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13 AGOSTO, 2018
IN
MATERIALI
BY OFFICINA
Grandi Opere.
Un lenzuolo per coprire
le magagne italiche
di Sergio BOLOGNA*
Cosa intende concretamente Piero Fassino quando dice che
l’Italia resterà “isolata” se non si realizza la Torino-Lione? Che non
mangeremo più camembert? Che per andare a Parigi dovremo passare da Londra?
Oppure che ci mancheranno luce, acqua e gas?
Non sto scherzando, vorrei che
Fassino mi facesse un esempio concreto d’isolamento dell’Italia (o, se
preferisce, dell’economia italiana) se il tunnel di base del Fréjus non venisse
realizzato.
Non è un politico qualunque Piero Fassino, è stato ministro, sindaco
di una grande città, non può buttare parole al vento. Anche se il termine
“isolamento” lo usasse come metafora o come iperbole, resta il fatto che è
un’affermazione, in quel contesto, che fa dubitare della sanità mentale o
dell’onestà intellettuale di chi la pronuncia.
Una “Grande Opera” ha senso solo quando “cambia la vita”,
quando modifica in maniera sostanziale il sistema degli spostamenti con effetti
sociali, economici, urbanistici, territoriali di vasta portata.
L’allargamento
del Canale di Suez, per esempio, è stato definito una “Grande Opera” ma i suoi
effetti sul sistema degli scambi sono stati pari a zero. L’unica ragione per
realizzarlo è stata quella di aumentare gli introiti dello stato egiziano ma
anche questo obbiettivo è fallito: certe compagnie di navigazione preferivano
circumnavigare l’Africa piuttosto che pagare dei pedaggi più cari e lo stato
egiziano ha dovuto abbassare le tariffe e in certi casi dimezzarle per non
avere un crollo degli attraversamenti.
In compenso l’allargamento del Canale ha
innescato un riscaldamento delle acque del Mediterraneo dalle conseguenza
imprevedibili su uno degli ecosistemi più splendidi del pianeta. Bel risultato
vero?
Vent’anni di (non) politica dei trasporti in Italia
Ho fatto parte del gruppo di esperti che ha elaborato il
Piano generale dei Trasporti e della Logistica di questo paese, tra l’altro
proprio nel periodo 1998-2001, dei governi Prodi, d’Alema e Amato, quando della
compagine ministeriale faceva parte anche Piero Fassino.
Avevo la responsabilità
delle politiche per le merci e la logistica. Ricordo che non eravamo affatto
convinti della necessità di costruire la Torino-Lione e diplomaticamente la
definimmo un’opera “non prioritaria”.
Quel Piano fu approvato dal CIPE e dal
Parlamento con voto bipartisan. Ma vennero le elezioni, il Cavaliere, appena
sceso in campo, vinse ed il suo Ministro delle Infrastrutture Lunardi prese il
nostro Piano, lo buttò nel cestino e fece passare la famosa Legge Obbiettivo,
che di Grandi Opere ne prevedeva parecchie ma non riuscì a realizzarne nessuna.
Tornato Prodi al governo, il suo ministro Bianchi tentò un “Piano della
mobilità” senza storia ed esito non dissimile ebbe il Piano della logistica del
sottosegretario Giachino nell’ultimo governo Berlusconi. Fui chiamato ancora a
dare una mano e fu il secondo lavoro inutile. Lì a buttare tutto nel cestino fu
l’esimio Passera, Ministro del governo Monti. Più impegnative le mosse del
Ministro Delrio con il governo Renzi, che riuscì ad avviare alcune riforme
importanti e soprattutto richiamò in servizio alcuni dei miei colleghi del
Piano del 2001 con la costituzione di quella “Unità di missione” che aveva, tra
gli altri compiti, quello di verificare se tutte le scelte sulle Grandi Opere
da fare erano giuste o andavano riviste. Prima che arrivassero i 5 stelle al
governo.
