IL PORTO DI TRIESTE NON E' IN
VENDITA, NON ESISTONO PERICOLI REALI PROVENIENTI DA INVESTIMENTI ESTERI.
REGOLE E LEGGI CI TUTELANO
REGOLE E LEGGI CI TUTELANO
Nelle ultime settimane si è fatto un gran parlare di Trieste e del suo Porto su giornali e tv. Noi imprenditori dello scalo giuliano e del sistema logistico regionale, abbiamo seguito con particolare interesse i vari contributi di giornalisti, politici ed opinionisti di ogni sorta, volti a disquisire di Via della seta, geopolitica e traffici internazionali. C’è chi ha elucubrato di pericoli per le industrie italiane, altri paventavano lo spoglio dell’Italia dalle sue infrastrutture strategiche come i porti.
Il tutto è stato poi messo nello stesso calderone e condito con altri temi riguardanti le reti di comunicazione, la fondazione di società pubblico/private tra enti pubblici e partner asiatici per opere infrastrutturali, magari in deroga alle disposizioni del Codice degli appalti. Nessuno, però, si è scomodato per chiedere quali fossero la posizione o le proposte degli imprenditori che, quotidianamente, lavorano e danno lavoro nell'ambito del sistema portuale di Trieste, oggi uno dei porti più importanti d’Italia per tonnellaggio ed il primo per traffico ferroviario, soprattutto internazionale.
Va innanzitutto sottolineato che il
Porto di Trieste, come tutti gli altri scali italiani, non è in vendita perché
ciò è materialmente e giuridicamente impossibile. Il demanio marittimo non è in
vendita. E' corretto, invece, parlare di concessioni in base alla legge 84/94,
che prevede regole, diritti e doveri. Se le condizioni stabilite all’atto della
firma della concessione non vengono rispettate, al concessionario si può
revocare la concessione.
In secondo luogo, è utile ricordare
come a Trieste – senza clamori mediatici – L'Autorità portuale abbia
ottemperato a quanto richiesto dalle leggi riguardo l‘ambito portuale, sia in
materia di lavoro portuale (Piano dell’organico) che di Piano regolatore
portuale (approvato). A ciò si aggiunga che si tratta dell’unico Porto franco
internazionale in Europa, la cui disciplina codificata è di diritto pubblico
internazionale. Confidiamo che chi governa il Paese sia consapevole di quale strumento
di politica internazionale e commerciale dispone e quali ne siano (nel
dettaglio) le regole.
Sul tema del pericolo, per
l’industria nazionale, di investimenti esteri nel Porto franco di Trieste,
sarebbe utile capire in base a quali dati concreti esso trovi fondamento, a
differenza di quanto accaduto altrove in Europa. Forse sfugge che il Porto di
Trieste serve per l’85% il Centro ed est Europa (via ferrovia), mentre il
mercato italiano pesa per il 15% circa. Pertinenti sembrano invece le
considerazioni sul fatto che l'arrivo di investitori esteri non sarà la panacea
per i porti italiani: lo condividiamo, in primo luogo perché se il nostro porto
già cresce a doppia cifra, questo è dovuto principalmente al duro lavoro delle
aziende private – spedizionieri, terminalisti portuali e retro portuali, agenti
marittimi ed operatori in genere - che promuovono lo scalo giuliano a livello
internazionale, lavoro agevolato dalle scelte operate dall’Autorità di sistema
portuale del Mare Adriatico orientale.
E' altresì privo di fondamento il
campanello d’allarme, suonato dai soliti ben informati, sul pericolo di
contraffazione dei prodotti: questo è un rischio sempre esistente,
indipendentemente dalla provenienza dei prodotti, al quale devono ovviare gli
organi statali preposti al controllo. Tali controlli sono regolarmente
effettuati presso i Punti franchi di Trieste, presidiati dall’Agenzia delle
Dogane e dalla Guardia di Finanza. Se queste considerazioni dovessero
paralizzare le attività logistiche, sarebbe la fine del commercio
internazionale, compreso quello dei prodotti italiani: questo sarebbe, in
effetti, un gravissimo pericolo per l’industria italiana votata all’export.
Una politica concreta per mantenere
il controllo della catena logistica non prevede di “chiudersi a riccio” bensì,
ad esempio, la promozione di una crescita della cultura industriale nel campo
delle condizioni di vendita internazionale dei propri prodotti. I termini di
resa Incoterms® 2010 andrebbero approfonditi e, per creare valore aggiunto, si
suggerisce di accantonare la pervicacia degli imprenditori nostrani nel vendere
franco fabbrica. La convinzione di liberarsi di ogni problema una volta che i
prodotti sono usciti dal cancello del proprio stabilimento, regala ad altri
attori (del trasporto e industriali) fino al 30% del valore commerciale dei
beni e la perdita del controllo sulle vie che tali prodotti percorrono per
raggiungere il luogo di destino. La partita che stiamo giocando è storica e si
gioca ora, con molteplici partner internazionali. Da essa dipenderà una parte
consistente del futuro economico ed occupazionale della Regione Autonoma Friuli
Venezia Giulia e di parte del nostro Paese. Perdite di tempo o, peggio ancora,
improvvisazioni, non ce le possiamo permettere.
Per discutere nel merito dei temi
sopra riportati, la nostra Associazione di categoria è e rimane a disposizione
dei decisori politici e delle altre Associazioni professionali.
Purtroppo non abbiamo un governo di competenti. A livello locale l'interesse di forza italia (camber) è solo quello di desiderare la poltrona del porto. I non risultati sono noti a tutti
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