Riprendiamo e rilanciamo questo intervento del prof. Sergio Bologna pubblicato una quindicina di giorni fa sul sito di Ship2shore
17/05/19 13:01
“Altro che Cina, il pericolo è nei porti Spa”
Secondo Sergio Bologna gli accordi della Via della Seta
non hanno nulla di allarmante. A preoccupare sono il
project financing all’italiana e i progetti privatistici di
riforma delle Autorità Portuali
È davvero sconcertante il dibattito che si è aperto e sta continuando sui rischi per l’Italia della Via della Seta, dove si manifesta molta più ignoranza e malafede che ponderata discussione sulle scelte che s’impongono al nostro paese in termini di gestione dei propri asset logistici.
Si vuol creare una specie di psicosi del “pericolo giallo”, come se la Cina volesse mettere le mani sui nostri porti per invaderci con le sue merci, e volesse porre un’ipoteca su infrastrutture rilevanti sul piano della sicurezza, dimenticando – come dimostrano gli allarmismi USA sulla tecnologia 5G di Huawei – che anche sul piano militare oggi le infrastrutture immateriali sono assai più determinanti di quelle fisiche.
Per fortuna il governo – verso il quale non ho nessuna simpatia – non si è prestato a questo gioco ed ha firmato quel memorandum che, come ha spiegato benissimo il Presidente Zeno d’Agostino in sede di commissione parlamentare, non ha nulla di vincolante e nulla che non sia conforme alle regole europee sulle concessioni in ambito portuale.
La Cina quindi non ha “individuato” dei porti italiani come obbiettivo della sua conquista, ma ha dimostrato interesse per porti, come Genova e Trieste, che sono ovviamente da almeno 30 anni oggetto d’interesse per investitori esteri. Perché ovviamente? Perché sono i porti che meglio permettono un accesso al mercato italiano e al mercato europeo. Sono dei porti – questo è il colmo - nei quali gli unici investitori che si vedono poco sono proprio gli italiani. Pensiamo a Trieste: il petrolio è in mano a una società austro-tedesca, i traffici Ro Ro in mano a una società danese, i traffici container per la metà in mano a una società ginevrina (anche se controllata da italiani) e i metalli non ferrosi a una società a controllo olandese. Colmo dei colmi a Trieste e nella Regione Friuli Venezia Giulia la canea sul “pericolo giallo” si è scatenata a proposito della piattaforma logistica – esempio rarissimo, invece, di capitali italiani disposti a investire in infrastrutture. Per quanto riguarda Genova non c’è bisogno di ricordare chi controlla il principale terminal container: in parte una società di Singapore, in parte dei fondi anglo-francesi. I cinesi sono presenti attualmente solo nella società che ha ottenuto la concessione del terminal container di Vado Ligure. Dove sta il “pericolo giallo”? E come mai non si è gridato al “pericolo giallo” quando abbiamo venduto ai cinesi la Pirelli oppure società high tech come Esaote?
La questione assume dei risvolti grotteschi quando, invece di guardare all’Italia, si guarda all’Europa ed alla presenza cinese nella logistica europea. I cinesi hanno fatto man bassa in Germania, in Francia, in Svizzera, di società di logistica, aeroporti, società di leasing di container, società di engineering ferroviario, di noleggio di veicoli, compagnie aeree. Hanno comperato in un colpo solo da un fondo americano circa 13,7 milioni di metri quadri di superfici destinate alla logistica. La loro società di e-commerce Alibaba dalla sua piattaforma di 68 mila metri quadri vicino a Praga si appresta a contendere il mercato europeo a un gigante come Amazon. Non hanno bisogno certo dei nostri porti per conquistare il mercato europeo, sono già installati a sufficienza nel cuore dell’Europa. Non hanno bisogno d’infilarsi da Sud, dai porti mediterranei, sono già comodamente installati da Nord.
Il problema, se vogliamo ragionare in questi termini, non sono i porti ma gli aeroporti da dove entrano merci, non solo cinesi, tramite l’e-commerce, a prezzi che mandano all’aria migliaia di nostri negozi e superfici di vendita anche di grandi dimensioni. Magari non pagando Iva e dichiarando valori della merce molto inferiori al vero. Se una videocamera giapponese mi costa a listino 800 euro ed Amazon me la porta a casa per 500, nessuno si chiede come mai?
Ma torniamo alla Via della Seta. I capitali disponibili per questa operazione non sono tutti cinesi, anzi, potremmo dire che i cinesi ci hanno messo un chip e che il resto è arrivato o arriverà da quel capitale finanziario internazionale senza patria che gira vorticosamente per il pianeta in cerca d’impieghi remunerativi ed al quale dei problemi di potenza o di egemonia politica non interessa un fico secco. Nei primi mesi di quest’anno, in piena guerra commerciale, l’afflusso di capitali americani in Cina è aumentato del 6,5% rispetto al 2018 (fonte: South China Morning Post, 29.04.19).
Se questa storia della via della Seta ci deve indurre a una riflessione semmai è su un altro versante, quello del finanziamento delle infrastrutture. Com’è noto la dottrina europea che da anni va per la maggiore è che le infrastrutture debbono finanziarle i privati e non lo stato, che è sempre più scarso di risorse. È il famoso project financing, che avrebbe dovuto diminuire il debito pubblico. A dirla così tutto va bene, anzi, se lo stato le risorse le dedica al welfare invece che a costruire dighe o autostrade, siamo tutti contenti. Il privato avrà il suo utile dalla gestione dell’infrastruttura, dai canoni o dai pedaggi che incasserà. Ma siamo in Italia, paese di magliari, e succede che sì le banche private tirano fuori i soldi per costruire un’infrastruttura, ma pretendono che quell’investimento sia garantito dallo stato e a questo punto le regole europee prevedono che l’ammontare dell’investimento sia calcolato come debito pubblico (tant’è che in Spagna non ne vogliono sapere). Molti progetti di questo tipo in questi ultimi anni sono stati chiamati project financing, in realtà erano dei mutui mascherati. Non solo. Occorre vedere com’è congegnato il contratto che autorizza un’operazione di questo genere. Pensiamo alla famosa autostrada Brescia-Bergamo-Milano. Il contratto è congegnato in modo che, se il gestore/costruttore è in perdita, il buco lo deve riempire lo Stato, ovvero il contribuente. Cosa che puntualmente è avvenuta. Vogliamo passare ai porti? Il terminal di Vado Ligure non ha nemmeno trovato banche disposte a finanziarlo completamente, sia pure con garanzie pubbliche, lo Stato ha dovuto mettere sul piatto centinaia di milioni a fondo perduto. Dunque le imprese italiane, finanziarie o industriali che siano, non vogliono assumersi rischi d’investire in infrastrutture. E si lamentano se ci dovessero investire i cinesi?
Se c’è un pericolo per i porti italiani e per la sicurezza dell’Italia questo non arriva dalla Cina ma dai progetti di riforma delle Autorità Portuali, in particolare dall’idea di trasformarle in società per azioni. Se il governo dovesse varare una riforma del genere allora sì che i nostri porti nella loro essenza e totalità d’infrastrutture logistiche (non solo come singoli terminal) potrebbero diventare contendibili e finire in mano a poteri finanziari o politici che nulla hanno a che fare con l’interesse nazionale. Quindi chi strilla al “pericolo giallo” e contestualmente caldeggia la trasformazione delle Autorità Portuali in Spa è in totale malafede. E come tale è un pericolo per la Nazione.
Sergio Bologna
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