In tutto questo periodo i partiti del centro-sinistra, ma soprattutto
il Partito Democratico ed al suo interno con particolare accanimento la sua
componente “torinese” (Fassino, Chiamparino ecc.), spalleggiati dal quotidiano
di Carlo De Benedetti, continuarono ad alimentare l’entusiasmo per la
Torino-Lione, diventandone dei fanatici sostenitori, in particolare per il
ruolo che il traforo del Fréjus avrebbe avuto nel trasporto ferroviario delle
merci.
Trasportare merci su ferrovia: qualche regola da mandare a
mente
Proprio al trasporto delle merci su treno, al trasporto
“intermodale” o “combinato”, mi dedicai negli anni successivi al 2001, come
consulente dell’AD di Trenitalia, studiando – per conto del committente – i
problemi della cosiddetta “Autostrada Viaggiante” sulla tratta Torino-Orbassano
– Aiton, visitando i principali centri intermodali europei (Germania, Francia,
Spagna, Svizzera, Olanda, Belgio), occupandomi di porti e di terminal portuali,
prestai la mia assistenza tecnica per un breve periodo anche all’AD di
Intercontainer e alla Cemat. Insomma, non mi considero un esperto, però un
pochettino quel mercato lo conosco e mi sento di dire la mia. Orbene,
all’interno del mondo FS in quel periodo, e questo vale anche per RFI, non
ricordo particolari entusiasmi per la Torino-Lione, anzi, molte perplessità.
Trenitalia stava facendo allora delle scelte strategiche importanti (e
azzeccate, una volta tanto), acquistava i primi treni ad Alta Velocità, nel
campo delle merci acquistava la società tedesca TX Logistik, che oggi in
Germania è il secondo operatore merci ferroviario dopo DB Cargo. Se si guardano
le statistiche di quel periodo, quando responsabile del settore merci era
Giancarlo Laguzzi, oggi Presidente di Fercargo, si può constatare che
Trenitalia era riuscita a realizzare una ripresa del traffico nazionale. A
nessuno veniva in mente di dire che i problemi del traffico merci erano
problemi d’infrastruttura.
Erano – e lo sono ancora! – problemi dovuti al fatto
che le imprese italiane hanno sempre preferito il trasporto su strada, perché
più flessibile, perché più “permissivo”, perché più semplice da gestire
soprattutto per imprese di medio-piccola dimensione, con volumi ridotti, che
necessitano di un’intermediazione per accorparli, perché il trasporto su rotaia
richiede un’organizzazione specifica ed un know how specifico (con il camion
basta una telefonata), perché si paga vuoto per pieno, perché ci vogliono dei
carri specializzati, perché ha delle regolamentazioni rigide e talvolta
farraginose ecc. ecc.. Non è un caso che in Italia, a differenza della Germania
o del Belgio, sono poche le aziende che acquistano direttamente dei treni merci
ma sono i trasportatori, quelli con grandi flotte di camion, a mettere sul
treno i semirimorchi. Oppure, nel settore marittimo, nel settore dei container,
gli armatori, ma qui subentra un altro problema e cioè la posizione dominante
di operatori in grado di dettare i prezzi all’operatore ferroviario. Nessuno di
questi problemi è di carattere infrastrutturale, la favola che il trasporto
merci in Italia soffre perché i terminal sono inadeguati e non si possono fare
treni lunghi 750 metri, è buona appunto per gli incompetenti. E’ vero invece
che ci sono troppi terminal intermodali e troppi Interporti, che non servono a
niente. Il problema è come riempire un treno, lungo o corto che sia, come
trovare il carico di ritorno, è un problema di domanda, è un problema di
redditività del servizio. Per far partire e stabilizzare una relazione
regolare, cioè un treno che va da A a B a scadenze fisse settimanali – questo e
non altro significa oggi, 2018, fare traffico merci ferroviario – certe volte
ci vogliono anche due anni. Questi sono i tempi di start up. Ne sappiamo
qualcosa noi a Trieste, che siamo riusciti a fare l’unica storia di successo
della portualità italiana proprio grazie alla ferrovia, malgrado
un’infrastruttura ferroviaria portuale dove gli scambi si azionano ancora a
mano.
