domenica 19 gennaio 2020

GENOVA : UN PEZZO DI STORIA DELLA COMPAGNIA UNICA



La scomparsa di Roberto D' Alessandro (presidente del Consorzio autonomo del porto dal 1984 al 1988) è l' occasione per rievocare quel periodo che divise la città. D' Alessandro voleva riorganizzare il porto come un' azienda per fare fronte al container che stava cambiando il ruolo geografico e produttivo dei porti. 


Genova era l' anello debole per i tempi e i costi di transito. I responsabili erano indicati nella gestione pubblica e nel monopolio del lavoro della Compagnia. Sinché il progetto di D' Alessandro rimase sulla carta filò liscio. Il conflitto si accese quando si tentò di privare la Compagnia dell' autonomia. Questo accese gli scioperi e il progetto tramontò. Fino a che nell' 89 il ministro Prandini non intervenne con i decreti, risvegliando il conflitto ma aprendo la strada alla riforma portuale. Alla fine del 1986 uscì un articolo di Giorgio Bocca intitolato: «Che tesoro quelle navi per i sultani del porto». L' epiteto era per i portuali: «Questa volta non ci sono santi, o finisce sulle banchine il potere assoluto dei portuali o va definitivamente alla malora il porto». Quell' epiteto divenne il leit motiv di una campagna pro D' Alessandro contro la Compagnia, che le categorie economiche commissionarono a un' agenzia americana, la Hill+Knowlton Strategies. I temi su cui si imperniava erano due: "la crisi del porto", per l' informazione economica, e "i califfi del porto", per quella di costume. Si accese un dibattito sulla liceità professionale dell' iniziativa, mentre su quella legale si appurò che il finanziamento proveniva esclusivamente dai privati. Nel 1989 Bocca tornò con un articolo in cui l' epiteto cambiava: «Come i mohicani un' inutile battaglia contro il tempo». La chiave era nella svolta di Prandini di forzare le norme verso una riforma che la Corte di giustizia avrebbe reso ineludibile. Stava altresì nell' incalzare dei nuovi paradigmi di trasporto che sottraendo senza appello il lavoro dei portuali ne minavano il potere. Come scrisse anni dopo Bruno Musso che da armatore e terminalista aveva affrontato la Compagnia: «La banchina è riserva "coman che", non conta la legge ma la capacità di controllare il territorio». Venendo a mancare il lavoro in stiva sostituito dalle gru pacheco i portuali avrebbero perso il controllo del porto. La Compagnia aveva vinto la battaglia con D' Alessandro ma alla fine perse la guerra? I portuali erano consapevoli del futuro che li attendeva, avevano anche denunciato la debolezza degli investimenti e promosso un' autoriforma organizzativa e professionale. Ma non avrebbero permesso che la riforma avvenisse con il sacrificio solo del lavoro: il progresso andava coniugato con i diritti in modo che pure i lavoratori godessero i frutti dello straordinario aumento di produttività promesso dai container. Nei ricordi di D' Alessandro si legge che l' attuale successo del porto è stato possibile grazie al suo coraggio. Grazie alla scomparsa dei califfi e dei mohicani. A ben vedere gli indiani ci sono ancora. Non più chiusi nella riserva di manodopera, operano in tutto il porto, dipendenti dei terminal e soci della Compagnia, e l' unione delle tribù garantisce i record di produttività al Psa di Pra', il più grande terminal d' Italia. Come ieri lavorano e lottano per trarne il maggiore beneficio economico e sociale, con la coscienza di partecipare alla gestione di un porto che resta pubblico e dell' antagonismo con gli interessi degli azionisti delle imprese. Ma anche per il controllo delle banchine, per evitare che siano territorio di caccia di lavoro precario e insicuro da parte di autentici sultani che non conoscono alcun interesse generale che limiti le loro brame di profitto.


Riccardo Degl' Innocenti
Esperto di lavoro portuale
Fonte : SECOLO XIX 15 gennaio 2020

Nessun commento:

Posta un commento