La posizione di Confindustria sulla riforma portuale:
un commento
A seguito del dibattito aperto dal libro
“Banche e crisi. Dal petrolio al container”
di Sergio Bologna *
Abbiamo potuto leggere in questi mesi diversi testi
sulla riforma portuale, prese di posizione di partiti, di associazioni o di
singoli esperti. Il documento di Confindustria, arrivato
per ultimo, a me è sembrato migliore di quelli messi in circolazione, più
chiaro e sintetico, meno diplomatico rispetto al solito, netto nel rifiuto
dell’ipotesi avanzata dal Ministro sull’istituzione di distretti logistici e su
qualcosa che può assomigliare a un’autorità di distretto. Il punto sul quale il
documento cade di tono, anzi, secondo me, inciampa, è quello relativo al lavoro
portuale, sia per il modo sbrigativo con cui viene trattato, quasi fosse
l’argomento meno importante di quelli presi in considerazione, sia per il
contenuto. Senza tanti giri di parole, Confindustria ritiene che le norme
riguardanti gli artt. 16 e 17 della legge 84/94 “siano ormai superate” e che si
possa anche nei porti abolire la riserva e utilizzare il lavoro di cooperative
esterne e di personale interinale.
Questo accenno al ”superamento” m’incuriosisce perché
mi piacerebbe sapere quali sono gli eventi e i contesti che hanno determinato
l’obsolescenza del modello della riserva: la tecnologia, la diversa
organizzazione del ciclo, il gigantismo navale, le normative IMO? Il testo di
Confindustria non precisa e allora mi viene da fare un passo indietro e di
chiedere prima di ogni altra cosa agli estensori di quel documento: “Esiste una
scuola di pensiero che ritiene superata non solo la riserva ma anche la
necessità di un bacino di lavoro temporaneo perché l’organizzazione industriale
del ciclo di sbarco/imbarco, la sua progressiva automazione, il preclearing,
ecc. ecc. avrebbero creato le condizioni per una programmazione esatta delle
risorse, tanto da ridurre al minimo gli imprevisti. Quindi se di lavoro
temporaneo ce n’è ancora bisogno, secondo questa scuola di pensiero esso è un
bisogno ridotto ai minimi termini e per mansioni generiche, che possono essere
espletate da persone prive di qualifica e magari anche di esperienza portuale.
Siete d’accordo anche voi con questa impostazione?” E’ importante sapere come
la pensa Confindustria su questo punto perché con il procedere del gigantismo
navale lo svolgimento delle operazioni di sbarco e imbarco, nel container e non
solo, presentano dei picchi molto più elevati ed un andamento molto più
irregolare, com’è storia di questi giorni nei terminal di Rotterdam e di
Amburgo, a seguito dell’effetto domino prodotto dalle navi che arrivano ‘out of
schedule’ non, come all’inizio dell’anno, per condizioni atmosferiche avverse
ma per il combinato disposto dello slow steaming e
del maggior tempo trascorso nei terminal a causa dei maggiori volumi imbarcati
e sbarcati in una volta sola. Non solo c’è necessità di un polmone di mano
d’opera pronta a intervenire nei picchi ma di un polmone ben consistente.
Secondo me quella scuola di pensiero cui facevo riferimento si sbaglia di
grosso e gli estensori del documento confindustriale, che conoscono il mercato,
dovrebbero esserne ben consapevoli.
Lavoro generico o lavoro specialistico
Se dunque
siamo d’accordo che una riserva di lavoro flessibile ci vuole, non siamo
affatto d’accordo, credo, nel ritenere che il lavoro portuale sia un lavoro
generico, il cui esercizio può essere affidato indifferentemente a una
cooperativa di facchini o a una cooperativa di pulizie oppure al primo
individuo che dà la propria disponibilità tuttofare ad un’agenzia di lavoro
interinale. Io penso invece che il lavoro portuale sia un lavoro specialistico
che può essere affidato solo a persone in possesso di certi requisiti. Possiamo
discutere se questo lavoro debba esser organizzato ai sensi degli artt. 16 e 17
oppure come un’agenzia oppure come un pool di mano d’opera, in tutti i casi
deve essere inquadrato in una forma istituzionale ma sopratutto deve essere
“formato” ad hoc.