Le grandi infrastrutture di per sé non garantiscono minimamente il
successo in termini di trasporto. Questo dipende da fattori che al 90% nulla
hanno a che fare con l’infrastruttura. Dipende da condizioni specifiche di
mercato e queste in Italia non sono cambiate in maniera sostanziale oggi
rispetto a quindici anni fa, la sola cosa che è cambiata sta sul lato dell’offerta,
ci sono più imprese ferroviarie di trazione, imprese private. Ma dal lato della
domanda, anzi, siamo messi peggio con la concorrenza selvaggia che domina nel
settore del trasporto su strada. Dipende anche dalla regolazione del mercato,
ma qui l’Unione Europea ha combinato solo disastri, con una liberalizzazione
scriteriata del trasporto su strada, codificata, per di più, in una normativa
di surreale farraginosità (si pensi alle norme riguardanti i cosiddetti
“distacchi degli autisti”) e di zero efficacia nel prevenire o regolare
fenomeni di concorrenza sleale. Dobbiamo buttare miliardi nel costruire linee
ferroviarie, nel bucare le montagne, mentre a tanti autisti – soprattutto
stranieri – basta pagare il costo della benzina perché ti facciano una consegna
a 300 chilometri di distanza?
Come ragiona un esperto di trasporto merci con la testa sul
collo
Dura da cinquant’anni il grande “tormentone” delle politiche
del trasporto merci: com’è possibile trasferire il traffico merci dalla strada
alla ferrovia. In questi anni ho imparato che è possibile – se si tengono a
mente certi parametri della specifica struttura di costo di questo mercato –
portare sulla rotaia della roba, anche tanta. Quasi sempre con incentivi o
sussidi. Ma ho imparato anche che la cosiddetta “inversione modale”, cioè la
diminuzione proporzionale del trasporto su strada rispetto ad un aumento
proporzionale di quello su ferro, resterà un’utopia a livello di sistema, potrà
al massimo verificarsi su nicchie di mercato, in qualche situazione locale, ma
non a livello di sistema. Inutile sperarci, noi dobbiamo invece cambiare il
paradigma mentale e convincerci che l’unica strada per sopravvivere è quella di
(tentare almeno) di diminuire l’intensità di trasporto del sistema di produzione
e circolazione delle merci. Così come può esistere un sistema più o meno labour
intensive così può esistere un sistema più o meno transport intensive. Lo
slogan del “chilometro 0” almeno fa capire cosa s’intende per “diminuzione
dell’intensità di trasporto”.
Questo modo di pensare sembra che sia scomparso
dall’orizzonte dei pianificatori, fa capolino in qualche impressa di logistica
avanzata o in qualche impresa manifatturiera con un minimo di visione di lungo
periodo. Ma il mercato sta andando drammaticamente nella direzione opposta con
l’e-commerce o con certe piattaforme digitali. L’e-commerce sta mandando
all’aria tutti gli sforzi in direzione della city logistics ed i tentativi di
convincere il pubblico a usare mezzi di trasporto più sostenibili. L’altra cosa
che ho imparato in questi anni è che non ha nessun senso costruire
infrastrutture di eccellenza sulle grandi direttrici quando ai due capi del
percorso, alla partenza e all’arrivo, ci sono delle forti strozzature.
E’ il
cosiddetto problema dell’”ultimo miglio”, che vale soprattutto per le merci.
Certe Grandi Opere possono in questo senso creare più problemi di quanti si
pensa possano risolvere. Per tornare al trasporto ferroviario delle merci, sono
convinto che, per reggere, dovrà essere pesantemente sussidiato e la famosa
“inversione modale” resterà un miraggio, usato solo per giustificare
investimenti ferroviari faraonici. La Svizzera insegna. Ed è proprio qui che
l’inutilità della Torino-Lione risulta più evidente e più sfacciata la malafede
dei suoi sostenitori.
I francesi sono tutti a favore della Torino-Lione?
