Quello che vi proponiamo oggi è un articolo di Repubblica sulla siderurgia italiana che fotografa la situazione nazionale.
VAI ALL'ARTICOLO DI REPUBBLICA SULLA SIDERURGIA
Dopo l'Ilva, la
seconda puntata del viaggio nell'acciaio italiano. Persa la partita su quantità
e costi con Cina e India, Arvedi e Thyssen hanno reagito. Restano invece le
incognite su Taranto e Piombino
CREMONA - Emerge all'improvviso come una cattedrale dal
grigio indistinto di nebbia, terra e sparuti alberi della campagna cremonese.
Una cattedrale nel
deserto si sarebbe detto nel gergo degli anni dell'industrializzazione italiana. Ma quelle guglie e quei capannoni giganteschi, sovrastati da colonne di fumo dello stesso colore del cielo, in realtà sono la frontiera più avanzata della siderurgia europea, la scommessa che l'ottantenne cavalier Arvedi - un uomo che "mangia pane e acciaio" come riconoscono gli stessi sindacati - ha giocato sul tavolo della grande industria. "Vede, quella è la musica della macchina..." dice Andrea Bianchi, capo dei processi tecnologici della fabbrica, indicando sullo schermo la linea delle frequenze del laminatoio.
deserto si sarebbe detto nel gergo degli anni dell'industrializzazione italiana. Ma quelle guglie e quei capannoni giganteschi, sovrastati da colonne di fumo dello stesso colore del cielo, in realtà sono la frontiera più avanzata della siderurgia europea, la scommessa che l'ottantenne cavalier Arvedi - un uomo che "mangia pane e acciaio" come riconoscono gli stessi sindacati - ha giocato sul tavolo della grande industria. "Vede, quella è la musica della macchina..." dice Andrea Bianchi, capo dei processi tecnologici della fabbrica, indicando sullo schermo la linea delle frequenze del laminatoio.
La "macchina" è al di là del vetro: 180 metri
di ingranaggi e nastri trasportatori lungo i quali l'acciaio liquido, un magma
ipnotizzante, si trasforma in argentati coils. Un processo che dura appena
cinque minuti: "Abbiamo inventato tutto qui a Cremona e i brevetti ora
sono in giro per il mondo", spiega ancora Bianchi mentre insieme ad un
operaio controlla eventuali difetti della lamina.
Quei 180 metri sono la misura
di una rivoluzione nella siderurgia, considerando che lo stesso processo
all'Ilva di Taranto, ad esempio, si sviluppa per oltre un chilometro. Certo,
sono impianti non paragonabili: perché Taranto vive di ciclo integrato e grandi
altoforni, acciaio più "puro" dunque, mentre Cremona alimenta i suoi
forni elettrici con i rottami. E poi le dimensioni produttive: qui 3,5 milioni
di tonnellate annue e 1600 addetti tra operai e impiegati, all'Ilva circa 6
milioni di tonnellate (ed erano il doppio negli anni d'oro) e oltre 11mila
dipendenti.
Però la sopravvivenza dell'acciaio italiano, quindi
dell'anima dell'industria manifatturiera del Paese, dipende ormai
dall'innovazione tecnologica più che dal gigantismo. Così come la tenuta
ambientale e la sicurezza sul lavoro. E poi la distanza tra Taranto e Cremona
tra breve potrebbe essere azzerata, qualora fosse la cordata di Arvedi ad
aggiudicarsi la ri-privatizzazione dell'Ilva. Acquisizione che peraltro
rappresenterebbe un rafforzamento dello stesso gruppo cremonese, non dotato di
una grandissima capacità finanziaria. "Non è solo questione di processi
produttivi - spiega Carlo Mapelli, docente di meccanica al Politecnico di
Milano - il futuro della siderurgia si gioca anche sull'innovazione dei
prodotti. L'acciaio magnetico, per dire, o quello ad elevata resistenza
impiegati nello sviluppo dell'auto elettrica, nell'aerospazio, nelle turbine,
negli impianti eolici, nelle strutture petrolifere. Fino agli anni Novanta
l'Italia era all'avanguardia tecnologica, dopo abbiamo ceduto questa leadership
ad altri Paesi. Il ritardo non è incolmabile, ma serve fare presto prima che
cinesi e indiani diventino competitivi anche sulla qualità oltre che su
quantità e costi".
