Camalli di razza. O quasi
05 Luglio
2019
Accolgono i
rifugiati e bloccano i carichi di armi. Ma hanno i conti in rosso. Restano
fedeli alle tradizioni di sinistra. Ma c'è chi si butta a destra. Viaggio tra i
nuovi portuali genovesi
di ALESSANDRO CASSINIS
GENOVA. Un sms li chiama in
banchina con due ore di preavviso. È finito il tempo in cui i camalli di Genova
aspettavano l'avviamento al lavoro nella sala Chiamata, che oggi è a
disposizione della città.
Dalla festa dei buddisti cingalesi alle serate di
fine anno dei liceali, una nuova vita sociale scorre nell'edificio in cemento e
mattoni rossi di fronte alla Lanterna, sede della Compagnia unica lavoratori
merci varie. Qualche imbarazzo resta, se ancora due anni fa una classe del
D'Oria, il liceo più elitario di Genova, andò a ballare altrove, lontano dallo
sguardo duro di Paride Batini dipinto su una parete accanto al pugno con il
gancio e al simbolo internazionale della working class, i martelli incrociati.
Il generale Giap
Sono cambiati i riti del lavoro, le navi, i porti, i padroni del vapore. Però lo spirito della Compagnia è ancora quello del 1973, quando i portuali, dopo mesi di boicottaggio delle navi americane dirette in Vietnam, portarono a Haiphong la carretta Australe carica di aiuti. Il generale Giap venne in Italia per ringraziarli. Cambia il mondo, ma nel Paese dei porti chiusi sono ancora loro di guardia sull'ultima frontiera dell'umanità: loro, i camalli, dall'arabo hamal (facchino), temuti e detestati per il privilegio che si tramandano di padre in figlio, quel monopolio del lavoro nato a Genova nel 1340 con la Compagnia dei Caravana e sopravvissuto nell'era dei colossi multinazionali. E così sono loro, il 20 maggio, a scioperare d'accordo con la Cgil per non imbarcare due generatori di uso anche militare sulla nave saudita Bahri Yanbu diretta nello Yemen, dove la guerra ha già ucciso sessantamila civili. Sono loro a fermarsi nuovamente, il 20 giugno, quando una nave gemella prova a imbarcare le apparecchiature rimaste in porto. E sono sempre loro ad appendere alla Lanterna uno striscione con la scritta "Benvenuti" per accogliere il 2 giugno i cento profughi salvati nel mare della Libia dal pattugliatore della Marina Cigala Fulgosi. È nel loro Dna. Otto anni fa ospitarono nella sala Chiamata seicento migranti dalla Tunisia che nessuno voleva.
Dal soviet all'impresa
Dal Vietnam a oggi tutto è cambiato. Allora il porto di Genova era pubblico, adesso è privatizzato. I camalli erano 6.200, sono rimasti 1.100, e quelli operativi sono 930. In mezzo c'è la riforma portuale del '94 e la scelta del console Batini di trasformare la Compagnia in impresa. Metamorfosi incompiuta, perché organizzazione e profitto non sono nel codice genetico dei portuali; però coraggiosa, come riconosce l'armatore Bruno Musso, il primo a rompere il monopolio del camalli nel luglio 1992 chiedendo di utilizzare anche personale proprio. "Batini era un genio, capì che doveva perdere per vincere. Il più grosso Soviet italiano scese a 500 soci e risalì a mille solo perché molti dipendenti dei terminal erano rimasti senza lavoro". Il ricordo è cavalleresco: "Avevano un favoloso livello di umanità e cultura operaia. Io ero il nemico, ma Batini aveva ordinato di non toccarmi. Una volta un tizio mi tirò un grosso tacco di legno e mi mancò. Lo massacrarono". Ora sulle banchine privatizzate dalle famiglie genovesi sono sbarcati i fondi e i giganti come Psa di Singapore o Msc di Ginevra, con manager la cui unica religione è l'ebitda, il margine operativo lordo. Nessuno fa commenti ufficiali per timore di rompere la pace sociale, ma i giudizi a microfoni spenti sono durissimi. "I portuali non hanno il controllo del costo del lavoro, hanno quattro milioni di crediti inesigibili verso soci, le spese generali sono folli. Tecnicamente sono già falliti, ogni anno dobbiamo integrare i loro ricavi. E pensare che potrebbero fare un sacco di utili".
