venerdì 1 settembre 2017

CONOSCERE LE AZIENDE TRIESTINE : ILLY IMPORTA CAFFE' DALLA COLOMBIA

Sul supplemento di REPUBBLICA IL VENERDI' del 18 agosto scorso abbiamo letto un articolo che avevamo "saltato" durante la prima lettura della rivista. In fondo ci fregava ben poco sapere che i guerriglieri delle FARC colombiane avevano abbandonato la guerriglia e si stavano riciclando come coltivatori di caffè. Ricostruire la lunga storia delle FARC e la situazione politica della stessa Colombia per capirci qualcosa non è sicuramente tra le nostre priorità.

Ma c'era odore di caffè e una nostra propensione alla curiosità ci ha portato a leggere l'articolo con la netta sensazione che qualcosa di interessante e di curioso stva tra quelle righe. In effetti abbiamo trovato riferimenti precisi alla Illy spa e al suo presidente Andrea Illy. Ci piace conoscere le attività delle aziende di successo del nostro territorio e condividere queste informazioni con i nostri lettori.



Tanti guerriglieri hanno cambiato vita e adesso, grazie agli accordi di pace, fanno i contadini. Due minacce però incombono: le prossime elezioni e il cambiamento climatico. 

Reportage dal nostro inviato Daniele Castellani Perelli

POPAYÁN (COLOMBIA). Cogliere l’attimo. Fino a poco tempo fa, per Diego, significava puntare il kalashnikov contro un soldato dell’esercito colombiano o un paramilitare delle autodefensas. Poi caricare, e fare fuoco. Oggi, invece, vuol dire capire quando la ciliegia del caffè è arrivata a maturazione. Poi staccarla, ed estrarne il chicco. «A 12 anni, quando perdemmo nostra madre, i miei fratelli se ne andarono dal villaggio in cerca di fortuna. Rimasi da solo, e due anni dopo venni “adottato” dalle Farc» ci racconta Diego, 28enne di Ituango ed ex membro del Frente 18, uno dei più violenti gruppi della guerriglia marxista fondata nel 1964, la più antica del Sudamerica.

«Ne sono uscito tre anni fa, ero stanco di fare la guerra e di vedere i miei compagni morire, uccisi anche dalle stesse Farc perché si erano macchiati di qualche colpa o semplicemente avevano provato a fuggire». Quando gli chiediamo se ricorda quanti uomini abbia ucciso, Diego abbassa la visiera del cappellino: «Difficile dirlo. Era tutto sempre così confuso. Sparavamo da lontano contando sulle imboscate, perché conoscevamo meglio il territorio rispetto all’esercito, che invece bombardava dall’alto. Usavamo kalashnikov, granate, revolver e anche i Galil che rubavamo ai militari. Eravamo sempre in movimento, ma nelle fasi di stasi facevamo i contadini, coltivavamo il platano e il mais».

Incontriamo Diego – un nome di fantasia per proteggere i suoi familiari – al Tecnicafé del Cauca. È un centro in cui, sotto la supervisione del governo, 120 ex combattenti delle Farc si stanno trasformando in caficultores. Sono alcuni dei 7 mila guerriglieri che, in cambio dell’amnistia, hanno consegnato le armi e firmato con il governo lo storico accordo di pace (inizialmente bocciato da un referendum popolare nell’ottobre scorso) con cui hanno chiuso una guerra durata oltre 50 anni e costata 220 mila morti e 5 milioni di sfollati. Il Cauca, in particolare, è una zona che è stata duramente colpita dal conflitto, tant’è che qui, lungo la strada, dei grossi sacchi bianchi stanno a indicare che i campi sono stati appena sminati. La struttura stessa è vigilata, per evitare che qualche ex miliziano cambi idea e scappi, o che sia vittima di vendette.

Ogni tanto in questo ex capannone in cui parliamo con Diego c’è uno scoppio, e tutti sobbalzano. Ma sono solo dei palloncini, quelli con cui hanno accolto una delegazione di Ascafé, della Federación Nacional de Cafeteros (produttori colombiani di caffè) e dell’azienda triestina Illycaffè, tutti e tre coinvolti in questo progetto che, se le cose andranno come previsto, un giorno permetterà ai 120 ex Farc di ricevere dallo Stato delle terre e mettere in pratica le conoscenze apprese al Tecnicafé. L’accordo generale prevede che ogni ex guerrigliero che non si sia macchiato di crimini di guerra potrà intraprendere un percorso di formazione gestito dall’Agencia para la Reintegración, organismo che ha già aiutato 60 mila ex combattenti, di destra e sinistra, a rientrare nella società.

