Il mirino al momento è su Napoli, ma la rivolta rischia
di dilagare nella maggior parte degli scali italiani. I modelli del lavoro
portuale sono in crisi: i bilanci non quadrano e le soluzioni adottate in
passato non funzionano.
Quelle pensate per il futuro hanno addirittura aperto
un conflitto che potrebbe esplodere in tutte le banchine, mettendo a rischio la
pace sociale.
Ed è quello che potrebbe accadere, a breve, nel porto partenopeo.
Il presidente dell’Authority Pietro Spirito ha deciso di tirare dritto. Nel
piano operativo che ha ricevuto l’ok dal Comitato di gestione prima di Natale,
è passata la linea dura: i camalli napoletani hanno tempo sino ad aprile per
mettere a posto i conti e trovare un accordo con i terminalisti. Servirebbe
però un miracolo di San Gennaro e per questo l’Authority ha deciso di mettere
in conto la nascita dell’agenzia del lavoro portuale.
I focolai di rivolta
Negli altri scali, a cominciare da Genova, i problemi
sono ugualmente gravi. «Il rischio di conflitto sociale esiste» ammette
Torzetti. Gli oltre mille camalli dello scalo genovese lottano per gli stipendi
di dicembre, perchè in cassa c’è rimasto poco.
A Cagliari per ora una parte dei
vecchi camalli sardi è finita in un’agenzia che tenterà di salvare i posti di
lavoro, mentre il traffico precipita.
A Gioia Tauro il giudice ha ordinato al
terminal la riassunzione di alcuni portuali che erano già inseriti
nell’agenzia.
A Taranto sono più di 500 quelli “parcheggiati” in attesa che il
terminal resusciti.
A Bari rischiano in 30: colpa dell’autoproduzione che
taglia fuori i portuali pugliesi a cui basterebbero 120 mila euro per salvarsi.
E poi c’è il contratto di lavoro nazionale dei portuali che non è stato chiuso
e che potrebbe gettare ulteriore benzina sul fuoco.
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