
Hic sunt leones: nessuno si meraviglierebbe, forse, se oggi
l’antica locuzione romana, usata
per indicare le zone in gran parte sconosciute dell’Africa, apparisse in calce all’ultima bozza del Piano Strategico Nazionale della Portualità e della Logistica. “Qui ci sono i leoni”, o meglio, “da qui in poi troverete i leoni”: era questo il monito dei Romani a non proseguire oltre il confine conosciuto, in territori selvaggi e inesplorati, tanto quanto quelli in cui si avventurò il legislatore venti anni fa, quando, armato della legge n. 84/94, spalancò le porte alle logiche di mercato, mandando tra l’altro in pensione l’art. 110 del codice di navigazione e aprendo al principio della libera concorrenza. Oggi quella legge, che pure ha avuto tanti aspetti positivi e meriti storici, non garantisce più al sistema portuale nazionale la competitività necessaria per confrontarsi con gli altri porti internazionali.
per indicare le zone in gran parte sconosciute dell’Africa, apparisse in calce all’ultima bozza del Piano Strategico Nazionale della Portualità e della Logistica. “Qui ci sono i leoni”, o meglio, “da qui in poi troverete i leoni”: era questo il monito dei Romani a non proseguire oltre il confine conosciuto, in territori selvaggi e inesplorati, tanto quanto quelli in cui si avventurò il legislatore venti anni fa, quando, armato della legge n. 84/94, spalancò le porte alle logiche di mercato, mandando tra l’altro in pensione l’art. 110 del codice di navigazione e aprendo al principio della libera concorrenza. Oggi quella legge, che pure ha avuto tanti aspetti positivi e meriti storici, non garantisce più al sistema portuale nazionale la competitività necessaria per confrontarsi con gli altri porti internazionali.
Occorre fissare quindi nuovi paletti e spingersi oltre le
Colonne di Ercole della vecchia riforma.
È stato obbedendo a questa necessità che il Governo, il 3
luglio scorso, ha sfornato un Piano Strategico che va a prefigurare una
modifica sostanziale dell’impianto normativo così come lo conoscevamo modifica
che potrebbe addirittura assumere le dimensioni di uno stravolgimento. Tutto
dipenderà da quello che verrà scritto negli atti legislativi che verranno
successivamente emanati. Già, perché il Piano non è ancora un corpus organico
di articoli ma è comunque un documento di indirizzo politico che imposta un
nuovo modello di governance per le autorità portuali, che va a centralizzare,
in capo al MIT, i poteri di coordinamento degli investimenti infrastrutturali;
che va a promuovere, tra le altre cose, misure per la semplificazione delle
manovre ferroviarie nei porti (per un resoconto più esaustivo si rimanda all’articolo
più sotto).
I temi affrontati dal Piano sono molti e alcuni di essi,
appena toccati, appaiono assai delicati e controversi.
Valgano quattro esempi tra tutti:
1) il numero delle Autorità di
Sistema Portuale (dovrebbero essere non più di 14, ma al momento non è dato
sapere se sia stata raggiunta una quadra): qualcuno si chiede ancora oggi se le
AdSP abbiano una qualche ragion d’essere o se non rischino, piuttosto, di
diventare un filtro inutile tra le nuove direzioni portuali locali e la direzione
generale della portualità e della logistica del Ministero delle Infrastrutture e
dei Trasporti. «Non sempre – dice Nereo
Marcucci - più debolezze insieme faranno una forza (accorpare due porti con
fondali insufficienti non ne fanno uno adeguato », e il super esperto Sergio Bologna,
in un saggio pubblicato poche settimane fa, “Trading ships not cargo”, mette in
guardia contro il mito degli accorpamenti farlocchi: quelli buoni, forse, solo
a far risparmiare qualche spicciolo sul personale. Ma neanche su questo vi sono
certezze, perché? Semplice, potremmo avere almeno 14 presidenti dell’Autorità di Sistema Portuale e almeno 10 direttori
generali (addirittura 24 se fosse previsto che ogni porto, anche quelli sede di
Asdp, ne debba avere uno). Questo significa, ma stiamo solo ipotizzando, che la
eventuale AdSP di Civitavecchia potrebbe contare un presidente e almeno due
direttori generali: uno per il porto di Gaeta e uno per Fiumicino. Le spese
sarebbero maggiori.