È un cammino che dura da tre a sette anni a seconda del livello di istruzione originario, e al termine del quale si dovrebbero ricevere dal governo 8 milioni di pesos – 2.300 euro – per intraprendere progetti legati all’industria o all’agricoltura, dal cacao all’avocado, dalla quinoa a, appunto, il caffè. «Insegnare agli ex guerriglieri questo mestiere è un modo anche per incentivarli a rimanere qui in campagna, dove sono cresciuti, e non spingerli nelle fauci delle periferie urbane» ci spiega Lucas Uribe, 37 anni, da 14 anni dirigente dell’Agencia. «Anche molti ex paramilitari sono diventati nostri eccellenti produttori» aggiunge Carlos López, 40 anni, collo taurino e sangue meticcio, direttore di Ascafé, organizzazione che spedisce via mare a Illy, a Trieste, il 70 per cento della propria produzione.

Ma c’è anche chi il passaggio dal kalashnikov al chicco lo ha già concluso. Come l’ex comandante delle Farc Luis Fernando Bollocue, che ormai è un leader cafetero di peso. Ha 35 anni e vive a Toribio, una cittadina del Cauca a 1.700 metri sul livello del mare dove dagli anni Ottanta la guerriglia marxista ha ucciso 41 persone in più di 600 attacchi, il più cruento dei quali avvenne nel 2011 con un autobus bomba fatto esplodere alle 10 di mattina nel mercato centrale. Per raggiungere il comandante ci si arrampica su una strada sterrata dove di notte tutto è spento tranne la luna piena, e motorini con tre passeggeri compaiono all’improvviso in curva come in un videogame e vengono inghiottiti da nubi di polvere. Al termine della lunga traversata nella giungla, però, ad attenderci nel suo villaggio, tra i suoi, non c’è un colonnello Kurtz. La montagna partorisce un piccolo businessman molto pragmatico che, interpellato sulla sua vecchia vita col kalashnikov, ne traccia un ritratto assai riduttivo, quasi da colletto bianco: «Com’era la nostra giornata? Ci si svegliava alle 4 e mezza, ma la gran parte del tempo se ne andava in scartoffie e riunioni».

E quando gli chiediamo come si senta un ex guerrigliero comunista a lavorare oggi per il capitalismo internazionale, il comandante Luis Fernando sembra trovare la domanda inutilmente oziosa. «Es la vida» concede annoiato. Non c’è allora da stupirsi se, interrogato su cosa spingesse tanti giovani ad arruolarsi nelle Farc, se l’ideologia o il pane, non ci giri tanto intorno: «Nove su dieci cercavano anzitutto un lavoro». Jobs, jobs, jobs, direbbe Trump. Concetto che per Fernando e i suoi sodali, che hanno tutti appeso le armi al chiodo tra il 2009 e il 2012, si traduce in caffè, caffè, caffè, la loro specialità: «Ho lasciato le Farc perché volevo mettermi in proprio. Entrare è stato facile, ma uscire è stato complicato, perché ero a conoscenza di molti segreti, e infatti a un mio compagno non gliel’hanno permesso, l’hanno ucciso. Ora che sono stati firmati gli accordi di pace, sempre più ex Farc si stanno unendo a noi» conclude, mentre un gallo strepita a pochi metri.

Il caffè dunque come via d’uscita dal passato, e soprattutto nel Cauca, regione rurale del Sud Ovest in cui nel settore operano 93 mila coltivatori, il 16 per cento del Paese. È la storia anche di Wilmer Galindez e dell’Asociación de Cafeteros Afectados por las Minas, che insieme a lui riunisce uomini e donne rimasti mutilati da mine o altri ordigni abbandonati (la Colombia è il secondo Paese al mondo più colpito dopo l’Afghanistan: dal 1990 hanno ucciso 2 mila persone e ne hanno ferite altre 9 mila). «Raccoglievo le foglie di coca, ma era un mondo che non mi piaceva, e così sono passato al caffè, che peraltro oggi è anche più conveniente» racconta Wilmer, 38 anni, che nel 2010 su una mina ha perso il piede destro.

Le storie sulle nuove vite dei guerriglieri colombiani sono diventate anche un genere giornalistico. Gli ex Farc che si buttano nel business della marijuana, oppure in politica (lanceranno un partito il 1 settembre) o anche nel calcio. Ma qui è diverso. Dici Colombia e dici caffè (sì, certo: e cocaina, tant’è che a Los Angeles i produttori di Netflix hanno giocato con il binomio delle due “polverine” per promuovere la serie tv Narcos durante gli Emmy). 


E anche se il Paese è slittato al terzo posto nella classifica dei produttori subito dopo Brasile e Vietnam, rimane il primo per la qualità arabica, quella più pregiata, e il caffè è il suo terzo prodotto d’esportazione dopo petrolio e carbone: ne dipendono 560 mila coltivatori, il 96 per cento dei quali possiede solo 5 ettari. Basta poi girare per le piantagioni per capire l’orgoglio che circonda questo mondo. Ogni regione ha la sua varietà. Anzi, da solo il Cauca ne ha ben quattro, e quella della zona di Popayán, dicono, ha un «aroma fuerte y acaramelado, con notas dulces y florales». Così intanto, per tramandare questo sapere e spingere le famiglie dei caficultores a non emigrare nelle città, 55 scuole pubbliche superiori del Cauca hanno inserito nozioni specifiche sul caffè all’interno dei programmi, e prevedono una parte pratica dedicata alla coltivazione.

