venerdì 14 settembre 2018

A UN MESE DAL CROLLO DEL PONTE DI CORNIGLIANO --- GENOVA

Sono le settimane in cui riprendono sulle reti TV le trasmissioni di approfondimento giornalistico e politico. L'altra sera a Porta a Porta Bruno Vespa e il suo immancabile "modellino" ha discusso del ponte di Genova con il presidente della Regione Liguria Toti e con il sindaco Bucci. Oggi a Genova ci sono state manifestazioni e minuti di silenzio. Il Governo ha varato un decreto legge. Non è facile scegliere in questo mese trascorso dal 14 agosto del crollo un articolo , un punto di vista, un ragionamento che possa soddisfare e rappresentare la concreta gravita di quello che è successo. Non siamo stati in grado di scegliere, figurarsi di scriverlo da noi, un pezzo che riesca a riassumere la tragedia.




Cosa e come fare ? Ci siamo affidati ad un comunicato del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova che inizia con un riferimento ad un articolo firmato da Giuliano Galletta sul Secolo XIX. 



Vi proponiamo di seguito l'articolo del quotidiano genovese e il comunicato del CALP. Dall'incastro di questi due ragionamenti, egualmente chiari e decisi, forse riusciamo a comprendere (anche noi che non siamo genovesi) il dibattito vero sotto le dichiarazioni formali e partitiche.



MORANDI E PORTO, NESSUNO AVEVA PENSATO AD UN “ PIANO B “

di Giuliano Galletta Secolo XIX

Molti commentatori hanno osservato che il crollo di Ponte Morandi potrebbe diventare l’occasione per ripensare il futuro di Genova. 
Ma era necessario sacrificare 43 vite per ripensare il futuro della nostra città? Non credo. 

In realtà la catastrofe del 14 agosto ha evidenziato in modo tragico proprio l’assenza di tale progettualità. Ipotizziamo, ad esempio, che la società autostrade fosse intervenuta in tempo chiudendo il ponte per restaurarlo o ricostruirlo; i problemi a cui ci saremmo trovati di fronte sarebbero stati esattamente gli stessi di oggi. 

Nessuno ha mai pensato a un piano B, che prevedesse un’eventualità del genere. Non dico il crollo, ma la semplice chiusura, un’eventualità che veniva considerata probabile se non inevitabile. Tutti sapevano benissimo che una “metropoli” come Genova, il porto più importante d’Italia, era in balia di quel chilometro di calcestruzzo. 

Dov’era la classe dirigente, dov’erano i governi, i ministri e i parlamentari liguri, le amministrazioni locali, le organizzazioni imprenditoriali, i sindacati ? 

Per guardare al futuro bisogna sempre analizzare con molta attenzione il passato, altrimenti con l’alibi dell’emergenza, si rischia di perseverare negli stessi errori. Non sto parlando qui di responsabilità penali o morali, che tutti ci auguriamo vengano chiarite al più presto, ma di responsabilità politiche, dell’assenza di un’idea di città che vada oltre la routine, della sudditanza a interessi particolari, quasi sempre miopi se non irresponsabili. In questo senso la questione cruciale resta la (dis)connessione fra porto e città. 

Al netto delle inadempienze di manutenzione e di controllo, fra le ragioni dell’usura del ponte c’è, nessuno lo mette in dubbio, l’aumento incontrollato dei tir, carichi o scarichi, e dei container, pieni o vuoti, un peso quasi insostenibile sulle spalle, non solo del Ponte Morandi, ma dell’intera città, degli abitanti, dei lavoratori, trasportatori e portuali, che troppo spesso sull’altare di quegli affari hanno per sola vita.


CONCESSIONI E BENI PUBBLICI 

In questi giorni si è molto parlato di concessioni, a proposito di società autostrade, ma nessuno, mi pare, ha segnalato che anche le banchine del porto sono un bene pubblico dato in gestione ai privati. Sono questi privati a controllare i movimenti delle merci e dovrebbe essere lo Stato, in questo caso l’Autorità portuale, a garantire che il business non sovrasti l’interesse pubblico, non divori  la città. Se non si scioglie questa contraddizione, ma prima è necessario prenderne atto e non occultarla, è difficile pensare a un qualsiasi futuro. 