Lo scontro sulle sei ore
Per aiutare la Compagnia a rimettere ordine nei conti, un anno fa, arrivano due commercialisti suggeriti dall'Autorità di sistema portuale, Alessandro Marenco e Lelio Fornabaio. Il bilancio viene rivoltato come un calzino. Sotto la lente finiscono le polizze assicurative da un milione di euro e anche la mensa, aperta a tutti a 2,80 euro per un pasto che ne costa 12. E poi i due o trecento soci inabili e inattivi, entrati anche grazie all'intercessione della politica, della curia e di don Andrea Gallo. Malgrado le 224 mila giornate lavorate, i conti non quadrano nemmeno nel 2018: 51 milioni i ricavi, 54 milioni i costi, risultato operativo in rosso per 3 milioni, pareggio raggiunto solo con le integrazioni dei privati (2,2 milioni) e i contributi del decreto Genova (0,8). Undici mesi fa l'assemblea dei soci approva il piano di riorganizzazione e rilancio, che però è ancora quasi tutto da mettere in pratica. Eppure il modello della Compagnia, quello di un fornitore di manodopera in regime pubblicistico, sarebbe l'ideale per un porto che si prepara ad accogliere le mega navi, con picchi di traffico improvvisi. Ai privati fa comodo avere un costo variabile che consente di non fare nuove assunzioni fisse. Purché siano garantite "efficacia, efficienza e sicurezza".
Mugugni e sigarette
Antonio Benvenuti, classe 1951, portuale dal '74 e console della Compagnia dalla morte di Batini nel 2009, replica ai mugugni dei terminalisti fumando una sigaretta dietro l'altra. "La nostra forza è che non è facile sostituirci. Loro non sono attrezzati per rispondere alla concentrazione di lavoro legata al ciclo dei contenitori, dei traghetti e delle crociere. Quando arrivano quattro navi con 16 mila passeggeri, noi mandiamo anche 120 persone in un turno per portare i bagagli. Siamo indispensabili". Ma se vi pagano un turno di sei ore, perché ve ne andate appena avete finito? "I portuali guadagnano meno dei dipendenti dei terminal. Ci obbligano a passare il badge, e va bene, ma non possono chiedermi di multare chi esce prima perché ha finito il lavoro. Genova è l'unico porto dove si possono fare sette chiamate al giorno. Loro non riescono ad apprezzare nemmeno questo".
La signorina Marco Canepa
Benvenuti è di Lotta Comunista. "Ho le mie idee, ma faccio il console pro tempore e devo gestire un bilancio". Ricorda quando il Pci faceva della Compagnia un soggetto politico, mentre oggi "nessun partito ci rappresenta all'esterno, ci rappresentiamo da soli". In consiglio ci sono anche uomini vicini al governatore Giovanni Toti e fra i soci c'è chi ha votato Forza Italia, Lega e perfino CasaPound, un paradosso se pensiamo che i portuali andarono in piazza il 30 giugno 1960 per impedire il congresso del Movimento Sociale Italiano. Ma sono scelte personali, non cambi di fronte. Come quelle di Marco Canepa, che si fa chiamare "signorina Marco Canepa" perché è la prima camalla trans d'Italia con il nome di Valentina: in pochi anni è passata dai Verdi al "sovranismo illuminato". L'unico politico che apprezza oggi è "nonno Silvio", però vorrebbe "un mondo di tante piccole Grete rompiscatole" e condivide il boicottaggio della nave saudita. Dice che Maciste, il gigante buono interpretato sullo schermo dal portuale Bartolomeo Pagano, "non se la prenderebbe con i poveracci, ma con i mercanti d'armi e con lo Stato che non controlla".
Che Guevara, Fidel Castro e il Pci
Fermo come una roccia sulle sue idee è invece Luca Franza, "sinceramente ateo e mentalmente anarcoide", delegato sindacale Filt Cgil e membro storico del Collettivo autonomo lavoratori del porto, l'organismo più radicale sulle banchine genovesi. Nel suo Pantheon ci sono il Che, "per averci insegnato a conservare la tenerezza che abbiamo dentro", e Fidel Castro perché ha resistito a un embargo mondiale. "Non sono comunista perché non amo i regimi". Privilegiato? "Guadagniamo le giornate che facciamo, a 52 anni mi devo ancora inginocchiare per ore a mettere delle catene. Provate voi". C'è futuro per la Compagnia? "È casa nostra. Guai a chi me la tocca. Abbiamo le nostre contraddizioni, ma se non ci fossimo noi, i conti dovrebbero farli tutti, compresi i padroni". Ventidue diversi gruppi della sinistra frequentano il circolo ricreativo del porto presieduto da Danilo Oliva, ultimo leader dei portuali Cgil e primo segretario della Filt, che si definisce ancora comunista del Pci. "Le nave delle armi? Venticinque anni fa non le avremmo nemmeno fatte entrare in porto".
