In un interessante articolo il Financial Times (link) spiega che la crisi da Coronavirus può mettere a rischio i capitali che la Cina ha erogato sotto forma di prestiti ai paesi interessati dai progetti infrastrutturali di One Belt One Road Initiative, meglio nota come Via della Seta.
Oggi questi paesi stanno chiedendo di ristrutturare il debito, perché sono con l’acqua alla gola. La “crisi del debito” ovvero il rischio che la Cina possa sottomettere i paesi nei quali si costruiscono strade e ferrovie coi suoi soldi, è una delle argomentazioni preferite da quelli che da tempo lanciano allarmi sul pericolo per l’Italia di cadere sotto il giogo di un imperialismo cinese, al quale farebbe particolarmente gola il porto di Trieste. Li abbiamo rivisti all’opera in una trasmissione di Telequattro (che qui si può rivedere) alla quale hanno partecipato, oltre a Zeno d’Agostino, anche Enrico Samer e un dirigente di Alpe Adria. Era presente anche un professore ben noto a Trieste per avervi insegnato e per aver scritto un bel libro sulla storia della nostra città, il quale all’inizio pareva essere molto inquieto per il rischio di “cinesizzazione” delle popolazioni giulie ma alla fine si è tranquillizzato davanti alle argomentazioni degli operatori portuali. Ascoltando la trasmissione, tornava in mente quel numero della rivista “Limes”, il n. 7 del 2019 intitolato “Gerarchia delle onde”, dove ben documentati saggi, corredati da mappe molto eloquenti, mostravano come la potenza militare cinese sui mari del mondo è ben poca cosa rispetto ad un dispiegamento di forze navali americane che praticamente tiene sotto controllo i punti strategici del pianeta. Se d’imperialismo dobbiamo parlare, almeno rispettiamo le proporzioni. Ma, a parte questi particolari, la discussione a Telequattro sembrava orientata su un terreno lontano mille miglia dalla realtà del nostro porto, sia sotto il profilo della visione strategica che per il comportamento assunto dall’Autorità nell’emergenza da coronavirus. Forse si è esagerato nel credere alla leggenda di Trieste terminale della Via della Seta, perché se uno osserva con un minimo di attenzione gli investimenti effettuati da società straniere nel porto, si accorge immediatamente che Trieste è sempre più integrata con il centro Europa, addirittura con il Northern Range, secondo un’idea di area logistica fortemente “continentale”. Perché? Perché sono i servizi ferroviari quelli che indicano in maniera inequivocabile la specificità del porto, assai più dei servizi marittimi, che bene o male Trieste ha in comune con altri porti, in primis con Koper. Quindi chi continua a lanciare allarmi sul presunto “pericolo giallo” – e che oggi torna alla carica ripetendo le accuse che Trump rivolge alla Cina in tema di diffusione del coronavirus – deve avere le lancette del suo orologio mentale ferme da un pezzo. Scoppiata la pandemia, il porto si è attivato immediatamente per rifornirsi di dispositivi di protezione in quantità tale da poter soddisfare non solo i propri bisogni ma anche quelli delle strutture sanitarie cittadine. In quel frangente sono tornati più che utili i legami stabiliti con imprese di stato cinesi.
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Un’altra novità ci ha riservato l’iniziativa dell’Autorità Portuale in questa emergenza ed a noi piacerebbe potesse diventare una linea di sviluppo permanente. Stiamo parlando delle relazioni che la comunità portuale ha iniziato a tessere con il mondo della scienza e della cultura, a partire dalle celebrazioni per i 300 anni del Porto Franco. Queste relazioni possono diventare veramente un asset importante e un ulteriore fattore d’innovazione del clima cittadino, non debbono essere viste sotto il banale aspetto della promozione o della cosiddetta “immagine”. Il porto è produttore di cultura, anzi è esso stesso cultura (pensiamo alla geopolitica, pensiamo all’immaginario, al simbolico, che l’attività portuale è in grado di suscitare). Il rapporto con il mondo della scienza ora si sta rafforzando nel quadro dell’ESOF (Euro Science Open Forum), evento che è stato sconvolto, come tutte le manifestazioni simili, dall’emergenza del coronavirus, ma la cui programmazione è stata sufficiente a far decollare un sistema di relazioni tra il porto e quel mondo della scienza così radicato nella nostra città. Ne abbiamo avuto prova in una tavola rotonda organizzata da “Il Piccolo” e trasmessa in rete (link a YouTube), alla quale hanno partecipato, oltre a Zeno d’Agostino, il Rettore della nostra Università, Roberto Di Lenarda, un matematico della Sissa, prof. Gianluigi Rozza, e un’esponente del mondo del design e della moda, la signora Barbara Franchin.
L’emergenza è stata inoltre l’occasione per il porto di stringere alleanza con il mondo della cultura letteraria, attraverso un’iniziativa dedicata ai bambini e alle famiglie costrette in casa dal lockdown, fatta in collaborazione con Fondazione Pordenonelegge, Trieste Film Festival, Guide Turistiche Friuli Venezia Giulia, Wunderkammer Festival di Musica e altre realtà, di cui Trieste va giustamente fiera (link).
Sarebbe un caso unico nella portualità italiana e forse europea se il management portuale diventasse un aggregatore delle risorse culturali della regione, sulla scia di quello che hanno fatto alcuni – purtroppo pochi – “visionari” della nostra storia industriale.
Ci piace immaginare così il futuro piuttosto che seguire certi vaneggiamenti sulla natura di Trieste “città globale”, che si misura direttamente, da pari a pari, con le grandi potenze.
In questo quadro anche la narrazione su Trieste terminale della Via della Seta andrebbe ridimensionata e non andrebbe confusa con la pubblicità di pasticcerie e bed&breakfast.
Ricordiamoci che anche il porto di Amburgo (basta leggere il suo Hausorgan “Port News”) dichiara di essere il terminale europeo della Via della Seta, e così anche Duisburg.
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