Il porto è una fonte di ricchezza fondamentale per Genova, come ci viene spesso ripetuto, ma bisognerà finalmente capire e far capire a questa città, al di là degli slogan e delle dichiarazioni di intenti, di che tipo di ricchezza stiamo parlando e del vero rapporto costi/benefici. 

Gli esperti di logistica ci hanno, infatti, da tempo e in modo chiaro, spiegato come negli ultimi vent’anni a Genova, con il passaggio dal porto-emporio al porto industriale, siano aumentati produttività e profitti, ma non si sia incrementata allo stesso modo la ricchezza per la città e l’occupazione. 

Sono invece cresciuti in modo esponenziale le “servitù”: traffico pesante, incidenti sul lavoro e stradali, inquinamento. 

Nella tragedia del ponte si contano 43 vittime, la cui unica colpa e stata quella di fidarsi di Genova; ritengo che la città abbia il dovere di domandarsi perché e in che modo ha tradito questa fiducia. Fare finta di nulla o scaricare su altri le proprie responsabilità sarebbe una storico errore. Senza verità e consapevolezza collettiva i giusti appelli all’unità di azione non hanno significato. 

G. Galletta



A proposito dell’intervento di Galletta sul Secolo XIX di sabato scorso sul ponte Morandi vorremmo precisare. 

Per noi portuali che giorno e notte muoviamo le merci (in banchina si lavora 24h, chiudono i varchi), il crollo del ponte equivale a un tragico incidente sul lavoro. Il ponte non era solo un tratto di viabilità, aveva una funzione produttiva e non solo per il concessionario. Il ponte era parte del ciclo del porto. Stesso schema: pubblica sia l’autostrada che il porto, monopoli naturali dati in concessione a privati per ottenere la migliore gestione nell’interesse generale. Il crollo del ponte ci ha posto la domanda: vanno davvero così le cose?


Per noi il ponte, al di là delle responsabilità da accertare, è crollato per la “fatica” come la chiamano gli ingegneri. Schiantato dallo sforzo di mezzo secolo di trasporto che ne ha sfinito la resistenza. La stessa fatica che ci consuma e talora ci toglie la vita, con meno clamore del crollo di un ponte ma con la stessa lucida fatalità. Le istituzioni e i partiti che ora fanno la parte lesa, come ha ricordato Galletta, sapevano dell’affaticamento del ponte ma non hanno pensato a un’alternativa e a un modello diverso di porto. Anzi, tutti a farci sognare i milioni di nuovi container in transito, senza alcun valore aggiunto per la città e al più a parità di occupazione e salari ma in cambio dell'aumento esasperato della produttività. Vero è che per ovviare alla “fatica” ci sono controlli e manutenzioni. Ma lo sappiamo, perché lo subiamo, la logica del porto è andare avanti a tutti i costi.

Si intende, i costi convenienti e sostenibili per i profittatori delle merci, comprimibili se si tratta del lavoro e della sua sicurezza. Altrimenti risuona la minaccia  dei terminalisti, come in questi giorni: se costa solo un euro di più la merce scappa! Prova ne è che si discute più di costi della merce, che passava «sopra il ponte», dei danni subiti da chi viveva e lavorava «sotto il ponte». Gli imprenditori del porto di Genova fanno le vittime innocenti mentre con i loro container stanno schiantando la circolazione in città, stando in attesa e con il cappello in mano. Hanno persino chiesto senza pudore una Zona economica speciale come fossero un porto del Sud sottosviluppato. Alla faccia della retorica della Superba! Naturalmente l’euro in più o ce lo mette lo Stato oppure i lavoratori! Così il crollo del ponte per armatori, agenti, terminalisti e spedizionieri da tragico destino può diventare una fortunata provvidenza, perché secondo il Paride della Regina disadorna di Maggiani «alla merce non gliene frega niente, non ha comprensione per la fatica, vuole solo continuare il suo viaggio, possibilmente più ricca di come ci è entrata in porto».

CALP - Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali


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