2) Ma passiamo ad un altro tema: il lavoro portuale, di cui
nel Piano si parla appena di sfuggita, forse per non fomentare gli animi ed
esacerbare il malcontento: è chiaro che la questione rappresenta, molto più di altri,
un terreno minato, un campo di battaglia su cui si confrontano da sempre due
opposte fazioni: da una parte coloro che vorrebbero rivedere completamente il
port labour italiano, svincolandolo da logiche ritenute ormai obsolete, e
dall’altra quelli che, invece, aspirano a conservare il sistema degli articoli
17 e dei picchi di lavoro.
3) L’autonomia finanziaria è un altro argomento scottante:
il Piano la riconosce sia pure in modo limitato, attribuendo le risorse
direttamente alle Autorità di Sistema Portuale, ma con un vincolo di
destinazione al singolo porto compreso
nella rispettiva circoscrizione di una quota del 50% delle disponibilità generate
da ciascuno di essi. Su questo passaggio Assoporti avrebbe voluto qualcosa di
più concreto, come il riconoscimento di
un sistema di autodeterminazione finanziaria che consenta alle AdSP di autodeterminare,
per l’appunto, la misura della tassa portuale sulle merci imbarcate e sbarcate
nei porti; quella della tassa di ancoraggio sulle navi, dei diritti portuali e
dei canoni di concessione demaniale. L’obiettivo dell’Associazione dei Porti
Italiani è chiaro: permettere alle AdSP, sia pure in coerenza con un disegno strategico nazionale, di realizzare
investimenti nelle infrastrutture portuali senza dover aspettare l’intervento
della mano pubblica, concetto che vale ancora di più per tutti quegli
investimenti che non abbiano un ritorno economico immediato.
4) Poi c’è la questione degli interporti: è stato – non
molto tempo fa – l’attuale presidente della piattaforma logistica intermodale
felsinea, Pietro Spirito, a spiegare che il 90% della merce passa da Bologna,
Padova e Verona. La domanda, allora, sorge spontanea: che fare degli altri interporti?
Non è un caso che sull’argomento il
presidente di Confetra, Nereo Marcucci, si sia spinto a dire che solo pochi di
essi oggi riescono a svolgere il ruolo
pensato nel 1986, cioè di luoghi dove concentrare masse critiche economicamente
interessanti.
Per l’ex presidente della Port Authority labronica occorrerà
presto o tardi pensare ad un loro riutilizzo.
Quale? Non è ancora dato saperlo, così come
non è dato sapere come si concilia, in concreto, la grande attenzione che il
Piano riserva, giustamente, al trasporto ferroviario (L’obiettivo n.3 è
completamente dedicato alle misure per la semplificazione delle manovre
ferroviarie), con il fatto che ancora oggi il 70% della merce viaggia su gomma.
Eppure l’autotrasporto non è affatto preso in considerazione dal PSNPL.
C’è da scommetterci: presto o tardi la materia diventerà terreno fertile per un
ampio dibattito. Così come non mancherà
di scatenare una qualche polemica la questione dei Tavoli di Partenariato della
Risorsa Mare e la derubricazione de facto dei Comitati Portuali a organi
meramente consultivi. I Tavoli – si legge nel Piano – avranno la funzione di
avviare e mantenere un canale di collaborazione diretta con gli stakeholder del
sistema portuale e logistico, ma alla fine della partita a decidere sarà il
comitato di gestione composto dal presidente dell’Autorità di Sistema Portuale
e dai membri nominati dalla Regione o dalle Regioni Interessate. «I porti hanno
una natura complessa - afferma il neo segretario dell’Autorità Portuale di
Trieste, Mario Sommariva -, senza l’articolazione della rappresentanza si
rischiano inefficienze e conflitti», e Sergio Bologna solleva qualche dubbio
sulla natura dei Comitati di Gestione: «Nel caso in cui Ministero e Regione
siano di colore politico differente - dice –, c’è il rischio di andare incontro
a un braccio di ferro che non fa che aumentare il pericolo di commissariamenti infiniti».
Ma lasciamo per un momento le grandi savane dei Tavoli di
Partenariato e dei Comitati di Gestione per avventurarci nella foresta delle
concessioni.
Regolamentarle in modo omogeno è sempre stata una sfida (non
vinta) della legge 84/94, le cui disposizioni dell’articolo 18 sono rimaste ancora
oggi in gran parte disattese.