Un documento stilato da un gruppo di esperti di trasporto
francesi e datato 6 giugno 2018 ricorda che le previsioni di traffico sia
stradale che ferroviario al 2017 in assenza del tunnel di base del Fréjus sono
state clamorosamente smentite. Si era previsto un traffico merci su rotaia di
16,2 milioni di tonnellate, quello effettivo è stato di 3,5 milioni, erano
stati previsti 75 treni merci al giorno quelli effettivi sono stati 20. Ma non meno
sballate furono le previsioni del traffico stradale. Era stato previsto per il
2015 sulle due autostrade, della Maurienne e del Monte Bianco, un traffico di 2
milioni di camion, quello effettivo è stato di 1,3 milioni.
Ho incrociato
alcuni degli estensori di questo documento, di cui il nostro Ministero è al
corrente – dunque il sottosegretario Rixi non può far finta d’ignorarlo – nella
mia attività ultradecennale di membro italiano di un gruppo di ricerca, tuttora
attivo, con sede a Parigi, finanziato dal Ministero dei trasporti francese ed
ho potuto constatare di persona lo scarso entusiasmo per quest’opera da parte
di colleghi d’oltralpe, la cui expertise viene riconosciuta di continuo a
livello internazionale.
Quando la Corte dei Conti francese espresse dei forti
dubbi sulle ricadute economiche della Torino-Lione, mi recai a Parigi assieme
al segretario generale del CNEL ed abbiamo avuto degli incontri molto
interessanti al Senato francese, constatando una volta di più i molti punti
interrogativi che il progetto sollevava. Rimango perciò piuttosto incredulo
quando leggo su “Repubblica” che la Francia vuol fare a tutti i costi la
Torino-Lione, posso pensare che Macron, tra le tante sciocchezze che sta
accumulando il suo governo, ne voglia aggiungere anche questa ma se lo dovesse
fare non è certo per risolvere problemi di trasporto e in particolare di
trasporto merci ma semmai per questioni di diplomazia europea, convinto forse
di consolidare l’Unione mentre di fatto non farebbe che screditarla ulteriormente.
Ma ammettiamo per un momento che l’opera si faccia, con un salasso per il
contribuente italiano. Dovremo anche mettere dei soldi su ogni treno merci,
dovremo sussidiarlo, se non altro per controbilanciare tutti i soldi che la
Svizzera elargisce a chi attraversa il suo territorio su ferrovia invece che su
camion. Sono sussidi che possono coprire anche un terzo del costo del treno in
un mercato dove 10 centesimi di euro possono fare la differenza e che sono tali
da indurre qualcuno a scegliere il percorso svizzero anche per andare verso
certe destinazioni francesi.
E’ ben vero che il contribuente svizzero, visti i
risultati, non sarà disposto a continuare a sussidiare in tal modo la ferrovia
ma a quel punto reggerà ancora il mercato?
Pertanto è bene che si sappia: la
migliore delle infrastrutture, la più avanzata delle tecnologie di controllo
della circolazione, l’abbondanza delle tracce, non sono di per sé garanzia
assoluta che l’opera abbia efficacia sul piano della ripartizione modale.
Ancora una volta: sono soldi che rischiano di essere buttati via inutilmente da
un paese dove mancano risorse per la scuola, gli asili nido, gli ospedali, la
conservazione del patrimonio artistico, la ricerca scientifica, la manutenzione
delle strade e dei parchi, il trasporto pubblico locale ecc. ecc..
