Ci sono degli argomenti e delle intuizioni all'interno dell'articolo immersi nella solita melassa di citazioni scontate, ma almeno il tentativo di fornire una chiave di lettura diversa va apprezzato.
Poi c'è la solita melassa :"Il meraviglioso mare urbano, la piazza d’acqua con le montagne dell’Istria che quando la bora libera il cielo pare di poter toccare, è quasi vuoto di passeggeri." Ovviamente le montagne istriane non c'entrano per niente visto che la piazza d'acqua - piazza Unità d'Italia - è rivolta ad ovest verso le Alpi Carniche, ma non dobbiamo pretendere troppo.
A Aldo Cazzullo che cita il poeta Saba " Tra loro c’era Umberto Saba: per lui Trento e Trieste erano come
diastole e sistole, un binomio che «batte più forte del mio stesso cuore " possiamo consigliare la lettura della poesia di Biagio Marin che è sicuramente più in assonanza con il titolo del suo pezzo:
Questo articolo di Aldo Cazzullo, liberato dalla appiccicosa melassa, vale la pena di leggerlo:Trieste è felice stasera
Trieste è felice stasera.
Celebra con trasporto la sua futura sventura.
Perché tutte le volte che questa nostra città si è concessa con sconfinato entusiasmo all’Italia amata, ha subito imboccato la triste strada della decadenza.
Noi eravamo il gioiello dell’Impero di Maria Teresa e il porto dell’Austria.
Eravamo la rosa profumata degli Asburgo.
Con l’Italia saremo un piccolo fondaco gestito in modo sbrigativo dai burocratici e diventeremo una società strozzata e rassegnata di facili guadagni e di indomabili nostalgie.
Oggi è cominciato il nostro tramonto.
Biagio Marin, 25 ottobre 1954
Diventò italiana e iniziò la sua crisi Trieste,
la
città che non vediamo
DI ALDO CAZZULLO
Riconosciamolo: Trieste a diventare italiana ci ha perso.
Cent’anni fa i triestini erano 234 mila, ed erano i più ricchi dell’Impero;
oggi sono 26 mila in meno, e sono i più vecchi del Paese. La città è stata
inventata dagli austriaci, e dimenticata dagli italiani.
Quando
Riccardo Illy nel 1993 fu eletto sindaco, per prima cosa andò a Roma al ministero dell’Industria
per salvare la ferriera, che era lì da quasi due secoli. Il funzionario lo
guardò con stupore e gli disse: «Ma la ferriera di Trieste non è già chiusa?».
«Ha 1.500 operai» rispose Illy. Alla fine una soluzione si trovò, anche se
l’acciaieria fu smontata e rivenduta in Sud America. Si fanno ancora il coke e
la ghisa. Ora l’impianto l’ha comprato Arvedi: l’idea è portare la ghisa a
Mantova per farne l’acciaio e riportarlo a Trieste per la laminazione;
potrebbero venirne 300 posti di lavoro.
Un secolo fa, in questi
stessi giorni, i triestini non spasimavano per la guerra. Si sentivano
profondamente italiani, affollavano il teatro Verdi costruito come una copia
della Scala, leggevano il Corriere e il Piccolo nei caffè, l’11 novembre
festeggiavano il compleanno del re Vittorio Emanuele III.
La loro era un’Italia
dello spirito: le letture di Dante, la laurea a Firenze, la curiosità per
Marinetti, che definiva Trieste «la nostra meravigliosa polveriera». Ma gli
irredentisti erano una minoranza. James Joyce, che era arrivato qui nel 1904 e
non se ne sarebbe mai andato se con la guerra gli austriaci non avessero
cacciato gli stranieri, nel poema in prosa «Giacomo Joyce» annota: «Trieste si
sta appena svegliando: sulla folla di tetti bruni testudiformi la prima fredda
luce del sole; una moltitudine di prostrati scarafaggi attende una liberazione
nazionale». Tra loro c’era Umberto Saba: per lui Trento e Trieste erano come
diastole e sistole, un binomio che «batte più forte del mio stesso cuore».
La
città è di
commovente bellezza, ma è assente dall’immaginario nazionale.
Viste due scolaresche romane in gita, stupefatte davanti all’iconostasi dorata
della chiesa greco-ortodossa di San Nicolò e alle cupole serbo-ortodosse di San
Spiridione. Si dicono tra loro che non sembra neppure di essere in Italia; e
hanno ragione.
