Ne parliamo invece oggi perchè ci sono due argomenti collegati che ci interessa sottolineare e fissare per il domani. Ezio Mauro su Repubblica, di cui è stato direttore fino a pochi mesi fa, ha scritto un pezzo sullo strumento del referendum particolarmente efficace. ( potete leggerlo a questo link o in fondo al nostro post ).
articolo che senza entrare nel merito del problema o esprimere una indicazione di voto sarebbe servito ad aprire una campagna di informazione per un uso del referendum da parte dei cittadini, un uso consapevole ed informato.
Ecco dove sta il problema. Sta nel fatto che manca anche su questi grandi temi una informazione minimamente equilibrata. Vi siete accorti che i media hanno dedicato una settimana, l'ultima prima del referendum, o al massimo dieci giorni ad informare i cittadini sul referendum. Il più delle volte questo è stato fatto non tanto sulle ragioni del Sì o del No, ma piuttosto sulle ricadute politiche del risultato referendario. Da molte parti è stato insinuato il sospetto che dietro ai motivi si celassero disegni politici di correnti e di partiti ottenendo l'effetto di allontanare i cittadini dall'esercizio del voto. peccato per l'occasione perduta.
La seconda considerazione riguarda la contrapposizione tra ambiente e lavoro, tra rischi per la salute e occupazione. Era uno degli argomenti usati dai sostenitori dei due schieramenti ed è un tema che varie volte abbiamo visto applicato nel contesto della nostra città sul tema della Ferriera.
Come è possibile sentirsi dire per mesi e anni che vanno di pari passo la difesa dell'occupazione e dell'ambiente e poi commentando il risultato del referendum il presidente del Consiglio afferma trionfalmente che questa volta " hanno vinto i lavoratori ".
A questo commento degno di un incontro di boxe andrebbe riproposto l'antico concetto che senza rispetto dell'ambiente e della salute non ci potrà essere difesa dell'occupazione. Meglio morti che disoccupati è uno slogan che andrebbe dimenticato definitivamente.
ecco l'articolo citato all'inizio del post:
L'abdicazione della politica
L'astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare
la malattia senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità
da LA REPUBBLICA di EZIO MAURO 12 aprile 2016
UNA VOLTA, quando i rappresentanti eletti in un'assemblea si
trovavano davanti un problema improvviso, su cui non avevano ricevuto un
mandato preciso dai loro elettori, scattava il "referendum": i
delegati tornavano da chi li aveva votati per chiedere istruzioni specifiche,
portando appunto la questione ad referendum. Era l'epoca del mandato
imperativo, e cioè l'eletto era strettamente vincolato alla volontà specifica
di coloro che rappresentava. Oggi invece c'è nelle Camere la piena libertà di
mandato e ogni parlamentare esercita questa sua libertà e autonomia in quanto
rappresentante della Nazione. E tuttavia l'istituto del referendum è arrivato
fin qui, si potrebbe dire per vie traverse. Fu affacciato occasionalmente nel
voto popolare che approvò la Costituzione delle Repubbliche Cisalpina,
Cispadana e Ligure.
Assente nello Statuto Albertino, usato da Mussolini sotto
forma di plebiscito nel 1929 e nel 1934, sanzionò infine la nascita della
Repubblica nel 1946, poco prima di iscriversi nella Costituzione repubblicana,
come conferma solenne della forma mista scelta per il nuovo regime statuale,
con singoli istituti di democrazia diretta chiamati a convivere in un sistema
generale di democrazia rappresentativa.
Bisogna anzi ricordare che secondo il progetto originario
preparato nella II Sottocommissione dell'Assemblea Costituente il sistema
italiano aveva ben quattro tipi di referendum: due di iniziativa governativa
(in caso di conflitto tra l'esecutivo e il Parlamento, o di legge bocciata
dalle Camere) e due promossi direttamente dal corpo elettorale.
Nel voto finale
passò il solo referendum abrogativo tra le vive preoccupazioni del partito
comunista, convinto che un abuso del nuovo istituto avrebbe potuto ostacolare
l'efficienza democratica del Parlamento nella sua funzione legislativa
fondamentale. La risposta del relatore, Costantino Mortati, fu che il
referendum avrebbe consentito di superare "i limiti dei partiti"
dando la parola agli elettori, e avrebbe permesso di verificare "la
saldatura tra il popolo e la sua rappresentanza parlamentare".
E qui
Mortati rivendicò il principio di contraddizione democratica in base al quale
il referendum inquieta il potere costituito, settant'anni fa come oggi:
"Il referendum - disse - si basa proprio sul presupposto che il sentimento
popolare possa divergere da quello del Parlamento".
Tutto qui, ed è moltissimo. Il referendum non è un disturbo,
nel nobile procedere del cammino legislativo sovrano. È un'articolazione di
quel potere, un suo completamento altrettanto nobile e legittimo e una sua
integrazione attraverso la fonte popolare diretta, voluta dalla Costituzione
proprio per consentire all'elettore di non essere soltanto un
"designatore" ma di poter esercitare (oltre alla scelta dei suoi
rappresentanti) lo ius activae civitatis, cioè il diritto di intervenire con la
sua opinione su un tema controverso e dibattuto che riguarda la soddisfazione
di un interesse pubblico. È dunque perfettamente corretto quel che ha detto
ieri il presidente della Consulta Paolo Grossi, ricordando che ogni elettore è
libero di votare nel modo che ritiene giusto ma "si deve votare perché
partecipare al voto significa essere pienamente cittadini", anzi "fa
parte della carta d'identità del buon cittadino".