Nelle more dell’approvazione del decreto cosiddetto
“salva CULMV” mi sono divertito a conoscere di persona come sono organizzati i
pool di mano d’opera in realtà come Anversa e Amburgo.[1] Mi è parso di capire che l’elemento che
differenzia l’esperienza italiana da quelle del Nord non è tanto la concezione
della “riserva” né le sue attribuzioni previste dalle norme quanto l’idea, da
noi assente, che un lavoratore portuale prima di essere inserito nel ciclo debba
aver acquisito un know how fatto di conoscenza ed esperienza, magari virtuale,
sia dell’utensile che dovrà manovrare sia delle condizioni ambientali in cui
dovrà poterlo guidare. Per far questo i porti del Nord dove operano i pool
hanno investito milioni di dollari nell’acquisto di simulatori, sui quali
vengono addestrati sia i dipendenti dei terminal che i portuali registrati nel
pool. La differenza quindi è una differenza culturale, di mentalità, tra chi
pensa che non vale la pena buttar via dei soldi per formare la gente e chi
pensa che ne valga la pena, anzi, che si debbano investire ingenti risorse in
questa missione. E’ una differenza nel considerare il valore della forza
lavoro, tra chi pensa che valga zero e chi pensa che valga dieci. Per questo, mentre
in Italia, là dove ancora esistono le Compagnie portuali, esse sono impiegate
per coprire le mansioni meno qualificate, ad Amburgo gli uomini del pool
vengono impiegati anche sulle gru di banchina e sono – parole testuali di un
capo del personale di un grande gruppo – “bravi quanti i nostri dipendenti”. E
costano tra il 20 e il 25% in meno, se si tiene conto anche dei costi della
formazione.
I sopravissuti dell’art. 17
Chissà se i nostri amici di Confindustria hanno mai
dato un’occhiata alla benemerita indagine che l’ISFORT ha condotto un paio
d’anni fa sull’organizzazione del lavoro portuale, l’avevano intitolata “il Far
West”, perché nel corso della ricerca avevano trovato tante situazioni
completamente differenti l’una dall’altra, alle quali la vigenza delle norme
della 84/94 non aveva impedito di svilupparsi, tanto da far pensare che ogni
porto abbia trovato un suo accomodamento, un suo modus vivendi. L’esistenza di
Compagnie portuali in tanti scali italiani non significa affatto un’omogeneità
nell’organizzazione del lavoro, il loro ruolo può essere completamente
differente, talune esistono solo di nome, altre si occupano di tutto meno che
del ciclo di sbarco e imbarco, alcune stanno a guardare il lavoro che dovrebbe
essere di loro competenza svolto da cooperative esterne, altre sono
proprietarie di pezzi di porto, alcune si sono suicidate, altre si sono
mangiate le pensioni dei soci, tra Genova e La Spezia, tra La Spezia e Livorno,
tra Livorno e Civitavecchia, tra Civitavecchia e Napoli, tra Ancona e Ravenna,
tra Ravenna e Venezia, tra Venezia e Trieste….ce ne fosse una, dico una che
assomigli all’altra! Se era questo che voleva dire Confindustria con il
concetto di “superamento” allora capisco e non posso che convenire con la
Confederazione padronale: i porti si sono arrangiati “all’italiana”, hanno
formalmente rispettato la 84/94 ma di fatto se ne sono infischiati bellamente,
le cose si sono aggiustate, i conflitti sono quasi scomparsi e quando la gente
sta buona tutto va bene. Anzi, a chi osservava che i porti italiani non
andavano poi tanto bene si rispondeva, allargando le braccia. “Certo, e come
potremmo essere competitivi se ci tocca far lavorare gli uomini delle
Compagnie!” Di fronte a questo spettacolo di italica furberia il mio pensiero
corre, chissà perché, a tutti quegli avvocati del lavoro capaci di discettare
per ore se il lavoro temporaneo portuale possa essere considerato alla stregua
della pura somministrazione, se e in che misura debba esser distinto
dall’appalto di servizi, se le Compagnie possano ricorrere come ‘società
utilizzatrice’ ai servizi di Manpower o di Adecco, se, se, se…tutte belle cose
e sacrosante (in particolare se consentono di emettere grasse parcelle), ma che
non arrivano al fondo della questione. E qual è il fondo? Che in Italia esiste
solo Genova come situazione portuale dove, per la consistenza numerica della
Compagnia, per la sua tradizione di orgogliosa autonomia, per le convenienze di
tanti terminalisti e per tanti altri fattori materiali e immateriali, la ”riserva”
non è stata ancora superata e quindi permangono elementi di rigidità, di fronte
ai quali certi osservatori dal cuore delicato possono dare in escandescenze.[2] A loro consolazione vorrei sommessamente
sottoporre però un paio di riflessioni. Malgrado “i camalli” l’abbiano
strozzata, come dice qualcuno, Genova è ancora il primo porto italiano, ha
superato la soglia dei 2 milioni di Teu, per quante difficoltà abbia l’Autorità
Portuale è ben lontana dai 560 milioni di buco di Valencia, per quanto agitate siano
le sue acque sindacali è ben lontana dalle situazioni che più di una volta
hanno paralizzato Marsiglia e per quanto duro sia stato il confronto con Paride
Batini era sempre rose e fiori rispetto alla Coordinadora dos trabajadores
portuarios che per anni ha fatto il bello e il cattivo tempo a Barcellona. E se
volete sapere cosa significa in concreto la parola flessibilità, significa, per
esempio, le sette chiamate giornaliere di Genova, significa, per esempio,
essere convocati con un’ora e mezza di anticipo via sms. Provate a proporlo ai
pool di Anversa e di Amburgo e voglio vedervi correre!