Sul Venerdì del 28 giugno 2019
Il generale Giap
Sono cambiati i riti del lavoro, le navi, i porti, i padroni del vapore. Però lo spirito della Compagnia è ancora quello del 1973, quando i portuali, dopo mesi di boicottaggio delle navi americane dirette in Vietnam, portarono a Haiphong la carretta Australe carica di aiuti. Il generale Giap venne in Italia per ringraziarli. Cambia il mondo, ma nel Paese dei porti chiusi sono ancora loro di guardia sull'ultima frontiera dell'umanità: loro, i camalli, dall'arabo hamal (facchino), temuti e detestati per il privilegio che si tramandano di padre in figlio, quel monopolio del lavoro nato a Genova nel 1340 con la Compagnia dei Caravana e sopravvissuto nell'era dei colossi multinazionali. E così sono loro, il 20 maggio, a scioperare d'accordo con la Cgil per non imbarcare due generatori di uso anche militare sulla nave saudita Bahri Yanbu diretta nello Yemen, dove la guerra ha già ucciso sessantamila civili. Sono loro a fermarsi nuovamente, il 20 giugno, quando una nave gemella prova a imbarcare le apparecchiature rimaste in porto. E sono sempre loro ad appendere alla Lanterna uno striscione con la scritta "Benvenuti" per accogliere il 2 giugno i cento profughi salvati nel mare della Libia dal pattugliatore della Marina Cigala Fulgosi. È nel loro Dna. Otto anni fa ospitarono nella sala Chiamata seicento migranti dalla Tunisia che nessuno voleva.
Dal soviet all'impresa
Dal Vietnam a oggi tutto è cambiato. Allora il porto di Genova era pubblico, adesso è privatizzato. I camalli erano 6.200, sono rimasti 1.100, e quelli operativi sono 930. In mezzo c'è la riforma portuale del '94 e la scelta del console Batini di trasformare la Compagnia in impresa. Metamorfosi incompiuta, perché organizzazione e profitto non sono nel codice genetico dei portuali; però coraggiosa, come riconosce l'armatore Bruno Musso, il primo a rompere il monopolio del camalli nel luglio 1992 chiedendo di utilizzare anche personale proprio. "Batini era un genio, capì che doveva perdere per vincere. Il più grosso Soviet italiano scese a 500 soci e risalì a mille solo perché molti dipendenti dei terminal erano rimasti senza lavoro". Il ricordo è cavalleresco: "Avevano un favoloso livello di umanità e cultura operaia. Io ero il nemico, ma Batini aveva ordinato di non toccarmi. Una volta un tizio mi tirò un grosso tacco di legno e mi mancò. Lo massacrarono". Ora sulle banchine privatizzate dalle famiglie genovesi sono sbarcati i fondi e i giganti come Psa di Singapore o Msc di Ginevra, con manager la cui unica religione è l'ebitda, il margine operativo lordo. Nessuno fa commenti ufficiali per timore di rompere la pace sociale, ma i giudizi a microfoni spenti sono durissimi. "I portuali non hanno il controllo del costo del lavoro, hanno quattro milioni di crediti inesigibili verso soci, le spese generali sono folli. Tecnicamente sono già falliti, ogni anno dobbiamo integrare i loro ricavi. E pensare che potrebbero fare un sacco di utili".