Aperitivo a Milano, cena a Venezia
Una Grande Opera ha senso dunque solo se “cambia la vita”,
cioè se modifica in maniera sostanziale certe relazioni di spostamento. L’Alta
Velocità sulle tratte Milano-Napoli e Torino-Milano questo effetto lo ha avuto
e lo sta dimostrando. Ma l’Alta Velocità Milano-Venezia che senso ha? Intendo
una nuova linea ad alta velocità parallela a quella esistente, non intendo un
adeguamento dell’attuale. Da Milano a Venezia in un’ora può “cambiate la vita”
per qualche spedizione turistica, per far vedere la Madonnina a un po’ di
crocieristi prima d’imbarcarli, certo si può fare, a condizione di attraversare
il Veneto senza fermate, saltando Brescia, Verona, Vicenza e Padova. Un bel
vantaggio. Eppure tutta la classe politica e imprenditoriale veneta, e in parte
sindacale, si agita per avere l’AV in quanto tale, con linee nuove o vecchie
non importa, dimostrando quanto provinciale sia la mentalità di questa classe
dirigente di piccoli parvenus, che certe volte pretendono di avere un aeroporto
dietro casa perché pensano in tal modo di esser dentro la globalizzazione. Una
classe dirigente, una borghesia, ben rappresentata nei drammi di Veneto Banca o
della Banca Popolare di Vicenza. Un carrettiere del primo Novecento aveva
un’idea delle infrastrutture di trasporto più avanzata della loro.
Con il Terzo Valico conquisto l’Europa
Perciò rimango veramente di sasso quando leggo prese di
posizione d’imprenditori eccellenti, leader nel loro mercato, che danno per
scontata la necessità di costruire certe grandi infrastrutture. E’ il caso del
Terzo Valico di Genova.
Indubbiamente il problema è diverso dalla Torino-Lione,
l’opera viene giustificata come infrastruttura necessaria all’economia
portuale, indispensabile per collegarsi ai nuovi tunnel del Gottardo e
permettere agli operatori genovesi di allargare il loro mercato oltre la
barriera alpina. Sulla carta può essere credibile ma ancora una volta non si
può astrarre completamente da una storia e da una sequela di comportamenti di
una classe imprenditoriale e di una classe politico-amministrativa che almeno
dalla fine degli anni 70, dalla comparsa del container, non hanno fatto nulla
per assicurare un’alternativa seria al trasporto merci su strada e si trovano oggi
in una situazione – gli ultimi scioperi lo hanno dimostrato – completamente
alla mercé dei camionisti, che possono, se decidono, con un fischio,
paralizzare il porto (senza per questo, colmo dei colmi, trarre da questa
posizione di forza condizioni di vantaggio economico, cioè tariffe e condizioni
di lavoro migliori). Una tipica situazione opposta al win win, dove invece di
guadagnarci ci perdono tutti, terminalisti, compagnie marittime,
autotrasportatori, normali cittadini, residenti. Genova è passata dal fordismo
al postfordismo, dall’industria pesante alla deindustrializzazione, è entrata
nell’èra digitale, ha conosciuto il gigantismo navale ma nulla è cambiato. Il
modello che si è voluto costruire per il porto è quello di un sistema di
servizi che, per riluttanza a investire, in particolare in risorse umane e
tecnologie, ha scelto la comoda strada di limitare il proprio raggio d’azione
al mercato del Nord Italia. Le infrastrutture non c’entrano niente.
Mentre
dagli anni 80 in poi dietro ai porti di Amburgo e di Rotterdam fioriva un
tessuto fittissimo di imprese di logistica, capaci di creare valore aggiunto, a
Genova si continuava a perseguire il modello dell’intermediazione priva di
asset, sfruttando la rendita di posizione che ogni porto offre oggettivamente
per puntare su un modello imprenditoriale, su un modello di business, che
richiede il minimo sforzo, il minimo investimento. Poi ci si lamenta di avere
imprese eufemisticamente classificate come “sottocapitalizzate”. E mi volete
far credere che con il Terzo Valico o con la nuova diga cambierà qualcosa? Che
di colpo nasceranno imprese di logistica in grado di servire i mercati del
centro Europa?
Accadrà probabilmente l’inverso e cioè che i porti nordeuropei e
la rete di servizi che li supporta, in grado oggi di estendere il loro raggio
d’azione fino a Novara, si spingeranno fino a Busalla, a Sampierdarena con il
Terzo Valico. Non dimentichiamo che ci sono importanti opere di adeguamento
dell’infrastruttura ferroviaria da parte di RFI, la stazione di Campasso e
altre, ma nemmeno quelle riescono a tenere il passo di un’evoluzione dei
traffici marittimi che è travolgente e si somma con altri fenomeni che
producono congestione sulle strade e sulle autostrade, come l’e-commerce.