Tutto a
posto, dunque, tiriamo avanti così come si è fatto finora? Niente affatto, se
vogliamo trasformare gli artt. 16 e 17 in qualcosa di istituzionalmente diverso
studiamo un percorso per arrivarci. QQQqualche idea l’ho buttata lì in un
documento che forse un giorno i miei committenti vorranno rendere pubblico. Si
può fare di tutto, tranne una cosa: continuare a condurre il discorso lungo i
binari che finora abbiamo conosciuto. E’ giunta l’ora di spostare il terreno
della discussione, quello sul quale finora l’abbiamo condotta è “superato”,
anzi superatissimo.
Lavoro nei porti, lavoro nella logistica
Lo spunto mi viene dato proprio dall’idea del Ministro
Lupi di fare dei distretti logistici con poteri di governo sul territorio.
Immaginiamo un esempio: il porto di Ravenna, più l’Interporto di Bologna, più
le articolate piattaforme logistiche insediate in Romagna nell’asse
Cesena-Forlì si organizzano come un unico distretto e cominciano a programmare
una serie di investimenti per aumentare l’efficienza della supply chain,
sviluppare il trasporto intermodale, ridurre il dwell
time in porto, arrivare sugli scaffali dei grandi magazzini
prima degli altri ecc., ecc.. Chi mette i soldi per fare questi investimenti
non è chiaro, diciamo vagamente che per ora si costituiscono sinergie tra
risorse di diversa provenienza. Già, ma come si presenta l’universo del lavoro
in questo microcosmo distrettuale? Abbiamo i soci della compagnia portuale di
Ravenna, i dipendenti dei terminal con i loro bei contratti, abbiamo i
ferrovieri, i camionisti e poi tanti facchini, taluni organizzati in consorzi e
cooperative serie, che rispettano gli accordi nazionali, altri invece
organizzati, si fa per dire, da quella nuova generazione di “caporali” che
ingaggiano immigrati e li trattano come carne da macello. Fermiamoci un attimo
su quest’ultima fattispecie. Non deve essere una rarità, anzi, a fare mente
locale su quanto sta succedendo da un paio di anni a questa parte nelle
piattaforme della logistica, anche quelle che lavorano per conto di grandi
nomi, da TNT a Ikea, da Granarolo a Number One, da Bartolini a GS, sembra che
il modello di organizzazione del lavoro nella logistica di distribuzione in Italia
sia proprio quello di non investire in meccanizzazione o automazione, di non
investire in sistemi informatici sofisticati ma di appaltare il lavoro di
magazzino a questo strato di intermediari che procurano mano d’opera
ricattabile, la inquadrano in cooperative con la qualifica di socio-lavoratore,
non pagano i contributi, non pagano i minimi previsti dai contratti nazionali,
non pagano gli istituti contrattuali (ferie, malattia, tredicesima,
straordinari ecc.), finito l’appalto sciolgono la cooperativa e chi s’è visto,
s’è visto. I committenti fingono di non sapere, se ne lavano le mani. Ma
altrettanto hanno fatto per anni le amministrazioni pubbliche, gli organi dello
Stato, i partiti, anche i sindacati. Poi un bel giorno sono arrivati i Cobas,
hanno lanciato un cerino in questa polveriera che subito ha preso fuoco e da
allora si sta verificando un fenomeno che pensavamo di non rivedere più dopo
gli Anni Settanta, quello di una conflittualità strisciante.[3] Malgrado si tenti di esorcizzarli prendendo a
pretesto qualche picchetto “duro”, questi conflitti sindacali possono cambiare
il volto della logistica in Italia dando avvio, faticosamente, ad un processo
di ripensamento del modello basato solo sulla flessibilità e il basso costo
della mano d’opera – penalizzante sul piano della produttività e della qualità
– per avvicinarsi al modello che in Europa ed in particolare in Germania fa
della logistica un asse strategico della competitività del prodotto/servizio.