Una rincorsa possibile se guardata da Cremona. Ma
l'acciaio italiano, con i suoi trentamila posti di lavoro complessivi, è anche
il silenzio inquietante della ex-Lucchini di Piombino, con oltre duemila operai
in attesa di conoscere il proprio destino: lo stabilimento è praticamente
fermo, gli addetti svolgono il poco lavoro in regime di solidarietà, e tutto è
nelle mani dell'imprenditore algerino Issad Rebrab, un impero
nell'agroindustria e negli elettrodomestici ma esperienza quasi nulla nella
siderurgia. Si presentò a Piombino, nel 2014, annunciando un piano industriale
da un miliardo di euro, con il rilancio dell'acciaieria e una diversificazione
nell'agroindustriale e nella logistica: il progetto, fin qui sostenuto anche dal
governo italiano, è rimasto però al palo e se Rebrab non metterà soldi sul
tavolo in breve tempo, guadagnandosi così il sostegno delle banche, per
Piombino si spalancherà una stagione drammatica. Questione di settimane. Fase
complicata anche per le aziende del bresciano, la patria del tondino e un tempo
"impero" Lucchini. Le imprese del territorio sono sane, ma c'è una
sovrapproduzione del tondo per cemento armato dovuta alla crisi dell'edilizia
nazionale, senza che la contropartita delle esportazioni (soprattutto quelle
verso i Paesi africani) garantisca in prospettiva una tenuta.
Più a sud, alla Thyssen di Terni, la "capitale"
siderurgica degli acciai speciali, sembrerebbe finalmente ritrovato un certo
equilibrio dopo gli anni delle tensioni sociali. Addirittura si ricomincia a
parlare di assunzioni, ma resta l'incognita delle strategie del gruppo tedesco
che, non è escluso, potrebbero allontanarlo dall'acciaio. "Negli anni più
difficili della crisi - avverte Rosario Rappa, della segreteria generale Fiom -
il lavoro nella siderurgia italiana ha tenuto grazie agli ammortizzatori
sociali. Da gennaio finirà l'epoca della mobilità e anche l'accesso alla cassa
integrazione sarà più complicato. Insomma, resteremo senza rete di protezione
davanti a casi come l'Ilva, che rappresenta il 50% dell'intero settore, o
Piombino ".
Un allarme che il presidente di Federacciai, Antonio
Gozzi, ridimensiona. Ma non troppo: "Ci sono segnali di tenuta e anche per
il nuovo anno prevediamo una cauta ripresa della produzione. Siamo comunque a
24 milioni di tonnellate complessive, ben lontani dagli oltre 30 del 2007,
ultimo anno prima di questa infinita recessione. Molto dipenderà dalle misure
europee antidumping contro la Cina e, naturalmente, dal destino dell'Ilva.
Se
noi produttori europei vogliamo ancora uno spazio sul mercato, dobbiamo
spostarci da un concetto di acciaio come commodity alla frontiera dei prodotti
con più know how". "Le difficoltà aziendali e occupazionali di questi
anni - spiega Mapelli - hanno ritagliato sulla siderurgia italiana un'immagine
di crisi perenne. Ma in realtà siamo ancora i secondi produttori europei dopo
la Germania e abbiamo davanti margini di crescita. Un esempio? L'industria
agroalimentare consuma 800mila tonnellate all'anno di latta stagnata, ma le
acciaierie nazionali ne forniscono soltanto 90mila tonnellate". L'ennesima
contraddizione di un Paese in perenne attesa di una vera politica industriale.
NOTA DI FAQ TRIESTE : Sono uscite due puntate del viaggio nella siderurgia italiana su La Repubblica in cui Trieste e la sua Ferriera di Servola non sono state menzionate. Ci sarà Trieste nella terza puntata ?
Nessun commento:
Posta un commento