Sono nell’unica città della Mitteleuropa costruita sul
Mediterraneo. Secondo Claudio Magris «vale anche oggi quello che diceva
Slataper quando scriveva che, quando qualcuno viene, non si sa far altro che
condurlo per le grigie strade e meravigliarsi che non capisca».
Trieste
era un borgo di settemila pescatori quando l’Impero
decise di farne un porto franco. La fortuna fu che nel 1866 l’Austria perse Venezia, e nel 1869 l’Adriatico
divenne la rotta per il canale di Suez. Al Salone degli Incanti, poetico nome
per il mercato del pesce, c’è una mostra nostalgica sugli anni della «Grande
Trieste». La città si riempì di mercanti greci, tedeschi, ebrei; funzionari e
ufficiali asburgici; banchieri e assicuratori italiani. Finché gli slavi erano
domestici e balie, non rappresentavano un problema. Quando nacque un ceto medio
sloveno, sostenuto dagli austriaci, la borghesia italiana cominciò a
preoccuparsi. Luigi Barzini visitò l’entroterra e scrisse che gli slavi si
stavano moltiplicando, ed erano pronti a «un’incruenta guerra di sterminio».
Oggi
l’Italia continua a pensare Trieste in un
angolo in alto a destra, anche adesso che, dopo il crollo del comunismo, è tornata al centro d’Europa. Il
problema è che oltre il confine tutto costa meno,
il dentista la benzina la palestra, e a Portorose ci sono pure i casinò.
La
ferrovia è una vergogna: da Venezia si viaggia a passo d’uomo su vagoni che
sanno di stalla. Dall’aeroporto alla città sono 70 euro di taxi. Il
meraviglioso mare urbano, la piazza d’acqua con le montagne dell’Istria che
quando la bora libera il cielo pare di poter toccare, è quasi vuoto di
passeggeri. Da anni stanno attrezzando la stazione marittima per accogliere le
navi da crociera che Venezia non vuole più. La Evergreen, società di Taiwan, ha
comprato il Lloyd triestino ma dirotta volentieri i container a Capodistria. Il
porto nuovo è commissariato. Il porto vecchio è spettrale: vetri rotti, muri
smozzicati, erbacce. Il Comune l’ha appena ottenuto dal demanio, dovrebbe farne
bar, alberghi, ovviamente l’acquario. Il Silos accanto alla stazione diventerà
un centro congressi. Tra un anno apre Eataly nel magazzino vini. Qualcosa
insomma si muove.
La notte del 24 maggio 1915 i caveau delle banche furono
svuotati, le casseforti caricate su carri di buoi: gli austriaci consideravano
la città perduta; spenti i lumi a gas, vuoti i caffè, sbarrate le vie per il
Carso.
I fanti triestini erano su un altro fronte: combattevano per Francesco
Giuseppe in Serbia e in Galizia, contro i russi. Ma in 881 disertarono e andarono
a combattere al fianco degli italiani contro gli austriaci, andando incontro a
morte quasi certa: se presi prigionieri venivano fucilati. Tra loro c’erano
Carlo e Giani Stuparich, che nello zaino avevano Dante, Omero, la Bibbia e
Mazzini. C’era l’ebreo Antonio Bergamas, che alla madre scrisse: «Mi riesce le
mille volte più dolce morire in faccia al mio paese natale, al mare nostro per
la Patria mia naturale, che il morire laggiù nei campi ghiacciati della
Galizia…». E c’era il «barbaro sognante» Scipio Slataper, che aveva predetto:
«Un giorno, ancora giovane, camminando sul Carso, uno slavo mi scaglierà
addosso un sasso corroso e forte e pieno di spigoli. E io cadrò giù…».
Di
stranieri Trieste è piena anche oggi.
La Sissa,
Scuola internazionale di studi superiori avanzati, dove Claudio Magris ha
tenuto un corso sui rapporti tra la cultura umanistica e quella scientifica,
attrae talenti dall’estero: si lavora a superconduttori che trasportano
elettricità per migliaia di chilometri senza perdere un watt. Il centro di
fisica teorica guarda il castello di Miramare, dove Carducci vedeva il «teschio
mozzo contro te ghignante d’Antonietta». Al Science Park attorno al sincrotrone
è nato un pool di piccole aziende da 3.800 addetti. Alla Cartubi si saldano
l’acciaio e l’alluminio, che pare sia difficilissimo. Alcatel ha uno
stabilimento con 850 dipendenti, che hanno scioperato contro l’ipotesi di
vendita; l’azienda smentisce. La Fincantieri fa lavorare ingegneri e
architetti: la Carnival ha appena commissionato cinque navi da crociera, e
nessuna deve essere uguale all’altra. La Grandi Motori, che la Fiat rilevò
quando Trieste divenne italiana, ora è finlandese. L’Its, International talent
support, organizza un concorso mondiale di design: vincono quasi sempre i
coreani.
