10 buone ragioni per scendere in piazza, per il futuro del Porto e di Trieste
di Riccardo Laterza
Ci sono almeno dieci buoni motivi per rispondere alla chiamata che i sindacati dei lavoratori portuali hanno ufficializzato lunedì, in una conferenza stampa alla Torre del Lloyd, chiedendo al resto della città di partecipare al presidio previsto sabato 13 giugno, alle ore 12, in Piazza Unità.
1. Per uno sviluppo di qualità, oltre la crescita
Dopo anni, se non decenni, in cui il Porto di Trieste aveva costituito un’appendice sempre più atrofizzata di una città in perenne declino, il traffico nello scalo giuliano ha subito un incremento dell’8,8% dei traffici dal 2014 al 2019, passando da 57 mln a 62 mln di tonnellate e dal quarto al primo posto in Italia. Il dato assume ancora maggiore rilevanza se si esclude dal conteggio il traffico petrolifero: in un quinquennio il traffico delle altre merci è aumentato infatti del 14%, da 16,4 mln a 18,7 mln di tonnellate. Questo è un dato particolarmente rilevante, perché sono le altre merci, più del petrolio, a costituire il vero nuovo valore aggiunto del quinquennio marcato D’Agostino. I TEU (container o semirimorchi) movimentati a Trieste sono addirittura aumentati del 157%, passando da 506.000 nel 2014 a 1.300.000 nel 2019. Tutti i dati sul Porto di Trieste si trovano al seguente link.
2. Per i lavoratori: non numeri, ma persone
Ciò che sicuramente conta, dietro i numeri, è l’attenzione al fattore umano che l’attuale dirigenza del Porto di Trieste ha dimostrato in questi anni. Per fare l’esempio più eclatante, nel 2016 l’Autorità ha deciso di far nascere l’ALPT, Agenzia per il Lavoro Portuale del Porto di Trieste. Mentre nel Paese ancora imperversava la retorica del Jobs Act, degli incentivi a pioggia per assunzioni falsamente a tempo indeterminato, nel Porto si faceva spazio un’altra storia: quella della costruzione di maggiori tutele per uno dei lavori storicamente più precarizzati. L’Agenzia, controllata al 51% dal pubblico nel suo primo anno di attività, ha assorbito 111 dipendenti di cooperative private, alcuni di essi provenienti da lunghe storie di fallimenti, garantendo loro maggiore stabilità e una formazione all’altezza dei rischi che il lavoro portuale comporta. Oggi l’operazione può dirsi di successo, con un organico quasi raddoppiato che a marzo 2019 ha raggiunto le 205 unità.
3. Per l’ambiente: un Porto più sostenibile è possibile (e necessario)
Il Porto è sicuramente una fonte di inquinamento significativa in una città. Tuttavia non si può trascurare il fatto che nel 2019 i treni esercitati nell’ambito delle operazioni portuali a Trieste siano stati 9.771; nel 2014, solo cinque anni fa, non erano neanche considerati tra le statistiche dei traffici portuali. Nel 2018 sono stati operati 56 collegamenti settimanali per la Germania, 53 per l’Italia, 32 per l’Austria, 16 per l’Ungheria, 12 per la Repubblica Ceca, 11 per il Lussemburgo e 5 per la Slovacchia. Il bacino retroportuale di Trieste si estende dunque fino alle spalle del porto più grande d’Europa, Rotterdam, lavorando sempre più “estero su estero”, com’è naturale che sia vista la sua posizione geografica e il suo status di Porto Franco Internazionale. Nel 2019 il 56% dei TEU in viaggio da Trieste alle destinazioni retroportuali si sono mossi su rotaia anziché su gomma: si tratta di oltre 210.000 camion tolti dalla strada. Inoltre, il Porto di Trieste conta numerose partecipazioni a progetti dedicati al tema della sostenibilità ed è capofila del progetto europeo Susport, finanziato nell’ambito dell’Interreg Italia-Croazia, dedicato al monitoraggio ambientale delle acque portuali e al risparmio energetico.
