
E' uscito in rete con la data di giugno 2015 il nuovo lavoro del prof. Sergio Bologna sul gigantismo navale. Vi proponiamo due stralci dal documento che vi convinceranno a leggerlo e la possibilità di scaricaLo in PDF.
Trading ships not cargo. Con questa
fulminante battuta il grande economista marittimo Martin Stopford ha
sintetizzato la fase storica che sta attraversando il mondo dello shipping da
qualche anno.
Trading ships not cargo. Fino ad
alcuni anni fa il mestiere dell’armatore e della lunga catena di operatori che
formano la filiera marittimo-portuale aveva agito secondo i classici canoni
della domanda ed offerta di merce da trasportare via mare. Per secoli era stato
un mercato spot, poi è arrivata la navigazione di linea a strutturarlo lungo le
diverse trade lanes. Ciascuna rappresenta un segmento del mercato. Era il gioco
della domanda e dell’offerta a determinare i noli, sempre
sul doppio binario
dell’offerta di stiva (charter rates) e dell’offerta di carico (freight rates).
L’autorevolezza di Indici come il Baltic Dry per il general cargo o dello
Shanghai Containerised Freight per le
navi cellulari era dovuta alla ratio classica cui si erano ispirati.
Da qualche anno non è più così. La
domanda di merce non determina le scelte dell’offerta di stiva, anzi, la merce
o, meglio, il volume, il carico, sono diventati elementi secondari delle scelte
d’investimento. Di fronte ad osservatori allibiti si svolge ormai da qualche anno
la solita commedia: i volumi crescono poco, le movimentazioni portuali crescono
assai di più grazie alla forsennata attività di transhipment, incrementata dal
gigantismo navale e da una rete di servizi più capillare, i noli sono stagnanti
e in certi segmenti di mercato, come il
dry bulk, sono ai minimi storici. Ma ciononostante i cantieri continuano a
sfornare navi, sempre più grandi, sempre più sofisticate, a prezzi
tendenzialmente decrescenti, che vagano per i mari in cerca di carico, con
shipowners e noleggiatori che ne ricavano minori profitti, tanto da non
riuscire a ripagare i debiti contratti con le loro banche finanziatrici,
trascinando nel baratro le banche stesse o i fondi, oppure costringendo gli
istituti di credito a ridurre drasticamente la loro esposizione nello shipping
e a disfarsi dei loro crediti inesigibili. Ma nuovi finanziatori sono pronti a
prendere il posto di quelli tradizionali, ormai esausti. Prima il private
equity e poi nazioni, come la Cina, che erano ai margini della finanza dello
shipping ed oggi sono pronte a soppiantare quelle, come la Germania, che si
leccano le ferite, oppure la finanza islamica, già oggi esposta per un miliardo
e passa di dollari. Il carico scarseggia, i noli sono depressi, la redditività
delle compagnie si abbassa, anche la cantieristica ormai comincia ad essere in
affanno, malgrado i sussidi statali, per la concorrenza distruttrice tra
cinesi, coreani e giapponesi. Eppure ci sono sempre soldi pronti ad esser
investiti per ordinare nuove navi, o acquistarle di seconda mano, mentre altre,
di venti-quindici anni, teen ager chiamate, vengono mandate in demolizione. Trading ships, appunto, not cargo.
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In questi anni di crisi del mercato
la caduta dei noli non è stata sufficiente a salvare dal fallimento migliaia di
imprese di spedizione che si erano trasformate in imprese di logistica. Chi ne
ha beneficiato sono stati i grandi gruppi, che controllano centinaia di migliaia
di Teu, come Kühne&Nagel, DB Schenker, DHL, DSV, Panalpina, cioè gruppi con
copertura mondiale della rete oppure i grandi gruppi del retail come Ikea, Wal Mart
o della distribuzione. Se una compagnia decide di cambiare da un giorno
all’altro la rotazione dei porti di un suo servizio fondamentale, questi gruppi
con copertura capillare della rete non ne risentono, ma una media impresa di
spedizioni e logistica ne risente, eccome. Se il suo servizio per un cliente è
organizzato in modo che le consegne dalla nave siano fissate in un porto
olandese, cambia qualcosa quando la linea decide di spostarsi su un porto
britannico o cancella una serie di toccate perché impiega una nave più grande,
costringendo l’operatore logistico a recuperare la merce con sovracosti o a
servirsi di un diverso servizio marittimo che ha tempi diversi ed un diverso
routing. Le navi giganti, proprio perché rovesciano su pochissimi porti di destinazione
una quantità spropositata di merce, hanno amplificato questo problema, coinvolgendovi
migliaia di ricevitori.