La sera i ricercatori si mischiano ai ventimila studenti universitari,
odore di marijuana come ad Amsterdam, tutti fuori dai caffè con lo spritz in
mano.
Eppure
la città non si è
ancora tolta la patina di tristezza che le viene da una storia tormentata. «Anche
el tram de Opcina xe nato disgrazià» dice la canzone. C’era pure Italo Svevo
sul molo Audace, il 3 novembre 1918, ad accogliere lo sbarco italiano. Gillo
Dorfles il critico aveva otto anni, lo scrittore Boris Pahor cinque: nel ’21
vide il rogo del Narodni Dom, la Casa degli sloveni di Trieste. I fascisti
tolsero agli slavi la lingua e anche il cognome. Poi giunsero i nazisti: 700
ebrei furono presi; se ne salvarono venti.
Quindi i titini e i loro orrendi
massacri: quando arrivarono gli inglesi tentarono di recuperare i corpi dalla
foiba di Basovizza, ma trovarono granate inesplose e — raccontano i vecchi
triestini — la carogna di un cane nero, gettato come un’eterna maledizione su
duemila vittime colpevoli solo di essere italiane. Gli angloamericani si
fermarono nove anni. Oggi in centro si vedono gli striscioni del movimento
«Territorio Libero di Trieste»: rivendica gli accordi che prevedevano una
«città libera», oggi si direbbe un paradiso fiscale.
«Sognano ancora una Montecarlo dell’Est» sorride Riccardo Illy.
Suo nonno Ferenc era ungherese di Timisoara, la donna tedesco-irlandese, i
nonni materni esuli istriani. «La città è viva, vivace. Il sindaco Cosolini è
bravo, ma non ha più un soldo». E la presidente Serracchiani? «La vediamo
poco». A ogni angolo c’è un palazzo con la scritta «Generali»: la sede legale è
ancora qui, con 2.333 impiegati; ma il quartier generale per l’Italia è
emigrato a Mogliano, in Veneto. Cosolini, mamma slovena e papà istriano, dice
che «dobbiamo smettere di sentirci speciali, per continuare a esserlo».
Del
passato resisterà il muro del Pedocin, lo stabilimento dove uomini e donne
fanno il bagno separati come in Arabia: «Volevo abbatterlo, hanno protestato
tutti».
Oltre 300 volontari triestini morirono in guerra. Antonio
Bergamas cadde sul Carso, sua madre Maria fu la donna incaricata di scegliere
il milite ignoto. Il 13 dicembre 1915 Scipio Slataper, colpito da una
pallottola croata o bosniaca, morì sul Podgora: aveva 27 anni, era già un
grande scrittore. Scrive lo storico inglese Mark Thompson che Sidney Sonnino,
il ministro degli Esteri artefice dell’ingresso nel grande massacro, aveva
predetto che per Trieste diventare italiana sarebbe stata «una rovina». Essere
all’altezza dei sogni degli irredentisti, e al di sopra dei demiurghi della
sventura: ecco la sfida che un secolo dopo ci lancia Trieste.
Martedì 7 Aprile 2015
Aldo Cazzullo risponde alla nostra segnalazione del suo articolo
" sulle montagne avete ragione, sull'appicosa melassa no: Saba era uno che ci credeva; e oggi amare la patria non è certo di gran moda, si usa più fregarsene e fare soldi col denaro pubblico, non vi pare? inoltre le parole di Joyce sono antiretoriche al massimo, e quelle di Slataper e di Bergamas tutt'altro che retoriche visto che poi sul Carso sono morti davvero. un caro saluto, Aldo "
9 aprile 2015
Aldo Cazzullo risponde alla nostra segnalazione del suo articolo
" sulle montagne avete ragione, sull'appicosa melassa no: Saba era uno che ci credeva; e oggi amare la patria non è certo di gran moda, si usa più fregarsene e fare soldi col denaro pubblico, non vi pare? inoltre le parole di Joyce sono antiretoriche al massimo, e quelle di Slataper e di Bergamas tutt'altro che retoriche visto che poi sul Carso sono morti davvero. un caro saluto, Aldo "
9 aprile 2015
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