4. Per un nuovo ruolo del Pubblico, da protagonista
Com’è stato possibile il boom della movimentazione ferroviaria? Grazie ad Adriafer, una società oggi al 100% di proprietà dell’Autorità Portuale ma che in passato è stata prima posta in liquidazione, nel 2012, per poi rischiare di finire privatizzata. Nel 2016 i dipendenti erano appena 25. Oggi sono 93. Quella di mantenere la proprietà pubblica di Adriafer è stata una scelta coraggiosa e in controtendenza rispetto alla stagione di privatizzazioni che caratterizza ormai da diverso tempo il nostro Paese: il Porto di Trieste può contare oggi su un’azienda interamente controllata che garantisce livelli di efficienza significativi per un traffico ferroviario in costante crescita. «Mettere sempre avanti il privato è una visione retrograda», ha dichiarato lo stesso D’Agostino un anno fa a L’Espresso. E, informazione a beneficio dei fan delle grandi opere con vantaggi nulli per il traffico merci come il TAV, il boom del trasporto ferroviario è avvenuto in uno scalo dove gli scambi sono ancora azionati a mano. Dimostrazione ulteriore del fatto che una governance capace sa rendere operative e produttive le infrastrutture esistenti, “semplicemente” dando il giusto valore al lavoro e alle competenze delle persone.
5. Per difendere un modello costruito con le persone
In mezzo a tantissime voci levatesi in solidarietà con Zeno D’Agostino, qualcuno ha avuto da ridire sull’eccessiva “personalizzazione” della vicenda partita dalla delibera dell’ANAC. In fondo, D’Agostino sarebbe solo un manager, per alcuni semplicemente un padrone (per quanto “pubblico”). Quello che traspare dietro all’affetto che i lavoratori portuali hanno dimostrato a D’Agostino in questi giorni è tuttavia l’apprezzamento per un modello da difendere e rafforzare, non semplicemente per una singola persona. Si tratta di un modello che, in controtendenza con quanto avvenuto in molti altri settori, ha rimesso le persone al centro dell’operato di un’istituzione pubblica, il che significa che si è assunto la responsabilità di costruire la propria azione con le persone, non semplicemente per le persone. L’andamento delle relazioni sindacali di questi anni, ma anche l’apertura del Porto nei confronti della città con gli Open Day, le iniziative culturali – ultima la rassegna #iorestoacasaenavigo – o anche solo la semplice disponibilità del Presidente a divulgare strategie, risultati e prospettive del proprio operato in tantissimi incontri aperti alla cittadinanza, ne sono la dimostrazione palese. Una legalità e una trasparenza sostanziali che evidentemente non sono stati sufficienti a convincere l’ANAC.
6. Per quelle/i che non potranno esserci
Sabato chi ne avrà la possibilità potrà decidere di scendere in piazza anche per chi non è più a Trieste. In sei anni, dal 2012 al 2018, sono emigrate da Trieste verso altre Regioni italiane o verso l’estero 18.883 persone. In pochi anni è sparito un rione come Rozzol: un fenomeno tanto invisibile quanto emblematico dello stato di salute della nostra città e, in particolare, dell’economia triestina, costellata da crisi industriali, chiusure, una generale assenza di opportunità di sviluppo. Affermare che è possibile dare un nuovo orizzonte di sviluppo alla città, imparando da quei settori strategici che, nonostante tutto, hanno continuato a svilupparsi in questi anni producendo occupazione di qualità e ricadute positive sul territorio – due su tutti, il Porto e la ricerca scientifica – significa immaginare anche un futuro nel quale chi lo vorrà, avrà realmente la possibilità di tornare a vivere a Trieste; e tante e tanti altre/i potranno trasferirsi nella nostra città con la prospettiva di una vita dignitosa.
