(fonte Il Piccolo)
“L’esasperazione
sociale, in costante crescita, sta creando anche tensioni che sono
sfociate in alcuni casi in tentativi di aggressione a consulenti in
alcuni casi erroneamente percepiti o ritenuti dai lavoratori quali
responsabili della mancata percezione degli ammortizzatori sociali”.
Così
scriveva “Italia Oggi” il 4 aprile.
Al di là dei giudizi sul segno politico della manifestazione tenutasi sabato scorso in piazza dell’Unità (anche ad alcuni di noi piacerebbe chiamarla di nuovo Piazza Grande o addirittura, come qualcuno ha proposto, Piazza Ressel), è indubbio che essa ha messo a nudo tanti squilibri della nostra società. Uno di essi però lo condividiamo – per una volta tanto - con tutti i paesi occidentali ed è stata proprio la situazione creata da Covid 19 che lo ha fatto esplodere in tutta evidenza, dagli Stati Uniti alla Svezia, dalla Gran Bretagna alla Germania. Il mercato del lavoro si divide in due grandi tronconi: il lavoro salariato e il lavoro autonomo (a questo negli ultimi anni si è aggiunto un terzo troncone: l’universo di “lavoretti” che va sotto il nome di gig economy)
Il
lavoro salariato ha una certa protezione con i cosiddetti
“ammortizzatori sociali”, il lavoro autonomo non ne ha e questo
dipende in parte dal fatto che il lavoro autonomo viene trattato come
un’impresa (così lo considera l’Unione Europea). Quando tutto si
è fermato a causa del virus, gli Stati hanno fatto ricorso sia agli
ammortizzatori già previsti nelle loro istituzioni sia a misure
straordinarie, riconoscendo ora un diritto, ora un’elargizione una
tantum. Il più grande ed efficace ammortizzatore sociale italiano è
la Cassa Interazione Guadagni (CIG), gestita dall’INPS; di recente
è stata introdotta la CIG in deroga, gestita dalle Regioni.
Con
i primi decreti il governo Conte ha riconosciuto la CIG alle imprese
con dipendenti salariati e agli autonomi ha elargito l’una tantum
(i famosi 600 euro), ma nella CIG ha introdotto un nuovo criterio, ha
esteso il diritto a fruirne a tutte le imprese che avessero almeno un
dipendente salariato. In tal modo si è messo in moto un meccanismo
molto difficile da gestire: il numero dei beneficiari è aumentato a
dismisura, la domanda si è riversata sulle Regioni perché l’unico
modo per riconoscere quel diritto era di farlo rientrare nella Cassa
in deroga. Due burocrazie, quella dell’INPS e quella delle Regioni,
si sono trovate sommerse da domande. L’intasamento ha prodotto i
ritardi e in taluni casi la paralisi. Le banche sono state
autorizzate ad anticipare la CIG ma si trovavano già sul gobbo
l’onere dei prestiti agevolati garantiti dallo Stato, se sbagliano
nel concederli rischiano l’incriminazione per danno erariale.
Insomma, nei tubi è stata mandata una gran massa d’acqua senza
cambiare i rubinetti.
Ma
la questione degli autonomi in Italia è assai più complicata. In
Germania il sistema dei sussidi di disoccupazione in parte copre
alcune categorie di autonomi, in Italia non ci sono coperture. E poi
di che autonomi stiamo parlando? Dovremmo distinguerli almeno in due
grandi categorie, quella del commercio e quella dei freelance (in
gran parte professionisti a partita Iva del lavoro intellettuale),
che versano i contributi INPS a due gestioni diverse, i commercianti
con una quota fissa ed i freelance in base al fatturato.
Se
in genere la condizione del commerciante è sempre stata considerata
migliore di quella dei freelance, con il lockdown il rapporto si è
del tutto rovesciato, molti freelance hanno potuto continuare a
lavorare da casa mentre i commercianti si sono trovati schiacciati
dalle spese fisse (affitto, merce ecc.) in presenza di reddito zero.
Secondo
uno studio della Fondazione dei consulenti del lavoro i “lavoratori
beneficiari di ammortizzatori sociali (CIG ordinaria e straordinaria)
dopo aver atteso a lungo per aver sostegno al reddito, finiranno per
percepire un assegno di molto inferiore alla loro retribuzione
netta.” Lo studio calcola una perdita media del 36%.
L’Associazione
Italiana dei Freelance, ACTA (www.actainrete.it)
da un’inchiesta presso i suoi soci ha riscontrato perdite di
guadagno dello stesso livello riscontrato in altri paesi europei,
dove l’indagine più approfondita è stata condotta dalla banca
pubblica tedesca che gestisce i prestiti di emergenza, la KfW
(Kreditanstalt für
Wiederaufbau): i freelance hanno perso in media il 63%. Riassumendo
le perdite delle varie categorie: salariati –36%, autonomi
freelance –63%, autonomi del commercio –100%.
Forse
questi numeri ci dicono qualcosa anche sulla composizione sociale
delle piazze e su certe rivendicazioni (es. finanziamenti a fondo
perduto). Ma ci dicono ancora troppo poco su un lavoro autonomo che è
molto stratificato. Una grossa componente dei freelance, per esempio,
è costituita da lavoratori dello spettacolo, operatori degli eventi,
dei sistemi museali ecc., la cui perdita di reddito è stata pari al
100%. Dovesse servire a qualcosa, questa crisi potrebbe finalmente
indurre l’Unione Europea ed i diversi Stati a pensare un welfare
per il lavoro autonomo. Ma anche se si deciderà a farlo, sarà molto
difficile trovare regole comuni per una realtà così differenziata,
in particolare se dobbiamo farci rientrare anche il terzo troncone,
quello della gig economy.
Ci
saranno i soldi?
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