Queste opere non riescono – e non ci riuscirà il Terzo Valico, secondo me – a
modificare un modello di sviluppo, un modello di business, perseguito con
ostinazione per decenni. E’ mancata per tempo una visione di sistema, qualcosa
per cui l’interesse privato deve trovare una sua collocazione dentro un
interesse collettivo. Si sono sprecate occasioni irripetibili e si mortificano
in ultima analisi i non pochi esempi di eccellenza a livello mondiale che
Genova ha saputo creare e continua a creare.
Per nascondere questa storia
d’imprenditoria dalle corte vedute si è inventata la favola che i porti del
Nord “rubano” traffico a Genova, la leggenda dei due milioni di TEU che Genova
potrebbe “riprendersi” con il Terzo Valico. Un’idiozia irredentista che
dimentica tra l’altro come una quantità di merce destinata all’Italia che passa
per i porti del Nord è merce che noi importiamo dall’Irlanda, dalla Gran
Bretagna, dalla Norvegia, dalla Svezia, dalla Finlandia, la quale segue la via
più rapida e conveniente, quella di venir portata su un porto del continente –
Rostock, Zeebrugge, Anversa – e lì trasbordata su treno; raggiunge l’Italia in
36 ore, anche meno. Cosa si dovrebbe fare, secondo certi politici e opinionisti
genovesi, imbarcarla a Liverpool, a Goeteborg, e metterci una settimana/dieci giorni
per sbarcarla a Genova?
La vicenda della Carige mi sembra proprio lo specchio
di una classe dirigente e imprenditoriale, mi piacerebbe sapere chi sono quelli
che hanno avuto i crediti e non li hanno restituiti. Questa purtroppo è la
“vera” Italia, quella che nasconde le sue magagne e le sue scelte miopi con il
lenzuolo (o con il sudario) delle Grandi Opere.
Peggio di tutti il sindacato
Ma se certe prese di posizione mi lasciano di sasso, trovo
semplicemente sconcertante, se non indecente, l’entusiasmo che le Grandi Opere
suscitano in certi dirigenti sindacali. Un entusiasmo fideistico, privo di
qualunque senso critico, come se il radioso futuro promessoci dalla
Torino-Lione o dall’AV veneta potesse farci dimenticare la terribile situazione
di vastissimi strati del mondo del lavoro, il cui futuro è segnato, tracciato,
da un presente che parla per sé.
E’ stagione questa in cui ritorna il tema del
caporalato, ne ha parlato di recente in TV anche un ministro in carica, ma si
continua a trattare questo problema come un fenomeno collaterale in un’economia
sostanzialmente ”regolare”. Tutti sappiamo che cosa succede nella raccolta
della frutta e della verdura, non solo nel Sud.
Le inchieste del quotidiano
cattolico “L’avvenire” ci hanno fatto intravvedere solo degli spiragli di una
situazione che si allarga a macchia d’olio. Lavoratori extracomunitari e
italiani pagati 3 o 5 euro all’ora, alloggiati in condizioni primitive,
ricattati, che ormai stanno fissando i nuovi standard del costo del lavoro in
agricoltura. Mi chiedo: com’è possibile tornare indietro?
E’ appurato che i
controlli e le sanzioni non servono a niente, quindi è ovvio che il fenomeno è
destinato a dilatarsi ed a diventare “la nuova normalità”. Ciò significa, se
vogliamo parlare al futuro, che mettiamo in conto che l’agricoltura italiana è
destinata a reggersi su forme di schiavismo “strutturale”. Ma l’agricoltura non
è l’unico settore dove questo accade, in misura ridotta lo incontriamo anche in
settori dove l’Italia pretende di essere leader mondiale, come la
cantieristica. Il sindacato ha fatto molte denunce.
