta a condizioni di lavoro
inumane (pensi solo agli scioperi dei portuali di Hong Kong).
In questo modo siamo arrivati a parlare di porti,
l’argomento principale che volevo affrontare con Lei in questa intervista. Le
posso chiedere, per iniziare, un giudizio di sintesi sull’attuale situazione
del mercato marittimo-portuale?
Ci provo. Il fenomeno più rilevante, a me sembra, è
quello della finanziarizzazione del settore marittimo, altrimenti non si spiega
come sia possibile che, mentre tutti si lamentano che i noli sono bassi e non
riescono a crescere per eccesso di stiva, ci siano – dati di agosto 2014
riportati da Clarckson’s Research – 5.357 navi in ordine, pari a 318,4 milioni
di tsl, con un investimento pari a 62,1 miliardi di dollari.
In testa agli
investitori ci sono gli europei e primi tra gli europei sono i greci (curioso,
vero? mentre la Grecia va a picco). Secondi sono i cinesi (che, a dare ascolto
a certe voci, starebbero anche dietro ai greci).
L’altro fenomeno rilevante,
questo di portata storica, è il passaggio nella propulsione marittima dalla
nafta ai gas, sia derivati dal petrolio che naturale. Questo ha fatto schizzare
in alto le ordinazioni di gasiere. Nel
container sono in ordine navi per il 36,9% della flotta esistente come
numero e per il 42,5% in termini di Teu. Nel settore crocieristico gli ordini
nel 2014 sono aumentati del 90% rispetto all’anno precedente. Trovo
interessante invece l’aumento di ordini di navi multipurpose.
Perché interessanti le multipurpose e le crociere
no?
Perché non mi sembra un fenomeno prettamente
speculativo ma qualcosa che allude a una diversificazione delle soluzioni
logistiche. Osservato sotto questo profilo, il panorama della logistica
marittima è invece piuttosto cambiato, ma, anche qui, come reazione a urti esterni.
Prendiamo il settore del container. La focalizzazione sui
costi e non più, o non solo, sulle quote di mercato, ha portato alcuni
cambiamenti. Prima di tutto una maggiore restrizione delle attività al core
business, il che comporta tra l’altro un relativo abbandono dell’idea di
controllare tutta la catena logistica e quindi di diventare non solo gestori di
terminal portuali, ma anche di retroporti, di centri di distribuzione
nell’Hinterland, di società di logistica o di trasporto, anche ferroviario (si
pensi all’operazione European Rail Shuttle), cioè gesti di “discesa a terra”
che mettevano i grandi carrier in competizione con i forwarder e il carrier
haulage in competizione con il merchant haulage. In sostanza, in competizione
coi loro stessi clienti. La crisi li ha riportati piano piano alle origini e la
caduta dei noli li ha penalizzati e avvantaggiato enormemente i forwarder,
diventati operatori logistici globali.
Oggi la maggioranza delle prime 20
compagnie amatoriali mondiali del settore del container sono in rosso mentre
Kühne&Nagel, Norbert Dentressangle e altri del loro calibro accumulano
profitti. A questo si risponde con le alleanze tra carrier, con gli accordi di
slot sharing, con la suddivisione delle rotte e degli itinerari. Poi sono mutati
gli schemi di gestione della nave e gli schemi organizzativi. E’ stato
praticato lo slow steaming, risparmiare carburante diventa più importante che
essere puntuali. La botta finale l’ha data il gigantismo navale. Molti porti
vengono emarginati dalle grandi rotte dei servizi diretti, ma soprattutto i
tempi di sosta in porto si sono allungati perché il numero di container
caricati e scaricati in una volta sola è aumentato con il gigantismo. Ciò
comporta un aumento di costi per i terminal, in quanto la programmazione
diventa più difficile, i picchi di lavoro sono più elevati, occorre inserire
risorse di riserva anche se i volumi rimangono gli stessi. Le navi accumulano
ritardi e la congestione nei porti diventa critica. In questa situazione
diventa decisiva l’efficienza dei collegamenti retroportuali.
Ma se questo è vero, anche la concezione di port
regionalisation, cioè la versione più moderna ell’economia portuale, si riempie
di contenuti diversi.
Ci vuol spiegare meglio?
Mi riferisco alle idee contenute in un famoso saggio di
Notteboom e Rodriguez. Essi sostenevano, siamo agli inizi del nuovo millennio,
che il porto si sta trasformando in un sistema reticolare multipolare,
caratterizzato da una rete di sottosistemi o di nodi disseminati nell’Hinterland,
con i quali il porto dialoga nel senso che può conferire ad essi alcune sue
funzioni (da quella banale di spostare su quelli i container in deposito per
guadagnare spazio a quella più complessa di trasferirvi le attività doganali)
oppure può considerarli come degli avamposti che gli permettono di penetrare e
fidelizzare meglio certi mercati.
