Innanzitutto ricordando che sono
tre le esigenze del sistema Cina verso
l’estero nell’ultimo ventennio sono state
tre: l’esportazione della costruzione di
infrastrutture, di merci e di capitali, nelle dimensioni
tali da soddisfare soggetti che crescevano in un contesto di gigantismo
economico e finanziario. Naturalmente, l’elemento indispensabile per le prime
due necessità, espresse dal sistema Cina, era la movimentazione di capitali. Potremmo dire
che il modello espresso nel mondo infrastrutturale è stato “vendere merci cinesi tramite capitali o intermediari cinesi” e tra le merci qui ci stanno anche i servizi finanziari oltre che
fornitura di infrastrutture.
Mentre per le merci fisiche la logica è sempre
stata quella di tenere bassa la moneta nazionale (anche a costo di creare bolle
finanziarie). Una logica comunque di sistema che, dal dopoguerra, ha fatto ad
esempio la fortuna di paesi come la Germania (senza le bolle esportate però,
intelligentemente, altrove dalla Spagna alla Grecia agli stessi Usa). Una
logica, quella della penetrazione delle infrastrutture cinesi
con capitali di Pechino, che si è espressa in Africa come negli Stati Uniti. In questo schema c’è però una novità. E quando si parla di
costruzione di infrastrutture e di sinergie portuali non è una novità da poco.
Riguarda proprio la movimentazione di capitali, la precondizione di ogni
movimento infrastrutturale.
Negli ultimi mesi si è
infatti materializzata la restrizione, da parte del governo di Pechino dei
movimenti di capitali verso l’estero visto anche, ma
non solo, il timore che anche il timido rialzo dei tassi di interesse Usa possa
far fuggire i capitali americani in luogo, aumentare l’indebitamento del paese
(espresso in dollari) e provocare una fuga generalizzata dei capitali cinesi
verso gli Stati Uniti o l’Europa. Le misure prese dal governo cinese devono
esser ben chiare a chi si occupa di infrastrutture: in base alle nuove regole introdotte a partire dall’inizio del 2017, sono
previsti controlli più ferrei sui movimenti di capitali da parte delle banche, in particolare, gli istituti di credito di Shanghai devono importare
renminbi, la valuta cinese, in eguale misura all’ammontare delle esportazioni.
Ancora più vincolanti i limiti per le banche di Pechino, che dovranno, a quanto
si apprende da stampa specializzata, fare rientrare cento renminbi per ogni
ottanta che i clienti intendono portare all’estero, garantendo un forte
afflusso netto di capitali.
Non è quindi in caso
che il rappresentante di China Railway si è presentato non tanto con la banca
cinese dell’Export-import, il colosso bancario che solo nel 2010 ha firmato e
finanziato progetti fuori dalla Cina per oltre cento miliardi di euro, ma con
un attore finanziario che opera con fondi offshore (come da descrizione di
stampa locale). Significa che eventualmente la
sinergia, per l’operazione Darsena Europa, è tra China Railway e un attore di fund-raising viste le restrizioni
finanziarie presenti per l’investimento diretto da Pechino. Ma, anche qui, si
fa presto a dire un attore quando si tratta di fund-raising. Prima di tutto
perché vanno raccolti fondi fuori dalla Cina e trasferiti verso l’Italia con un
veicolo finanziario adatto (la vicenda Milan è un esempio di quanto siano difficili operazioni del genere e quanto possano
lievitare i costi finanziari del fund-raising).
Poi perché l’eventuale presenza
di un attore cinese nel finanziamento deve seguire una procedura politica (è la
parla giusta) riassumibile in questo schema
http://www.lexology.com/library/detail.aspx?g=8e5dfc40-ba4d-4975-bfff-68cc14414306
(redatto tra l’altro poche settimane prima del periodo delle restrizioni)
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