Lo scontro sulle sei ore
Per aiutare la Compagnia a rimettere ordine nei conti, un anno fa, arrivano due commercialisti suggeriti dall'Autorità di sistema portuale, Alessandro Marenco e Lelio Fornabaio. Il bilancio viene rivoltato come un calzino. Sotto la lente finiscono le polizze assicurative da un milione di euro e anche la mensa, aperta a tutti a 2,80 euro per un pasto che ne costa 12. E poi i due o trecento soci inabili e inattivi, entrati anche grazie all'intercessione della politica, della curia e di don Andrea Gallo. Malgrado le 224 mila giornate lavorate, i conti non quadrano nemmeno nel 2018: 51 milioni i ricavi, 54 milioni i costi, risultato operativo in rosso per 3 milioni, pareggio raggiunto solo con le integrazioni dei privati (2,2 milioni) e i contributi del decreto Genova (0,8). Undici mesi fa l'assemblea dei soci approva il piano di riorganizzazione e rilancio, che però è ancora quasi tutto da mettere in pratica. Eppure il modello della Compagnia, quello di un fornitore di manodopera in regime pubblicistico, sarebbe l'ideale per un porto che si prepara ad accogliere le mega navi, con picchi di traffico improvvisi. Ai privati fa comodo avere un costo variabile che consente di non fare nuove assunzioni fisse. Purché siano garantite "efficacia, efficienza e sicurezza".
Mugugni e sigarette
Antonio Benvenuti, classe 1951, portuale dal '74 e console della Compagnia dalla morte di Batini nel 2009, replica ai mugugni dei terminalisti fumando una sigaretta dietro l'altra. "La nostra forza è che non è facile sostituirci. Loro non sono attrezzati per rispondere alla concentrazione di lavoro legata al ciclo dei contenitori, dei traghetti e delle crociere. Quando arrivano quattro navi con 16 mila passeggeri, noi mandiamo anche 120 persone in un turno per portare i bagagli. Siamo indispensabili". Ma se vi pagano un turno di sei ore, perché ve ne andate appena avete finito? "I portuali guadagnano meno dei dipendenti dei terminal. Ci obbligano a passare il badge, e va bene, ma non possono chiedermi di multare chi esce prima perché ha finito il lavoro. Genova è l'unico porto dove si possono fare sette chiamate al giorno. Loro non riescono ad apprezzare nemmeno questo".
La signorina Marco Canepa
Benvenuti è di Lotta Comunista. "Ho le mie idee, ma faccio il console pro tempore e devo gestire un bilancio". Ricorda quando il Pci faceva della Compagnia un soggetto politico, mentre oggi "nessun partito ci rappresenta all'esterno, ci rappresentiamo da soli". In consiglio ci sono anche uomini vicini al governatore Giovanni Toti e fra i soci c'è chi ha votato Forza Italia, Lega e perfino CasaPound, un paradosso se pensiamo che i portuali andarono in piazza il 30 giugno 1960 per impedire il congresso del Movimento Sociale Italiano. Ma sono scelte personali, non cambi di fronte. Come quelle di Marco Canepa, che si fa chiamare "signorina Marco Canepa" perché è la prima camalla trans d'Italia con il nome di Valentina: in pochi anni è passata dai Verdi al "sovranismo illuminato". L'unico politico che apprezza oggi è "nonno Silvio", però vorrebbe "un mondo di tante piccole Grete rompiscatole" e condivide il boicottaggio della nave saudita. Dice che Maciste, il gigante buono interpretato sullo schermo dal portuale Bartolomeo Pagano, "non se la prenderebbe con i poveracci, ma con i mercanti d'armi e con lo Stato che non controlla".
Che Guevara, Fidel Castro e il Pci
Fermo come una roccia sulle sue idee è invece Luca Franza, "sinceramente ateo e mentalmente anarcoide", delegato sindacale Filt Cgil e membro storico del Collettivo autonomo lavoratori del porto, l'organismo più radicale sulle banchine genovesi. Nel suo Pantheon ci sono il Che, "per averci insegnato a conservare la tenerezza che abbiamo dentro", e Fidel Castro perché ha resistito a un embargo mondiale. "Non sono comunista perché non amo i regimi". Privilegiato? "Guadagniamo le giornate che facciamo, a 52 anni mi devo ancora inginocchiare per ore a mettere delle catene. Provate voi". C'è futuro per la Compagnia? "È casa nostra. Guai a chi me la tocca. Abbiamo le nostre contraddizioni, ma se non ci fossimo noi, i conti dovrebbero farli tutti, compresi i padroni". Ventidue diversi gruppi della sinistra frequentano il circolo ricreativo del porto presieduto da Danilo Oliva, ultimo leader dei portuali Cgil e primo segretario della Filt, che si definisce ancora comunista del Pci. "Le nave delle armi? Venticinque anni fa non le avremmo nemmeno fatte entrare in porto".
Sul Venerdì del 28 giugno 2019
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