Alcune nuvole si addensano però minacciose sulle piantagioni degli ex guerriglieri. Sono quelle delle presidenziali del 2018, cui dopo due mandati non si può più candidare il presidente Juan Manuel Santos, che l’anno scorso ha ricevuto il Nobel proprio per la pace con le Farc. Cosa accadrà se vince la destra dell’ex presidente Alvaro Uribe, contrario invece all’accordo? A promettere tuoni e fulmini, però, sono soprattutto le nubi del cambiamento climatico. A giugno gli studiosi dei Kew Gardens di Londra hanno avvertito che in futuro, «se non facciamo nulla, ci sarà meno caffè, e probabilmente avrà un sapore peggiore e costerà di più». Da qui al 2050, a causa del riscaldamento globale, crollerà la quantità di aree in cui si potrà coltivare la varietà arabica: scenderà del 48 per cento in America Centrale, del 60 in Brasile, e del 70 nell’Asia sudorientale.

E tutto ciò mentre il mondo si attacca sempre più alla tazzina, visto che negli ultimi 35 anni la produzione è raddoppiata da 5 a quasi 10 miliardi di chili e per il terzo anno consecutivo il suo livello è stato superato da quello dei consumi e si è dovuti ricorrere alle scorte. E in Colombia? «Da cinque anni a questa parte la raccolta ritarda sempre di più, la stagione delle piogge si è intensificata, i contadini sono costretti a spingersi più in alto in montagna in cerca di temperature più clementi, e in generale il clima è imprevedibile. Il meteorologo è diventato il mestiere più difficile della Colombia» dice Carlos López. «D’estate si passa in poche ore dai 28 ai 10 gradi, e le gelate fanno danni enormi» conferma l’ex comandante Luis Fernando. Le nuove generazioni, davanti a queste sfide epocali, sono tentate di gettare la spugna. «I giovani sanno che a fare i contadini oggi si corrono grandi rischi, e infatti in Brasile alcune comunità stanno dicendo addio a questa pianta» ci dice Carolina Castañeda, dirigente della Federación Nacional de Cafeteros.

Il cambiamento climatico, colpendo quelle coltivazioni con cui gli ex Farc stanno iniziando una seconda vita, può mettere quindi a rischio il processo di pace? «Lo dico da caficultor: sì» ammette López. Inoltre tanti contadini colombiani potrebbero decidere di abbandonare la varietà arabica, più delicata, per quella robusta, più resistente al clima. Che cosa significa? Che il caffè dei nostri pronipoti, insomma, difficilmente sarà buono come il nostro. Il tema è stato anche il piatto forte del primo World Coffee Producers Forum, che si è tenuto un mese fa a Medellín. Ospiti d’onore sono stati il presidente Santos, l’ex inquilino della Casa Bianca Bill Clinton, l’economista Jeffrey Sachs e Andrea Illy.

«Con l’Asia che si sta aprendo al consumo, tra 30 anni dovremo raddoppiare la produzione, ma avremo la metà dei terreni a disposizione» ci spiega il presidente di Illycaffè, che compra qui da oltre 20 anni e che nel 2014, per portarsi avanti, ha fatto sequenziare il genoma dell’arabica. «Il settore deve adattarsi alle sfide del riscaldamento globale, altrimenti il prezzo andrà incontro a qualcosa di simile allo choc petrolifero, e per alcune comunità sarà una catastrofe. È importante che la Colombia continui a produrre caffè di qualità, soprattutto ora che tanti Paesi stanno invece approfittando del cambiamento climatico per entrare nel mercato, come la Cina, il Vietnam e il Ruanda. La guerra è stata finora un freno a mano per l’economia e il processo di pace rappresenta oggi un’enorme opportunità».
Dopo decenni di ferocia, questo è il momento più pacifico della storia moderna della Colombia. E un’intera generazione è chiamata ad approfittarne. «Quello del caffè è un frutto benedetto. È gustoso, e produce lavoro» dice Diego. E lui dove si vede, gli chiediamo, tra cinque anni? «Anzitutto ho ritrovato una mia sorella a Medellín e la aiuterò a metter su una sartoria. Poi, non so se lo Stato manterrà la promessa e mi darà un campo da coltivare, ma a me non importa.
Quando avrò imparato il mestiere troverò una esposa, anzi varias esposas» ride, «e risparmiando comprerò mi tierrita, il mio piccolo terreno. Sa, sono sempre stato un ragazzo di campagna».

(18 agosto 2017)

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