7. Perché “il mare porta fabbriche”
È questo il motivo per cui la battaglia sul Porto è una battaglia di tutte e tutti. Perché lo sviluppo del Porto, se continuerà ad essere adeguatamente orientato e troverà le necessarie sponde in città, potrà in un futuro relativamente vicino produrre delle ricadute concrete in termini di rafforzamento di altri settori, con benefici occupazionali potenziali varie volte superiori rispetto a quelli finora prodotti nel Porto in “senso stretto”. Come affermato da Zeno D’Agostino in un’intervista pubblicata in La Nuova Via della Seta. Voci italiane sul progetto globale cinese (Castelvecchi, 2019) «la Via della Seta non muoverà merci, ma muoverà fabbriche (…) Dobbiamo investire nella complessità, nell’innovazione organizzativa, non solo tecnologica, verrebbe da dire che l’unica materia grigia che serve non è il cemento, ma i cervelli». La scelta di estendere l’area extradoganale nei pressi dello stabilimento della Wärtsilä (la cosiddetta FREEeste) è uno dei tasselli funzionali al progetto del ritorno della manifattura nel Porto Franco Internazionale. Sebbene ad oggi questo obiettivo non sia stato ancora raggiunto, non è affatto il caso di demordere, anzi: anche altre aree, come quelle del Porto Vecchio, potrebbero contribuire a una diversificazione dell’offerta insediativa per nuove imprese (strategia suggerita da diversi studi internazionali come questo) nella direzione della definizione di un vero e proprio ecosistema della conoscenza, della produzione e dell’innovazione. Non parliamo di nulla di fantascientifico, perché si tratta della modalità con la quale il porto funzionava – e prosperava – in passato: attraendo importanti funzioni produttive, generando nuova conoscenza formale e informale, producendo e distribuendo ricchezza, rafforzando senso d’appartenenza e cultura dei luoghi.
8. Per estendere il “modello D’Agostino”
Certo, non è fantascienza, ma non è nemmeno così semplice immaginare la concatenazione di decisioni, processi, relazioni necessarie per mettere in moto tutto ciò. D’altronde, alla nascita del Porto Franco di Trieste l’investitore a fondo perduto – l’Impero – dovette aspettare diversi decenni per apprezzare un ritorno economico della scommessa di sviluppo in una cittadina di saline e pescatori; Maria Teresa diede l’impulso alla costruzione, tra le altre cose, dell’omonimo borgo senza mai essersi recata, di persona, a Trieste. Una capacità di visione oggi veramente difficile da riscontrare in molte istituzioni cittadine. Eppure, per fare un importante passo in questa direzione, basterebbe estendere il “modello D’Agostino” a tanti altri ambiti della nostra vita in comune, dalla paludata rappresentanza delle categorie produttive e degli esercenti, alla stessa Amministrazione Comunale. Lo sviluppo del Porto di questi anni ha dimostrato che un altro ruolo del pubblico è fondmentale: che si possono promuovere trasformazioni radicali e dirompenti, necessarie nell’interesse delle persone, solo a patto di coinvolger direttamente le persone nelle trasformazioni stesse. Un insegnamento prezioso, da estendere al mondo della produzione e del commercio, della gestione dei servizi pubblici e della progettazione degli spazi urbani, della cultura e del turismo, della salute e dell’edilizia residenziale pubblica (e in alcuni di questi ambiti ancora imperversano esponenti dell’antico modo di gestire le cose)… D’Agostino e la sua squadra non si possono clonare, l’approccio che hanno contribuito con successo a promuovere sì.