Il potere dunque deve imparare, settant'anni dopo, che il
"buon cittadino" è tale quando va alle urne per scegliere tra le
proposte concorrenziali dei diversi partiti e dei loro rappresentanti (se
possibile non con liste bloccate), ma anche quando usa la scheda referendaria
per controllare-correggere-abrogare una scelta delle Camere, nel presupposto
che esista un forte interesse popolare alla ri-discussione di quel tema e di
quella legge: interesse certificato dalla soglia dei 500 mila elettori o dei 5
consigli regionali necessaria per chiedere il referendum, insieme con
l'intervento di una minoranza parlamentare pari a un quinto. La democrazia che
ci siamo scelti si basa dunque sulla compresenza delle due potestà,
diversamente regolate, concorrenti e tuttavia coerenti nel disegno costituzionale
così com'è stato concepito.
Non c'è dubbio (e da qui nascono ogni volta le riserve dei
governi e dei capi-partito) che il referendum porta in sé quello che abbiamo
chiamato il principio di contraddizione democratica. Anzi i suoi critici
condannano questa potestà suprema ma saltuaria, intermittente, il carattere
occasionale e fluttuante delle maggioranze che ogni volta si formano nell'urna,
la riduzione della politica ad una logica binaria tra il sì e il no, la
semplificazione e la radicalità del contendere, la parzialità della
consultazione, la disomogeneità territoriale nella sensibilità ai problemi che
stanno alla base del quesito referendario, la mobilitazione in negativo che
deriva necessariamente dal voto per abrogare. Ma al centro di tutto sta la questione
fondamentale che si trovò davanti la Costituente e che rimane viva, vale a dire
la tensione tra gli istituti di democrazia diretta e i loro titolari (i
cittadini) e gli istituti che derivano dalla democrazia rappresentativa, cioè
le Camere, il governo, i partiti costituiti in legittima maggioranza con la
responsabilità dell'esecutivo da un lato, e di guidare il processo legislativo
dall'altro.
La risposta su questo punto non può che essere radicale,
assumendo l'obiezione per rovesciarla in nome delle ragioni in base alle quali
l'istituto referendario è entrato nell'ordinamento costituzionale: il
referendum è programmaticamente - si potrebbe dire istituzionalmente - un
elemento di disarmonia regolata e intenzionale del sistema, a controllo di se
stesso. Come disse ancora Mortati, certo il referendum altera il gioco
parlamentare semplicemente "perché il suo scopo è proprio questo",
nel presupposto democraticamente virtuoso di condurre con questa alterazione
"la volontà del Parlamento ad una maggiore aderenza con la volontà
politica del popolo". D'altra parte, almeno dodici quesiti popolari non
sono arrivati al voto proprio perché davanti alla scadenza del referendum il
Parlamento ha autonomamente deciso di intervenire preventivamente, cambiando la
legge.
Non si tratta di contrapporre popolo e Parlamento,
rappresentanti e rappresentati. Ma di conservare coscienza di una costruzione
del meccanismo democratico che prevede una funzione di controllo e di
correzione dell'intervento legislativo sottoposta a specifiche condizioni e
tuttavia costituzionalmente autorizzata, con il beneficio democratico di un
occasionale trasferimento controllato di potere tra governati e governanti e
con l'articolazione della competizione politica in forme diverse dalle elezioni
generali: per temi specifici invece che su programmi generali, con l'intervento
esplicito di gruppi di interesse e di pressione e di movimenti più che di
partiti. Potremmo parlare di un'integrazione dell'offerta politica e dei
processi decisionali, che in tempi di disaffezione non è poco.
Naturalmente va ricordato che le storie dei sistemi politici
e istituzionali non sono tutte uguali e l'istituto referendario non è
impermeabile a queste vicende tra loro profondamente diverse. Non per caso (a
parte la partecipazione diretta del popolo prevista dalla Costituzione
giacobina del 1793) la prima traccia di consultazione popolare lasciata nelle
colonie britanniche in America alla fine del diciottesimo secolo e nelle
nascenti comunità cantonali svizzere nella stessa epoca continua a produrre
risultati in quei Paesi: 13,5 referendum all'anno in tre decenni in California,
mediamente, 10 quesiti all'anno nel medesimo periodo in Svizzera. Si sa che il
referendum è più adatto a sistemi federali; si pensa che sia più consono a
meccanismi di tipo proporzionale, perché rompe il nodo consociativo delle
indecisioni politiche tra troppi partiti; si considera che l'abuso logori
l'istituto, com'è avvenuto in passato in Italia, dopo che il referendum negli
anni Settanta era stato clamorosamente l'apriscatole del sistema.
Tutto vero, tutto legittimo. Soltanto, secondo me, non si
spiega l'invito insistito del premier Renzi e ieri ancora del ministro
dell'Ambiente Galletti a non andare a votare. Il quesito è controverso, gli
schieramenti classici sono saltati, gli stessi ambientalisti operano nei due
campi, la contesa è dunque non solo legittima, ma aperta. Referendum
strumentale, come dice il ministro? Tanto più, ci sarebbe spazio per una
battaglia di merito, sul contenuto e non sul contenitore, non sull'istituto ma
sui temi in questione, dal rapporto tra energia e territorio all'ambiente, al
lavoro, alla crescita, alla sostenibilità, all'occupazione. Invitare a non
votare è un'abdicazione
della politica, come se non credesse in se stessa. Anche
perché l'astensionismo invocato oggi rischia da domani di diventare la malattia
senile di democrazie esauste, appagate dalla loro vacuità, incapaci di essere
all'altezza delle premesse su cui sono nate.
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