Questo è il più banale degli esempi
che possiamo fare per spiegare come il gigantismo navale abbia complicato il
lavoro agli operatori logistici ed agli spedizionieri, in particolare a quelli
con dimensione locale, alle medie imprese che gestiscono in proprio la loro
filiera di approvvigionamenti e ai NVOCC che debbono gestire diversi bill of
lading nel medesimo container. Inoltre il problema si complica con la congestione
nei porti, con i ritardi, con la conflittualità sindacale e con un approccio al
servizio che è tutto meno che customer oriented proprio per la rigidità
intrinseca al gigantismo navale.
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Chi conosce il modo in cui i porti
italiani, e non solo, hanno reagito all’avvento delle navi giganti, si rende
conto facilmente del drastico cambiamento di approccio che lo studio dell’ITF
suggerisce. I porti italiani non solo hanno accettato acriticamente, come si
trattasse di un evento atmosferico, l’entrata in servizio delle mega navi ma sembrava
che non avessero aspettato altro per lanciarsi in una corsa scriteriata ad immaginare
mega porti. Sembrava che non aspettassero altro per progettare una serie di
opere faraoniche, commettendo oltretutto la sciocchezza di scambiare l’aumento
di dimensione delle navi con l’aumento della dimensione del mercato.
Malgrado il mercato italiano del
container sia fermo da almeno quindici anni ai soliti 5 milioni, 5 milioni e
mezzo di Teu, tutto il resto essendo transhipment, numerosi Presidenti di Autorità Portuali, in combutta
con società di costruzione, hanno pensato che l’esistenza stessa di mega navi
in circolazione fosse sufficiente a garantire traffico per tutti. Mentre accade
di frequente l’opposto, più aumentano le dimensioni delle navi, più diminuisce
il traffico, in particolare per i servizi diretti, a maggior ragione se la
dimensione del mercato rimane la stessa (e non si capisce in base a quali
criteri dovrebbe, dopo quindici anni di stagnazione, aumentare in Italia proprio
nel bel mezzo di una crisi). Quindi, in sintesi, l’entrata in servizio delle ultralarge
ha prodotto in Italia semplicemente una fiammata d’interesse per opere infrastrutturali,
ascrivibili al settore dell’edilizia, “a prescindere”…. Non c’è ombra di logistica
dentro i progetti che via via in questi anni hanno monopolizzato la discussione
sulla portualità, c’è solo la fame insoddisfatta dei signori del cemento, alcuni
dei quali, oltretutto, sono andati a gambe all’aria mentre altri sono finiti in
manette. E poiché la dimensione del mercato non aumenta (e come potrebbe, in un
paese che in questi anni ha perduto un quarto della sua capacità produttiva?)
ci s’inventa il mercato potenziale rappresentato dalla merce con O/D Italia che
passa per i porti del Nord. Un sillogismo tanto meschino quanto dannoso, perché
ha di fatto paralizzato la riflessione sul sistema logistico italiano, anzi,
l’ha fatta regredire a uno stadio precedente il Piano Generale dei Trasporti e
della Logistica del 2001.
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E qui sorgono alcuni interrogativi.
Prendiamo due esempi di porti potenzialmente concorrenti: Genova e La Spezia
nel Tirreno, Trieste e Venezia in Adriatico del Nord. A Genova l’unico terminal
che può ospitare navi da 14mila e oltre è il VTE, a La Spezia il LSCT. Si può
ipotizzare una fusione tra PSA e Eurogate? Ammesso che i due gruppi accettino
di fondere i loro terminal nord tirrenici, concretamente questa fusione dovrebbe
portare alla costituzione di una nuova società fifty/fifty ma i due terminal
rimarrebbero fisicamente separati, una nave va nell’uno o nell’altro, al
massimo si risparmierebbe la doppia toccata, che non sarebbe realizzata
comunque perché, dati i volumi, non è conveniente per una nave da 16mila Teu
toccare di seguito due porti così vicini. Dove sta la convenienza della
fusione? Nell’omogeneizzazione delle tariffe?
Ma già oggi non ci sono differenze
rilevanti, nemmeno nei servizi tecnico-nautici, la differenza la fa la
produttività e l’efficienza dei servizi retroportuali, ferroviari in primo luogo.