Lo stress imposto dal gigantismo ai terminal
portuali si ripercuote immediatamente sulla rete di infrastrutture che formano
il sistema multipolare, ma soprattutto su quelle di trasporto.
Ora, poiché il
modo più veloce per smaltire il traffico di un terminal è quello di mettere la
merce sul treno, soprattutto se si tratta di coprire lunghe distanze, la
modalità ferroviaria cessa di essere un’opzione, diventa una necessità e poiché
la ferrovia non potrà superare mai certe rigidità, mettere mano al sistema
ferroviario ed adeguarlo ai vincoli del gigantismo navale non è una cosa da
poco, che si fa in poco tempo.
Questo però è solo un aspetto della questione. L’altro
aspetto critico che io vedo nella logistica marittima è quello della sicurezza.
Ormai si susseguono gli allarmi contro il cattivo stivaggio della merce nei
container, il cattivo imballaggio, la falsa o errata documentazione di
accompagnamento – segnali questi che indicano un lavoro manuale fatto male
nella fase di riempimento, da gente inesperta o poco motivata – perché pagata
poco, credo – oppure da ritmi di lavoro troppo pesanti. Tutte queste cose
continuano a produrre incidenti che, nel caso di materie pericolose, possono essere
drammatici (si pensi al caso della MSC Flaminia). Che il numero di claims presso
le compagnie assicurative aumenti in maniera vertiginosa non è un segreto, quindi
torniamo al problema della supply chain disruption, ultimamente aggravata dai cambiamenti
climatici. Mettiamo insieme tutte queste cose, vedremo che mentre la finanza
brinda a champagne, l’operatività ha la lingua fuori, dunque qualcosa deve cambiare
e questo qualcosa, insisto, ha molto a che fare con il problema del lavoro.
Questa sua opinione è condivisa da qualcuno? Ci sono
stati degli interventi al congresso di Berlino su questo? Nella stampa
specializzata non se ne sente molto parlare. Il problema principale per quanto
riguarda i porti, sembra essere la governance.
No, non se ne parla, l’immagine del lavoro è scomparsa
dagli schermi da troppo tempo, addirittura nel libro di Piketty, l’economista
che ha scritto uno dei maggiori best seller degli ultimi anni, dove si dice che
l’attuale capitalismo produce solo diseguaglianze sociali – cioè si sostiene
una tesi classica del socialismo – l’argomento lavoro non è affrontato.
Allora parliamo di governance.
Parliamo di governance, d’accordo. Ci sono tre livelli
distinti da considerare.
Il primo è il livello europeo. Lei ricorderà la fine
che fece la riforma proposta da Loyola de Palacio, ebbene, il regolamento
proposto da Kallas rischia di fare la stessa fine. In Italia ci promettono una
riforma e un piano dei porti in 90 giorni. L’unico piano serio che è stato
fatto negli ultimi vent’anni è quello che abbiamo fatto noi nel triennio 1998-2000,
era un piano generale dei trasporti e della logistica all’interno del quale si collocava
la portualità. Fu approvato dal Parlamento in modo bipartisan, approvato dal Cipe
e subito dopo gettato nel cestino. Ci hanno riprovato il Ministro Matteoli e il
sottosegretario Giachino con l’ultimo governo erlusconi. Facevo parte del
gruppo di esperti ma ho dovuto minacciare di dimettermi se continuavano a
mettere la mia firma sotto cose che non avevo scritto io ma non so chi, certo
non i miei colleghi, probabilmente qualche venditore di quelle bufale che ad un
certo punto sono apparse sul mercato della portualità, quelle cose tipo
superporti o superterminal, vere truffe ai danni dei contribuenti. Oggi sembra
che vogliano risolvere i problemi di governance tagliando un po’ di Autorità
Portuali.
Mi sembra una buona cosa, no?
Sarà, ma io non vedo come questi tagli o questi
accorpamenti possano cambiare il modo di governare un porto. Occorre una
riforma. In che direzione?
Chiediamoci innanzitutto: cosa vogliamo dai porti?
Nessuno lo sa, né osa dirlo. Perché? Perché dovremmo avere prima una politica
industriale e non ce l’abbiamo. Il fatto che la grande impresa in Italia stia
scomparendo sta a dimostrarlo.