9. Per rispondere a quelli che: “E allora i Cinesi?”
Negli ultimi anni, a corto di altre armi da scagliare contro il cambiamento che li stava travolgendo, il circolo politico che ha contribuito a bloccare lo sviluppo di Trieste nelle stagioni precedenti ha iniziato a diffondere la voce, sempre più insistente, secondo la quale l’attuale governance portuale avrebbe organizzato la svendita del porto ai malvagi Cinesi (qui solo uno dei numerosissimi esempi, anche se quelli in forma di cartellone sono i più notevoli). Ovviamente, non è stato sufficiente chiarire, come fatto anche da D’Agostino, la natura degli accordi commerciali tra Stati sovrani che non intacca la proprietà dei porti, in Italia saldamente pubblica; figurarsi introdurre ragionamenti più complessi, come quelli proposti da Sergio Bologna qui, sul profilo degli scambi del Porto di Trieste con Medio e Lontano Oriente nell’ambito della cosiddetta nuova Via della Seta. Il punto, ancora una volta, è che è una fortuna che a governare questo processo vi siano donne e uomini convinte/i che un forte ruolo del pubblico, anche a livello internazionale, possa determinare nuovo sviluppo rafforzando, al tempo stesso, le tutele per i lavoratori e per l’ambiente. Pensate cosa succederebbe se l’Autorità Portuale fosse controllata da un esponente di un partito i cui più alti rappresentanti partecipano a convegni dal titolo Port Authority: privatizzazione ed integrazione infrastrutturale? (Indovinate di che partito si tratta… La risposta la trovate qui).
10. Per una storia che non si può chiudere qui
Difendere lo sviluppo del Porto di Trieste non significa schierarsi dalla parte di una storia che ha già scritto il suo lieto fine. Sono ancora tanti gli ambiti sui quali, anche con un ruolo attivo dell’Autorità, è possibile intervenire per costruire uno sviluppo ancora più forte, diffuso e sostenibile per la nostra città. Di alcuni ce ne siamo occupati anche in questo blog: la questione della sostenibilità e degli limitati benefici del traffico crocieristico, ad esempio; o ancora, l’intricata vicenda della riconversione dell’area a caldo della Ferriera. Ma anche la necessità di ragionare sui benefici di una possibile elettrificazione delle banchine e la prospettiva di procedere a ulteriori internalizzazioni e assunzioni dei lavoratori portuali. Infine, la sfida più grande, per la quale, come già detto sopra, sarebbe necessario un contributo più attivo di molte istituzioni cittadine: in un mondo che, anche a fronte degli effetti della pandemia, si è interrogato sulla necessità e opportunità di accorciare e comunque ridisegnare le catene di approvvigionamento logistico, conterà ancora di più la capacità di essere attrattivi per il cosiddetto reshoring, ovvero il reinsediamento di attività produttive in città. Per certi versi, può sembrare paradossale per un Porto scommettere su questo accorciamento (che in prospettiva potrebbe voler dire una minore intensità di scambi, perlomeno a lunghissimo raggio): eppure, è proprio questo il cuore di una strategia che concepisce il Porto come trigger produttivo di un’intera economia. Per tornare a pensare a Trieste come un luogo vivo, dinamico e accogliente.
https://tryeste.wordpress.com/
“Siamo giovani ragazze e ragazzi che vivono o hanno vissuto a Trieste. Alcuni di noi si sono trasferiti in un’altra città o all’estero per lavorare o studiare; altri per ora sono rimasti qui, ma a breve potrebbero seguire le stesse strade. In molti casi non per scelta, ma costretti dall’assenza di prospettive di realizzazione personale e collettiva nella nostra città. Secondo i dati ISTAT solo nel 2014 274 triestini tra i 18 e i 39 anni si sono trasferiti all’estero, uno ogni 32 ore: siamo la terza città italiana per giovani espatriati. Spostarsi in Italia e nel mondo e fare altre esperienze dovrebbe diventare una scelta, non una necessità: per non dover cambiare città è necessario cambiare la città.”
A causa del COVID-19 ho perso tutto e grazie a dio ho ritrovato il mio sorriso ed è stato grazie al signore Pierre Michel, che ho ricevuto un prestito di 65000 EURO e due miei colleghi hanno anche ricevuto prestiti da quest'uomo senza alcuna difficoltà. È con il signore Pierre Michel, che la vita mi sorride di nuovo: è un uomo semplice e comprensivo.
RispondiEliminaEcco la sua E-mail : combaluzierp443@gmail.com