DIAMO A IL PICCOLO I MERITI CHE HA

L’unico bipolarismo che conta:
quello tra onesti e disonesti
di FRANCESCO JORI
L’Italietta dell’«io può». Da Roma al
Nordest, le cronache più recenti del malcostume diffuso suggeriscono il ricordo
dell’ex presidente di una squadra di calcio all’epoca in serie A, che si
vantava: «C’è chi può e chi non può. E io può».
Lasciamo stare tangenti, corruzioni
e altri reati; limitiamoci a banali comportamenti quotidiani, privi di rilievo
giuridico. Ma comunque ripugnanti, perché segnalano che per troppe persone, in
questo Paese, arrivare a una posizione di comando grande o piccola, o anche
soltanto essere vicini a chi la detiene, equivale a un lasciapassare per fare i
propri comodi, a spese degli altri.
Esemplare la vicenda del papà di un
ministro dell’attuale governo, il
quale - in virtù della semplice parentela - si sente autorizzato a scaricare sulle Poste italiane i nominativi di ottanta persone, un bel numero, non c’è che dire, con la chiosa: «Buttali dentro». Non meno urticante il caso di un signor Nessuno che da anni va contendendo ad altri suoi pari grado l’eredità della Democrazia cristiana (povero Alcide De Gasperi...); e che, pur contando meno del proverbiale due di picche, si vanta a destra e a manca di poter entrare nelle stanze che contano di una serie di ministeri e di enti pubblici.
quale - in virtù della semplice parentela - si sente autorizzato a scaricare sulle Poste italiane i nominativi di ottanta persone, un bel numero, non c’è che dire, con la chiosa: «Buttali dentro». Non meno urticante il caso di un signor Nessuno che da anni va contendendo ad altri suoi pari grado l’eredità della Democrazia cristiana (povero Alcide De Gasperi...); e che, pur contando meno del proverbiale due di picche, si vanta a destra e a manca di poter entrare nelle stanze che contano di una serie di ministeri e di enti pubblici.
Dalla capitale a Nordest, è vistoso il salto: in
basso.
Cominciando dal Mose, il costoso e avveniristico sistema di paratoie
mobili che si propone di salvare Venezia dalle acque bianche della marea
marina, ma intanto l’ha sprofondata in quelle nere.
Siamo di fronte a uno dei
più clamorosi scandali italiani, in cui un Consorzio (Venezia Nuova) si è
trasformato in consorteria, espressamente autorizzata a fare una cresta del 12
per cento su ogni affare concluso: mettendo così insieme un pozzo di San
Patrizio a cui si sono abbeverati a sbafo in tanti.
Politici, militari,
magistrati, alti funzionari, un’intera catena burocratica cominciando dai
dirigenti per finire agli uscieri, e perfino qualche non irrilevante uomo di
Chiesa.
Ma al di là dei fatti con o senza rilievo penale, colpiscono le parole
di uno dei protagonisti-chiave dell’abbuffata, il manager Piergiorgio Baita, in
un libro di prossima uscita: siamo in presenza di «un modello mentale, una
stortura culturale», in cui «cattivo mercato e cattiva politica si sono
contaminati». Con una conclusione amara quanto tombale: «Siamo un Paese
irrimediabilmente corrotto».
Sono di un registro minore, ma non per questo meno
sconfortanti, le parole pronunciate pochi giorni fa dal procuratore di Verona,
il magistrato Mario Giulio Schinaia, nel momento di andare in pensione: esiste,
dice, «una pratica diffusa, quella di affidare incarichi nelle aziende
pubbliche a familiari, amici e conoscenti»; colpa anche di «una normativa che è
complicata e farraginosa».
Ha ragione, e parla con cognizione di causa. Ma
sappiamo bene che non bastano le regole per garantire che in Italia le cose
funzionino, anzi: «Corruptissima res publica, plurimae leges», avvertiva con
acutezza già duemila anni fa Tacito.
Se davvero si vuole smentire l’epitaffio
di Baita, se davvero non ci si vuole rassegnare a quell’«irrimediabilmente»,
occorre un impegno severo, paziente, metodico dell’intera comunità: a
cominciare dai luoghi di base della formazione, scuola e famiglia, per
proseguire con le parrocchie, le associazioni, i sindacati, i partiti, i luoghi
della vita sociale e collettiva.