Il riferimento è al decreto ministeriale che, secondo
quell’articolo della legge, avrebbe dovuto regolamentare in modo omogeneo le concessioni
demaniali e che invece non è mai stato emanato. Ora il Governo vuole metterci
una pezza. Non solo: vuole aggiornare anche il regime concessorio con
riferimento alla durata (da rapportarsi all’entità degli investimenti e dei livelli
occupazionali), alla disciplina del procedimento di scelta del concessionario e
alla tempistica degli investimenti (con l’introduzione di adeguati meccanismi premiali
e sanzionatori). Va detto per inciso, e a sottolinearlo è stato il segretario
generale dell’Authority di Livorno, Massimo Provinciali (si legga il suo
intervento più sotto), che prima di parlare
della riforma bisognerebbe capire quali sono i limiti di un intervento
legislativo statale a Costituzione vigente.
Infatti, come spiegato dal numero due dello scalo labronico,
la mancata emanazione del decreto attuativo non è attribuibile all’inerzia o incapacità
del Ministero competente, bensì al fatto che subito dopo la modifica dell’articolo 18 (legge n.186 del
2000) intervenne la riforma del Titolo V della Costituzione, che collocò la
materia “porti” tra quelle a legislazione concorrente. Fu poi la Corte
Costituzionale a stabilire che in quelle materie lo Stato aveva potere solo
legislativo (peraltro di princìpi) e non regolamentare.
Quindi, per venirne a capo bisognerà mettere mano al titolo
V della Costituzione (come per altro sta facendo l’attuale Governo con la riforma del Senato).
Va poi aggiunto, ad onor del vero, che in un passato non troppo remoto ci fu
chi provò a dare una concreta applicazione all’articolo 18. Il pensiero corre
al primo testo di Riforma unificato dal Senato il 12 settembre del 2012 e
trasmesso alla Camera il 17 settembre del 2012, oggi arenatosi nelle pastoie parlamentari
e praticamente caduto nell’oblio. In quel testo venivano già introdotti i
criteri che sarebbero dovuti confluire nel previsto decreto ministeriale,
prevedendo che le Autorità Portuali stabilissero la durata della concessione in
relazione al programma di investimenti presentato dal concessionario, definendo
i requisiti che dovevano essere in possesso degli aspiranti concessionari e regolando
la sostenibilità economica della concessione (importo parametrato in ragione
della prevedibile redditività). C’è da chiedersi se non valga la pena di
riesumare, sua pure parzialmente, quel progetto di legge, che qualche misura
interessante l’aveva prevista, come quella di affidare al concessionario la
possibilità di chiedere, a fronte di investimenti ulteriori rispetto al
programma presentato, una proroga della concessione stessa, ove questa fosse
risultata in prossimità di scadenza.
Per intanto, quel che è certo è che oggi non è facile
assimilare la disciplina delle concessioni alle figure previste dalle direttive
europee, non essendo possibile inquadrare sul piano giuridico la concessione
portuale né quale concessione di lavori pubblici, né quale concessione di
servizi; poco male, ma anche su questo il Governo dovrà intervenire. Insomma, hic
abundant leones: i terreni inesplorati sono ancora molti e il percorso che il
legislatore dovrà intraprendere per tradurre il Piano Strategico Nazionale della
Logistica e della Portualità in legge si rivela incerto e accidentato. Le spedizioni
all’interno dell’Africa si infransero contro la barriere del Sahara, quelle del
Governo potrebbero andare a sbattere contro le mura di piccole e grandi
lobbies. Un esempio di come sulla materia si proceda in modo ondivago e con
passo malcerto è dato dalla recente approvazione, alla Camera, del disegno di
legge delega di riforma della pubblica amministrazione,
presentato dal Governo e approvato in prima lettura dal Senato. Il testo
contiene prevalentemente deleghe legislative da esercitare in gran parte nei dodici
mesi successivi all'approvazione della legge, volte a riorganizzare l'amministrazione
statale e la dirigenza pubblica.
All’articolo 7, comma 1, lettera E) è prevista la riorganizzazione, razionalizzazione
e semplificazione della disciplina concernente le autorità portuali di cui alla
legge 28 gennaio 1994, n. 84, con particolare riferimento al numero, all'individuazione di autorità di sistema
nonché alla governance e alla semplificazione e unificazione delle procedure
doganali e amministrative in materia di porti.
Delle due una: chi comanda? Il
Piano Strategico o il decreto di legge Madia? Vedremo chi la spunterà.
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