Se non c’è una politica industriale non può
esserci una politica delle infrastrutture al servizio dell’industria. Le infrastrutture
purtroppo si fanno “a prescindere”, così, per incrementare il settore delle
costruzioni. Chiediamoci allora in seconda battuta: che ne facciamo dei porti?
Li consideriamo enti inutili e cerchiamo poco per volta di sfoltirli oppure,
visto che ci sono, cerchiamo di farli lavorare al meglio?
La seconda ipotesi mi
sembra più logica.Come? Cominciamo dalla figura del Presidente.
Come venga
nominato ora non m’interessa, vediamo cosa dovrebbe fare e cosa dovrebbe saper
fare. Su questo penso di avere delle idee precise.
Un Presidente deve
innanzitutto avere un alto senso dello Stato, deve essere consapevole di
gestire un bene pubblico, di amministrare un patrimonio pubblico per
valorizzarlo, deve rispettare e far rispettare la legge, deve ricordare ai
terminalisti i loro obblighi e gli impegni in base ai quali hanno ottenuto la
concessione. Un porto è ben governato quando i terminalisti e le imprese ivi
operanti investono, un porto che vive di rendite di posizione è un ente inutile
e dannoso.
Non è compito del Presidente trattare con le compagnie marittime,
quello spetta ai terminalisti, non è compito del Presidente regolare la
navigazione, per questo c’è l’Autorità Marittima, alla quale darei maggiori
competenze e maggiori poteri, anche in materia di dragaggi. Compito del
Presidente, è qui che si vede la sua managerialità, è piuttosto quello di organizzare
il reticolo del sistema multipolare. Mi richiamo ancora alla teoria della port
regionalisation. Se questa teoria è valida - e sono convinto che lo sia - e che
sia tanto più valida quanto più rapido è l’avvento del gigantismo navale, significa
che il Presidente deve organizzare la rete logistica territoriale che sta alle spalle
del porto.
E’ un uomo che deve conoscere i dry ports, è uno che deve saperne di
real estate, di immobiliare logistico, che deve conoscere a fondo il mondo ferroviario,
dell’intermodalità, che deve conoscere le esigenze delle supply chain degli utenti
del porto, che sa cosa significa un progetto di cooperazione internazionale.
Se
c’è una riforma da fare è quella di dare ai Presidenti gli strumenti per
affrontare questa missione. Il Presidente di Genova, Luigi Merlo, è quello che
a mia conoscenza ha colto meglio questo risvolto.
Lei sta tracciando il profilo di un Presidente
ideale, che deve avere requisiti professionali molto specifici.
Requisiti deontologici prima di tutto, poi anche di
professionalità, è un amministratore e un manager al tempo stesso, deve avere
alto senso dello Stato e del bene pubblico e deve al tempo stesso avere la
vision di un imprenditore. Deve saperne di finanza, quando un privato gli
presenta un project financing deve capire se è una bufala oppure no. Deve
sempre valere la seguente regola, come dice il mio amico Di Marco, Presidente
dell’Autorità Portuale di Ravenna, che di finanza se ne intende: il privato
prima metta i soldi sul tavolo, se dice di voler investire, e poi il pubblico
farà il suo dovere, non viceversa (come spesso accade). Mi sono stufato di vedere
concessionari ai quali è stato dato il privilegio di godere di un bene pubblico
che si atteggiano a benefattori, come fossero loro a “concedersi” per dare
lavoro ai disoccupati (con gli incentivi dello Stato).
L’ultima volta che è venuto a Vienna, questa
primavera, alla Wirtschaftsuniversität, ha parlato del porto di Trieste e dei
suoi servizi ferroviari retroportuali. Mi sembra che a Trieste stia per
cambiare la Presidenza dell’Autorità Portuale. Lei come vede attualmente la
situazione del porto, che per noi austriaci ha rappresentato una risorsa
fondamentale nel passato ma anche oggi ha la sua importanza per il nostro mercato
e per i nostri operatori?
Sì, la Presidente attuale del porto, Marina Monassi, è
in scadenza e se il Ministero non fa la sciocchezza di nominare un Commissario,
si sceglierà il nuovo Presidente tra i tre candidati, Zeno d’Agostino, Nereo
Marcucci e Antonio Gurrieri.
Lei chi dei tre preferisce?
Senta, non mi metta in imbarazzo, sono tutti e tre
persone che conosco bene, sono tre amici e tutti e tre hanno i numeri per
governare bene un porto.
Tutti sanno però che ho lavorato con D’Agostino su
diversi progetti, anche nei Balcani, cioè in aree d’interesse del porto di
Trieste. Quindi il mio cuore batte per lui. Ma non voglio esprimere un voto
anche per rispetto delle istituzioni a cui compete la scelta.