Dove bisogna seminare i valori di base di
quella religione civile esemplarmente descritta da Jean Jacques Rousseau nel
suo “Contratto sociale”. Ci vorranno tempo e fatica, perché il terreno è stato
pesantemente desertificato e inquinato dai tanti bucanieri del potere che da
tempo calpestano la legalità sostituendo i doveri con i privilegi, i diritti
con i favori. Ma è un compito imprescindibile e urgente, se non ci si vuole
rassegnare all’odierno pattume civico. Di qui passa l’unico bipolarismo che
davvero conta: quello tra onesti e disonesti. Col paradosso che i primi sono
molti di più, ma contano molto di meno. E sarebbe ora che si facessero sentire,
se non altro per una questione di igiene pubblica. Perché, come diceva molti
secoli fa Nicolò Machiavelli, a ciascuno puzza questo barbaro dominio.
Quel brindisi beffardo di Mazzocchi
che tesse il suo filo fino a Nordest
di FRANCESCO JORI
Stappa la mazzetta.
I 247.350 euro di
tangenti pronte da pagare, infilati nelle confezioni di spumante in casa di
Renato Mazzocchi (il funzionario della presidenza del Consiglio indagato per
riciclaggio e corruzione), non rappresentano solo un ribaldo brindisi a spese
di noi tutti: sono anche e soprattutto il capo di un perfido filo rosso che si
snoda fino a Nordest, tra il micro-caso del Comune di Abano Terme e il
macro-caso del Mose di Venezia.
E che al di là degli aspetti giudiziari mette a
nudo una drammatica verità: il vistoso deficit di etica dei privati, che nel
loro insieme mostrano di aver smarrito l'idea di istituzione, cioè una società
politicamente organizzata in modo civile.
E' questo comportamento collettivo a
offrire alla corruzione quel brodo di coltura che le ha consentito di
raggiungere dimensioni sconcertanti, e di diventare pervasiva: non sarà mai
possibile combatterla in modo efficace, se non si prosciuga questa palude
sociale, molto più estesa di quanto si creda.
La vicenda Mazzocchi in tal senso
è esemplare: ne sono protagonisti faccendieri, magistrati, manager, gli
immancabili politici. Ripropongono al centro della scena una squallida figura
come quella di Stefano Ricucci, ex portavoce dei famigerati "furbetti del
quartierino", che dieci anni dopo sono scaduti a furbastri: convinti che
tutto si compri, è solo questione di prezzo. E indicano come anello di
congiunzione un ributtante personaggio come Nicola Russo, giudice del Consiglio
di Stato: uso a ispirare il proprio comportamento di magistrato non alla legge
ma ai propri comodi, tra i quali sedersi alla guida di auto di lusso e andare a
puttane a spese della comunità; e di principi morali talmente elevati, da
essere indagato per prostituzione minorile.
Non meno mefitica della palude
romana si rivela quella veneziana. Negli ultimi trent'anni, lo Stato ha
sborsato per la salvaguardia di Venezia oltre 13 miliardi di euro: quanto
efficaci siano stati per una città più che mai fragile, è sotto gli occhi di
tutti.
In compenso, questa cifra si è rivelata più che salutare per decine e
decine di persone di ogni livello che hanno potuto beneficiarne in modo spesso
immotivato: a partire dal Consorzio Venezia Nuova, che da solo ha intascato
poco meno della metà dei soldi, utilizzandoli con criteri a dir poco
disinvolti. Con la complicità di chi li ha intascati senza farsene eccessivi
scrupoli: inclusa qualche istituzione ecclesiastica, che pure in materia di
etica un minimo di sensibilità in più dovrebbe averla.
Fatte le debite
proporzioni, il meccanismo presenta peraltro una sostanziale analogia con i
fatti di Abano: dove un politico discutibile come Luca Claudio, abbonatosi al
ruolo di sindaco a oltranza a costo di andare in trasferta da un municipio
all'altro, ha comunque potuto contare sul voto di una maggioranza di elettori.
Sui quali ha fatto presa più il suo decisionismo che la sua disinvoltura:
dimenticando che non basta avere la città pulita, se sono sporche le mani.
Certo, toccherà ai giudici pronunciarsi sui rilievi penali e civili di tutte
queste poco edificanti vicende, ed emanare i relativi provvedimenti. Ma tocca a
tutti noi, qui e subito, capire come sia stato possibile giungere a simili
livelli, e soprattutto come sia possibile non ripeterli in futuro. Un compito
che non si esaurisce chiamando in causa i soli politici: accanto ad essi ci
stanno troppi privati cui la corruzione conviene alla grande. Come per la
prostituzione, se c'è chi è pagato, c'è con tutta evidenza pure chi paga.
Però
non basta ancora: c'è anche una società che non ci guadagna, ma che con la sua
diffusa apatìa civica consente ai farabutti di guadagnarci. E che magari si
consola pensando di avere la coscienza pulita. Ma è solo perché non la usa.
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