


Purtroppo
sarebbe stato durante un altro lungo regno, quello di Francesco Giuseppe, che
le sorti del porto franco di Trieste sarebbero state purtroppo invertite, con
l’incorporazione nel 1891 della città nel territorio doganale austro-ungarico e
con la conseguente riduzione del porto franco, che sarebbe da quel momento
stato per sempre rinchiuso all’interno delle cinta murarie del porto.
Da quel
momento, l’incalzante succedersi di eventi storici e l’avvicendarsi di varie
bandiere sul palazzo comunale di Piazza
Grande non avrebbe però modificato in maniera così drastica le sorti del
porto franco, che continuo ad esistere ed essere un’area extra doganale con
tanti varchi, dai quali si sarebbe potuto uscire con della merce solamente
pagando un dazio allo Stato che in quel momento la controllava.
Anche se
l’Allegato VIII al Trattato di pace del secondo dopoguerra prevedeva che sulle
merci importate attraverso il porto franco avrebbe dovuto essere imposto un
dazio ridotto o, precisamente “such goods customs duties or charges other than
those levied for services rendered”, si affrettava subito a precisare che
“however, in respect of goods, imported through the Free Port for consumption
within the Free Territory or exported from this Territory through the Free
Port, appropriate legislation and regulations in force in the Free Territory
shall be applied”, lasciando quindi all’autorità del Territorio Libero di
fissare dazi appropriati per le merci importate e consumante all’interno del Territorio.

Rimane un
fatto chiaro e limpido: dal 1891 in poi non è stato mai possibile esercitare
all’interno del porto franco un’attività di commercio al minuto. Detto in
parole semplici: grazie a Fraz Joseph, né gli Austriaci, né gli Italiani
regnicoli o repubblicani, né i Triestini, né gli Europei, né alcun altro hanno
mai potuto fare la spesa al Porto di Trieste senza pagare il dazio e l’imposta
sul valore aggiunto.
Di
conseguenza l’attività di vendita al minuto che si svolge all’interno del bel
palazzo di proprietà dell’Autorità Portuale che si affacciava fino allo scorso
anno da una parte sul porto franco (sospeso) e dall’altra in Italia non ha mai,
né mai potrà vendere le proprie merci in esenzione di dazio o di IVA.
Sul lato
che affacciava in porto franco avrebbe teoricamente potuto svolgere attività di
commercio all’ingrosso senza addebitare il dazio e l’IVA, ma appena i clienti
avrebbero varcato la cinta di Largo Santos, avrebbero dovuto fare una delle due
cose: o importare la merce (nel paese in cui sarebbero trovati a seconda
dell’anno in cui avrebbero fatto l’acquisto: Austria-Ungheria, Italia,
Territorio Libero di Trieste, Italia, Unione Europea), o emettere un documento
di transito (fino al confine del medesimo paese), per poi pagare dazio ed IVA
nel loro paese di destinazione.
Mi dispiace
che questo dato di fatto distrugga parte della mitologia che si è creata
attorno ad un regime, quello del porto franco, che mantiene tuttavia degli
innegabili vantaggi sotto altri numerosi aspetti.
Tuttavia,
fatta pulizia attorno a questo concetto, possiamo finalmente ragionare in
termini corretti e protesi verso il futuro.
Al di là di quale sia la nostra bandiera, il porto franco di Trieste è
un unicum giuridico che ha in sé già molti dei vantaggi previsti dalle zone
franche e dalle zone economiche speciali; ma manca di un aspetto fondamentale
che gli potrebbe permettere uno sviluppo che farebbe impallidire anche la
signora Zhang Lei: le riduzioni sulla fiscalità diretta (imposte sui redditi) e
sulla fiscalità indiretta (IVA e accise). Purtroppo la classe politica
cittadina sembra non accorgersene, proprio mentre nelle aule parlamentari si
discute delle zone economiche speciali sulla base di una proposta di legge di
una deputata genovese.
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