Sulla situazione
del porto in generale la vedo in maniera diversa da molti miei amici. La Monassi
lascia un porto in buona salute, giudicare la sua gestione fallimentare significa
essere vittime della propria partigianeria.
Ma ancora una volta il merito è di imprese
che investono, di certi terminalisti. E a dire il vero, negli ultimi tempi
anche soggetti che da questo punto di vista non sono mai stati così brillanti
si sono dichiarati disposti a investire. Questa è una buona notizia.
Io credo
che il porto di Trieste abbia molte potenzialità di sviluppo, in fin dei conti
è l’unico porto italiano ad avere un raggio di azione europeo.
Quello che nella
gestione Monassi mi lascia più perplesso è l’aver messo il successore di fronte
a fatti compiuti, assegnando o prolungando tante concessioni a fine mandato,
come se volesse di proposito un successore dimezzato.
Ma qui rischia di vedersi
capitare sulla testa qualche mattone dall’Unione Europea.
Trieste è un caso
esemplare di studio per chi s’interessa, come dite voi, ai Seehinterlandverkehre,
ai collegamenti retroportuali.
Oggi arrivano e partono da Trieste Campo Marzio
e da Fernetti 76 coppie di treni intermodali alla settimana ed il 67% è fatto
di treni non di container, ma di semirimorchi.
Cosa significa? Che l’intermodalità
a Trieste non parte solo dalle navi portacontainer ma anche, anzi soprattutto,
dalle navi Ro Ro, quindi ci troviamo di fronte a un esempio di servizi trimodali,
quelli che piacciono tanto all’Unione Europea.
Ed anche questa è un’eccezione
nel panorama italiano. Il problema di Trieste a mio avviso è Capodistria. Io
penso che ormai sia diventato insopportabile che i paesi nuovi membri
dell’Unione Europea possano da un lato godere di tutti vantaggi dell’adesione e
dall’altro esercitare un sistematico dumping sociale nei confronti dei Paesi
fondatori dell’Unione. Questo meccanismo fa sì che l’allargamento dell’Unione
Europea, tanto esaltato come fattore di civiltà e di progresso, di unione tra i
popoli e bla bla bla, si risolva in un peggioramento delle condizioni dei
lavoratori dell’Europa occidentale.
Questa situazione fa il gioco dell’estrema
destra, aumenta la xenofobia e l’intolleranza man mano che si prolunga la
crisi. E’ una politica che non unisce, al contrario, crea lacerazioni. Per
reggere la concorrenza con Capodistria nel porto di Trieste le regole del
lavoro portuale sono saltate tutte. Naturalmente molti ci sguazzano in questa situazione,
molti a cui non piace investire, ma piace pagare la gente con salari da fame.
Occorre spezzare questo circolo vizioso. Speriamo che il nostro nuovo Ministro degli
Esteri, che negli Anni 70 era come me un assiduo collaboratore de “Il
Manifesto”, prenda delle iniziative in proposito.
Un’ultima domanda, Professore. Anzi,
un’osservazione. Qualunque argomento Lei affronti, finisce sempre per parlare
di lavoro. Non Le sembra, non si offenda, un po’ monotono?
S.B. Gentile Signora, io penso che il problema della
disoccupazione e ancor più della cattiva occupazione, della precarietà e
dell’insufficienza di reddito, il problema della crisi della forza lavoro
scolarizzata e più in generale della crisi della middle class o, se vuole,
della disuguaglianza, come dice Piketty, sono i fattori che minano la
convivenza civile a tutti i livelli, da quello europeo a quello della singola
famiglia.
Le politiche del lavoro dell’Unione Europea non fanno che aggravare questo
stato di crisi. Dopo che un’intera generazione di economisti ha dimostrato che
questa è una crisi di domanda, i burocrati (per usare un eufemismo) di
Bruxelles continuano a voler agire sull’offerta.
Pensare a un loro ravvedimento
è utopistico, la cultura delle forze politiche presenti nel Parlamento europeo
o non è in grado di capire le ragioni della crisi o non gliene importa un fico
secco o pensa di approfittare del disagio sociale a fini elettoralistici.
Qualcosa deve cambiare, altrimenti andiamo tutti a fondo,
forse ci vogliono dei profondi sommovimenti sociali, delle rivolte di piazza,
non so. Io avverto indistintamente un qualcosa che bolle sotto terra. E allora
non so se cerco di esorcizzarlo o di invocarlo quando ripropongo il tema del
lavoro. Corro il rischio di apparire monotono o ossessivo? Mi dispiace ma non
so che farci.
(trad. dal tedesco di Patrizio Helman)


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