Il punto è quello sollevato da Stopford: le navi giganti offrono un servizio indifferenziato
ed è questo che rende sterile la prospettiva della fusione. Se ci fosse una
differenza di qualità del servizio, una società unitaria Genova-La Spezia
potrebbe scegliere di accogliere in un porto il servizio premium e nell’altro
il servizio standard ma quando il servizio è lo stesso come si fa, si tira a
sorte? Se le navi giganti debbono continuare a toccare l’uno e l’altro
terminal, ambedue debbono investire in adeguamento dell’infrastruttura, dove
sta la convenienza, dove sta il risparmio?
Inoltre, questo ragionamento
presuppone che sia il terminalista a decidere dove va la nave, ma poiché
sappiamo che non è così, l’ipotesi della fusione come soluzione dei problemi
sembra campata in aria. Ancora, un procedimento del genere può essere ipotizzabile
nel quadro di un accordo globale tra i due gruppi multinazionali, non con una
soluzione locale. Infine, mi fa notare Stevanato, è consuetudine che tra
terminal diversi ci si parli per coordinarsi, compatibilmente con gli interessi
reciproci che si fondano sulla concorrenza. Nel caso di Trieste e di Venezia si
dovrebbero fondere il Molo VII di Maneschi ed il Vecon di PSA, che autonomia
potrebbe avere Trieste, piuttosto che imbarcarlo a Oslo e fare 5.000 miglia
nautiche per portarlo a Genova. Secondo i soliti imbecilli, nella seconda
ipotesi Amburgo o Rostock sottraggono traffico ai porti italiani.
Tesi ribadita dall’estensore dello
studio Olaf Merk nella citata intervista a “MediTelegraph” del 13.6.15.
fagocitata da un gigante come PSA?
Oppure una fusione tra Molo VII e Koper o tra l’intero porto di Trieste e
Koper. Si dovrebbero comunque fare gli adeguamenti sia da una parte che
dall’altra, oppure uno dei due terminal container dovrebbe chiudere. Le fusioni
non sono una soluzione quando continuano ad esistere due infrastrutture fisiche
distinte. Qui a me pare siamo giunti al tipico hic Rhodus, hic salta!
Continuiamo a girarci attorno ma la verità è che la soluzione all’inarrestabile
aumento di dimensione delle navi sta solo in una decisione unilaterale di uno
stato sovrano di regolamentare l’accesso ai propri porti delle navi che superano
una certa dimensione. Solo in questo modo i paesi potranno evitare di
dissanguare i propri bilanci in una continua rincorsa di adeguamento delle
infrastrutture portuali e retroportuali. Potremo girarci attorno negli anni
prossimi ma alla fine si capirà che questa è la strada obbligata. Ma quanto
percorribile se continua la politica europea di considerare la cosiddetta
“libertà di mercato” come bene supremo?
Se la fusione tra terminal risulta
un’arma di dubbia efficacia, tanto più l’accorpamento delle Autorità portuali.
Non risolverà i problemi posti dallo studio ITF, ma non solo, renderà più
complessi certi problemi. Immaginiamo una sola Authority per Trieste e Venezia.
Trieste, in virtù dei suoi statuti internazionali, gode di alcuni regimi di transito
speciali e di alcuni regimi fiscali speciali. In base a questi regimi il
transito dei veicoli turchi non è soggetto ai contingenti bilaterali, per
esempio. Una sola Authority che gestisce due regimi differenti? Che senso ha
averne una sola? Per risparmiare qualche euro di personale?
L’accorpamento in
questo caso non avrebbe senso, Trieste non dovrebbe rientrare negli
accorpamenti della riforma, ma restare separata come titolare di diritti e
privilegi sanciti dalla normativa internazionale, senza i quali il suo traffico
scenderebbe a zero. E’ chiaro che, non appena venisse realizzato l’accorpamento,
un qualche operatore veneziano in qualche sede giudiziaria solleverà il
problema dell’omogeneizzazione delle normative dei due porti, tanto più che nel
testo del Piano dei Porti questa condizione speciale di Trieste non viene
nemmeno menzionata. C’è di più: nella nuova configurazione della governance
alcuni soggetti che precedentemente avevano diritto a partecipare al processo
decisionale di nomina dei Presidenti di AP, cioè i Comuni, le Camere di
Commercio e le Provincie, oggi sono esclusi.
Restano solo il Ministero e la Regione,
nel caso in cui siano di colore politico differente, c’è il rischio di andare
incontro a un braccio di ferro che non fa che aumentare il pericolo di
commissariamenti infiniti. Dopo l’epoca dei commissari dei porti, avremo l’era
dei supercommissari di Authority sovraportuali?-
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