Vi proponiamo di seguito l'articolo del quotidiano genovese e il comunicato del CALP. Dall'incastro di questi due ragionamenti, egualmente chiari e decisi, forse riusciamo a comprendere (anche noi che non siamo genovesi) il dibattito vero sotto le dichiarazioni formali e partitiche.
MORANDI E PORTO, NESSUNO AVEVA PENSATO AD UN “ PIANO B “
di Giuliano Galletta Secolo XIX
Molti commentatori hanno
osservato che il crollo di Ponte Morandi potrebbe diventare l’occasione per
ripensare il futuro di Genova.
Ma era necessario sacrificare 43 vite per
ripensare il futuro della nostra città? Non credo.
In realtà la catastrofe del 14
agosto ha evidenziato in modo tragico proprio l’assenza di tale progettualità. Ipotizziamo,
ad esempio, che la società autostrade fosse intervenuta in tempo chiudendo il ponte
per restaurarlo o ricostruirlo; i problemi a cui ci saremmo trovati di fronte sarebbero
stati esattamente gli stessi di oggi.
Nessuno ha mai pensato a un piano B, che
prevedesse un’eventualità del genere. Non dico il crollo, ma la semplice chiusura,
un’eventualità che veniva considerata probabile se non inevitabile. Tutti sapevano
benissimo che una “metropoli” come Genova, il porto più importante d’Italia, era
in balia di quel chilometro di calcestruzzo.
Dov’era la classe dirigente, dov’erano
i governi, i ministri e i parlamentari liguri, le amministrazioni locali, le
organizzazioni imprenditoriali, i sindacati ?
Per guardare al futuro bisogna
sempre analizzare con molta attenzione il passato, altrimenti con l’alibi
dell’emergenza, si rischia di perseverare negli stessi errori. Non sto parlando
qui di responsabilità penali o morali, che tutti ci auguriamo vengano chiarite
al più presto, ma di responsabilità politiche, dell’assenza di un’idea di città
che vada oltre la routine, della sudditanza a interessi particolari, quasi
sempre miopi se non irresponsabili. In questo senso la questione cruciale resta
la (dis)connessione fra porto e città.
Al netto delle inadempienze di manutenzione
e di controllo, fra le ragioni dell’usura del ponte c’è, nessuno lo mette in
dubbio, l’aumento incontrollato dei tir, carichi o scarichi, e dei container, pieni
o vuoti, un peso quasi insostenibile sulle spalle, non solo del Ponte Morandi,
ma dell’intera città, degli abitanti, dei lavoratori, trasportatori e portuali,
che troppo spesso sull’altare di quegli affari hanno per sola vita.
CONCESSIONI E BENI PUBBLICI
In questi giorni si è molto parlato di concessioni, a proposito di società autostrade,
ma nessuno, mi pare, ha segnalato che anche le banchine del porto sono un bene
pubblico dato in gestione ai privati. Sono questi privati a controllare i movimenti
delle merci e dovrebbe essere lo Stato, in questo caso l’Autorità portuale, a
garantire che il business non sovrasti l’interesse pubblico, non divori la città. Se non si scioglie questa contraddizione,
ma prima è necessario prenderne atto e non occultarla, è difficile pensare a un
qualsiasi futuro.
Il porto è una fonte di ricchezza fondamentale per Genova, come
ci viene spesso ripetuto, ma bisognerà finalmente capire e far capire a questa città,
al di là degli slogan e delle dichiarazioni di intenti, di che tipo di
ricchezza stiamo parlando e del vero rapporto costi/benefici.
Gli esperti di logistica
ci hanno, infatti, da tempo e in modo chiaro, spiegato come negli ultimi
vent’anni a Genova, con il passaggio dal porto-emporio al porto industriale, siano
aumentati produttività e profitti, ma non si sia incrementata allo stesso modo la
ricchezza per la città e l’occupazione.
Sono invece cresciuti in modo esponenziale
le “servitù”: traffico pesante, incidenti sul lavoro e stradali, inquinamento.
Nella tragedia del ponte si contano 43 vittime, la cui unica colpa e stata
quella di fidarsi di Genova; ritengo che la città abbia il dovere di domandarsi
perché e in che modo ha tradito questa fiducia. Fare finta di nulla o scaricare
su altri le proprie responsabilità sarebbe una storico errore. Senza verità e
consapevolezza collettiva i giusti appelli all’unità di azione non hanno significato.
G. Galletta
A proposito dell’intervento di Galletta sul Secolo XIX di sabato scorso sul ponte Morandi vorremmo precisare.
Per noi portuali che giorno e notte muoviamo le merci (in banchina si lavora 24h, chiudono i varchi), il crollo del ponte equivale a un tragico incidente sul lavoro. Il ponte non era solo un tratto di viabilità, aveva una funzione produttiva e non solo per il concessionario. Il ponte era parte del ciclo del porto. Stesso schema: pubblica sia l’autostrada che il porto, monopoli naturali dati in concessione a privati per ottenere la migliore gestione nell’interesse generale. Il crollo del ponte ci ha posto la domanda: vanno davvero così le cose?
Per noi il ponte, al di là
delle responsabilità da accertare, è crollato per la “fatica” come la chiamano
gli ingegneri. Schiantato dallo sforzo di mezzo secolo di trasporto che ne ha
sfinito la resistenza. La stessa fatica che ci consuma e talora ci toglie la
vita, con meno clamore del crollo di un ponte ma con la stessa lucida fatalità.
Le istituzioni e i partiti che ora fanno la parte lesa, come ha ricordato
Galletta, sapevano dell’affaticamento del ponte ma non hanno pensato a
un’alternativa e a un modello diverso di porto. Anzi, tutti a farci sognare i
milioni di nuovi container in transito, senza alcun valore aggiunto per la
città e al più a parità di occupazione e salari ma in cambio dell'aumento
esasperato della produttività. Vero è che per ovviare alla “fatica” ci sono
controlli e manutenzioni. Ma lo sappiamo, perché lo subiamo, la logica del
porto è andare avanti a tutti i costi.
Si intende, i costi
convenienti e sostenibili per i profittatori delle merci, comprimibili se si
tratta del lavoro e della sua sicurezza. Altrimenti risuona la minaccia dei terminalisti, come in questi giorni: se
costa solo un euro di più la merce scappa! Prova ne è che si discute più di
costi della merce, che passava «sopra il ponte», dei danni subiti da chi viveva
e lavorava «sotto il ponte». Gli imprenditori del porto di Genova fanno le
vittime innocenti mentre con i loro container stanno schiantando la
circolazione in città, stando in attesa e con il cappello in mano. Hanno
persino chiesto senza pudore una Zona economica speciale come fossero un porto
del Sud sottosviluppato. Alla faccia della retorica della Superba! Naturalmente
l’euro in più o ce lo mette lo Stato oppure i lavoratori! Così il crollo del
ponte per armatori, agenti, terminalisti e spedizionieri da tragico destino può
diventare una fortunata provvidenza, perché secondo il Paride della Regina
disadorna di Maggiani «alla merce non gliene frega niente, non ha comprensione
per la fatica, vuole solo continuare il suo viaggio, possibilmente più ricca di
come ci è entrata in porto».
CALP - Collettivo Autonomo
Lavoratori Portuali
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