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Agosto 2019
Per
l’Italia il progetto vale sulla carta 45 miliardi e può dare lavoro a 900mila
persone solo nel comparto del trasporto marittimo. Ma saranno le imprese di
Pechino ad avere i vantaggi maggiori. E gli armatori nazionali lanciano
l’allarme
di
MASSIMO MINELLA
Che
sia sempre più vicina, non ci sono dubbi. Ma è sul tipo di vicinanza fra Italia
e Cina che è ancora necessario fermarsi a riflettere, soprattutto se il tema è
quello del trasporto via mare delle merci dall’Asia al Mediterraneo.
Soprattutto adesso che comincia a prendere forma il grande disegno strategico
della “Belt and Road” lanciata dal presidente cinese Xi Jinping, la moderna Via
della Seta che punta a governare il flusso delle merci da Oriente a Occidente.
Solo per l’Italia è una partita che vale 45 miliardi di euro e lavoro per
900mila persone, se si guarda al complesso dei trasporti marittimi e
dell’industria del mare. Ma se si considera l’effetto indotto generato dalla
blue economy sul resto dell’economia, allora il fatturato triplica e vola a 130
miliardi.
65
nazioni e 50 miliardi
Numeri
eclatanti che rischiano comunque di sparire nella valutazione complessiva di un
progetto, quale appunto quello della Via della Seta, che coinvolge 65 nazioni e
stima oltre 50 miliardi di dollari di investimenti previsti, oltre a 10
miliardi di prestiti ai paesi africani in cambio della realizzazione e della
gestione delle infrastrutture.
Un
oceano di denaro che molti colgono come una grande opportunità, a cominciare
dal governo Conte che con la Cina ha firmato una lunga serie di accordi sul
tema, e altri vedono in modo più critico. Il punto di partenza comune a tutti
non può non essere il presente, con un interscambio tutto sommato contenuto. La
movimentazione di container con destinazione finale Far East fra Italia e Cina,
garantita da una quindicina di compagnie armatoriali, è di circa 800mila teu
(unità di misura del container pari a un pezzo di 20 piedi) in export (grandi
quantità di rifiuti da riciclare che via via la Cina sta bloccando e pochi
prodotti di qualità) e circa 1,1 milioni di teu in import (prodotti tecnologici
e di ogni genere).
Tanta
Cina, poca Italia
Insomma,
finora i vantaggi sono oggettivamente maggiori per l’industria cinese rispetto
a quella italiana. Adesso si tratta di gestire e governare il futuro del
traffico merci via mare che potrebbe garantire oggettivamente qualche
soddisfazione in più. La “Shangai International Shipping” prevede infatti che
nel 2030 il traffico commerciale dei porti cinesi possa raddoppiare, salendo a
24 miliardi di tonnellate. In gioco non c’è solo una questione di peso,
ovviamente, ma anche di qualità del prodotto. Nel solo distretto di Chongqing,
ad esempio, si produce il 40 per cento dei computer portatili di tutto il
mondo. Anche per il Mediterraneo e l’Italia, quindi, le opportunità di business
possono crescere. E non solo per la modalità marittima, visto che il progetto
della Via della Seta corre anche su un treno che punta alle lunghe distanze,
tenuto conto che la distanza ferroviaria tra Italia e Cina è di 11mila
chilometri.
La
via italiana
Il
tema di fondo è come gestire questo interscambio, evitando se possibile ruoli
subalterni e arrivando, in ipotesi, a proporre addirittura una “Via italiana”
alla Via della Seta. Sarebbe un’opportunità unica per spostare verso Sud l’asse
degli scambi in Europa, rilanciando i porti italiani. Per farlo, però, è
necessario far crescere i porti, trasformandoli da banchine per il carico e lo
scarico delle merci in piattaforme logistiche in cui concentrare le varie
modalità di trasporto, mare, gomma, ferro, cielo. “Ciò significa che i porti
vanno dragati, connessi a una rete ferroviaria moderna che trasporti
contenitori di ultima generazione e che gli investimenti in infrastrutture
vanno sbloccati subito – spiega il presidente di AssArmatori Stefano Messina -
La Cina è sicuramente una grande opportunità, ma vorrei ricordare ai nostri
amici cinesi che qui in Europa vigono le regole dell’economia di mercato. Sia
il Governo nazionale che le istituzioni europee esercitino dunque le loro
prerogative per proteggere gli operatori già attivi in questo mercato da quelle
iniziative che non rispettano le regole che ben conosciamo, a partire da quelle
che vietano gli aiuti di Stato ovvero pregiudicano gli interessi del Paese
nell’esercizio delle proprie infrastrutture strategiche”.
Gli
operatori
Ancor
più netta la posizione di Federlogistica (Conftrasporto-Confcommercio), che
riunisce alcuni fra i principali attori del segmento logistico nazionale e
annovera tra gli associati interporti, gestori di magazzini interportuali,
portuali e retroportuali, operatori di spedizioni e trasporti multimodali e
fornitori di servizi portuali e tecnico-nautici.
“Non
siamo ovviamente contrari all’incremento degli scambi con la Cina e il Far East
- commenta il presidente Luigi Merlo, già al vertice dell’autorità portuale di
Genova e poi consulente del ministero dei Trasporti - Ciò che ci preoccupa è
l’assenza di reciprocità, il fatto che la Cina trattando con i singoli paesi
europei, potrebbe potenzialmente nell’arco di pochi anni governare le
principali reti di comunicazione, determinando condizioni, tariffe e il
successo economico di una nazione a discapito di un’altra”.
Serve
l’Europa
Soluzioni?
Merlo chiede di lasciar perdere i confini italiani e allargare la riflessione
all’Europa. “Solo un’azione unitaria dell’Europa, oggi già in ritardo, può
evitare una politica egemonica cinese – chiude Merlo - Gli Usa se ne sono
accorti seppure in ritardo e stanno agendo di conseguenza. Penso sarebbe utile
un accordo doganale con la Cina anche per limitare la grande quantità di
prodotti contraffatti, dalla moda ai prodotti di bellezza, dai giocattoli fino
ai medicinali, che invadono il nostro paese. Con l’illusorio sogno di vedere
moltiplicati i traffici, che dipendono dalla crescita economica interna e non
certo dal fatto che le infrastrutture italiane siano di proprietà cinese,
rischiamo di cedere sovranità su asset strategici fondamentali. La verità è che
in Italia la discussione sulla Via della Seta è stata affrontata con troppa
enfasi e provincialismo senza considerare i gravi rischi nel medio e lungo
periodo”.
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