A che sono servite? A
mettere in pace qualche coscienza. Se poi dalle situazioni estreme passiamo a
quelle che sono invece le situazioni maggioritarie, per esempio il primo
impiego dei giovani oppure, all’estremo opposto, le opportunità che il mercato
italiano offre ad alte professionalità e competenze, credo si possa concludere
che a) questo, della qualità del lavoro, è il più grave, il più drammatico dei
problemi del Paese, b) che le infrastrutture non c’entrano nulla.
I giovani
fisici, biologi, ingegneri, medici, ricercatori d’alto livello che fuggono dal
Paese lo fanno perché mancano le infrastrutture? E realizzando le cosiddette
“Grandi Opere” pensiamo di farli tornare indietro, pensiamo di eliminare il
caporalato dalla raccolta dei pomodori? Con quale faccia un sindacalista può
sostenere che le “Grandi Opere” possono contribuire a risolvere il problema
occupazionale, sapendo oltretutto che questo problema oggi è di tipo
qualitativo non quantitativo? Il sistema dei grandi appalti pubblici si è
rivelato invece un sistema fallimentare, avrebbe potuto almeno creare il
terreno adatto alla costituzione e alla crescita di grandi imprese di
costruzioni, invece ne abbiamo viste fallire una dietro l’altra, sia
dell’universo confindustriale che di quello cooperativo. Viviamo nella
knowledge economy, viviamo nell’epoca della digitalizzazione, ma al posto della
materia grigia abbiamo messo il cemento.
Grandi progetti: dove tutto è ammesso, anche l’idiozia
Può succedere allora che un organismo di ricerca privato che
ha come missione “di rendere accessibile e fruibile, ad una platea sempre più
vasta, il patrimonio di conoscenza e di esperienza accumulato in trent’anni”
abbia la buona idea di presentare davanti a un folto pubblico di
amministratori, operatori e cittadini, in quel di Palermo, uno studio nel quale
propone la costruzione di un terminal portuale di transhipment dalla capacità
di 16 milioni di TEU, in grado di creare migliaia di posti di lavoro nel
contesto di un progetto più ampio di risistemazione del fronte mare che
dovrebbe produrre occupazione per circa mezzo milione di persone.
Per chi ha un
minimo di conoscenza di economia portuale è come se un primario d’ospedale si
presentasse ad un congresso dicendo che il cancro al seno si può curare con
successo con la tachipirina. Il traffico totale dei porti italiani governati da
un’Authority (sono circa una ventina) da più di dieci anni non supera i 10
milioni di TEU. Si tratterebbe oltretutto, nell’idea dei proponenti, di un
porto di transhipment, cioè di una tipologia che non produce occupazione né
ricadute sul territorio in quanto la merce non esce dalla cinta portuale, viene
sbarcata da una nave, messa a piazzale e reimbarcata su un’altra nave. Operazioni
che vengono fatte a Gioia Tauro, a poca distanza, ma con sempre maggiori
difficoltà perché le compagnie marittime oggi o fanno dei servizi diretti,
senza transhipment, o fanno trasbordo in porti come Port Said, il Pireo, Malta,
Tanger Med per ragioni che qui è troppo lungo spiegare ma che si presume siano
note a chi pretende di avere una certa expertise in materia.
Confesso però che non ero presente a questo evento
memorabile, l’ho letto sui giornali e quindi mi rimane il dubbio trattarsi di
una fake news. Strano che non ci sia stata nessuna smentita, però. Pare inoltre
che sia il Presidente del porto di Palermo sia il sottosegretario Rixi abbiano
espresso in quella sede la loro “perplessità”. Ma se fosse vero, mi sembra
indicativo di un clima, di una cultura, di un costume presenti nel Paese e cioè
che di “Grandi Opere” se ne possono immaginare e proporre con fantasia da
Giulio Verne, sapendo che una parte del pubblico ci crederà e sarà disposta ad
applaudire la spesa. Per la “rinascita” del Mezzogiorno o per rompere l’
“isolamento” dei piemontesi.
* L’autore è Presidente dell’Agenzia Imprenditoriale
Operatori Marittimi (A.I.O.M.) di Trieste
Grazie per queste informazioni dettagliate e concrete.
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