Forse il mio è un wishful thinking, forse tutto si
risolverà con una normalizzazione dei rapporti sindacali e morta lì, ma fosse
anche così vorrei chiedere ai signori di Confindustria: come si fa ad essere
così miopi ed inopportuni da proporre il trasferimento di quel modello nei
porti? Volete che nei porti si lavori con cooperative di facchinaggio composte
in massima parte da immigrati, controllate possibilmente dalla criminalità
organizzata? Volete l’interinale puro e l’autoproduzione ad libitum (che più di qualche incidente mortale
ha provocato nei traghetti)? Perché questo capisce uno che legge le vostre
quattro righe sul lavoro portuale temporaneo nel documento che stiamo
discutendo. Vi sfido a darne un’interpretazione diversa.
Politiche per la flessibiltà: una ricetta sicura per
il declino
Non sto facendo un processo alle intenzioni, tutti
ricordiamo benissimo come da Romano Prodi (1996) a Matteo Renzi (2014) passando
per il Cavaliere, non ci sia stato un governo che non abbia aumentato la dose
di flessibilità che un aspirante lavoratore, sia esso manuale o intellettuale,
deve ingoiare per poter conseguire il miraggio di una retribuzione (dopo aver
passato qualche mese in tirocinio gratuito). Dal “pacchetto Treu”
all’iterazione del contratto a tempo determinato di Renzi e con l’unico breve intermezzo
della signora Fornero, buona nelle intenzioni ma infelice nelle soluzioni, i
governi hanno agito sul mercato del lavoro in base ad un’unica filosofia: per
creare occupazione bisogna aumentare la flessibilità all’ingresso. E’ nata così
la fiera dei contratti, il festival del precariato, su spinta di Confindustria
e con i sindacati che dicevano suppergiù: “per noi non toccate l’art. 18, poi
di quelli che entrano nel mercato del lavoro da una certa data fate quello che
volete”. I risultati si sono visti, quattro milioni di precari, 49% di
disoccupazione giovanile, retribuzioni al minimo, fuga di cervelli, come dice
l’ultimo studio Censis “chi più studia meno lavora”, un 30% delle attività
professionali con Partita Iva al di sotto della soglia di sopravvivenza, neet
in aumento vertiginoso.[4] Come dice lo studio
Mediobanca sui conti economici delle 2035 aziende italiane, la grande impresa,
quella al di sopra dei 500 dipendenti, non assume da 15 anni, le società
quotate in Borsa nel triennio 2010-2012, quelle che in media fanno il 61% del
fatturato estero su estero, hanno distribuito in dividendi più del 30% delle
loro risorse e solo il 28% in immobilizzazioni tecniche.[5] Ci chiedono all’estero perché siamo in
declino: perché non si investe, si spolpano le poche grandi imprese che
abbiamo, le altre le vendiamo. La prosperità della Germania non è dovuta al
mercato del lavoro parallelo, che comunque è compensato da un robusto welfare,
ma dal fatto che le imprese hanno continuato a investire, anche durante la
crisi, e che i sindacati, grazie alla Mitbestimmung, non
permettono che gli azionisti se le mangino in dividendi ed i manager in
benefit. L’Italia regge perché ci sono le medie imprese che investono circa il
60% delle loro risorse in immobilizzazioni tecniche e beni intangibili, perché
c’è quel fitto pulviscolo di microimprese che si arrabatta con ogni sforzo,
escluse spesso dalla torta della Cassa Integrazione e dagli incentivi alle
assunzioni, che invece vanno generosamente a chi tratta i neoassunti come carta
straccia. E ciò che fa veramente offesa è vedere che nelle pratiche più
spregiudicate verso i nuovi assunti si distinguono soprattutto le
multinazionali straniere, con sistemi che mai avrebbero il coraggio di
applicare nei loro paesi d’origine, come se l’Italia fosse una terra di nessuno
e chi cerca lavoro da noi un cittadino di terza classe. Se lo fanno significa
che qualcuno ha detto loro che possono farlo tranquillamente. Bel modo di
attirare investimenti esteri! E così vediamo a Milano, nella city, società che
fanno firmare ai giovani laureati mese per mese le clausole contrattuali
relative alla retribuzione, vediamo l’uso selvaggio di tirocinii gratuiti e via
dicendo. Il problema del mercato del lavoro in Italia sta dal lato della
domanda non da quello dell’offerta, la politica della
flessibilizzazione a tutti i costi non aumenta l’occupazione, la degrada e
basta, come hanno dimostrato decine di ricerche, come cercano di dire
inascoltati decine di economisti (quelli che scrivono nella newsletter lavoce.info,
tanto per dire). Nulla da fare, malgrado l’evidente fallimento delle politiche
del lavoro degli ultimi vent’anni, si prosegue nella stessa direzione con
colpevole ottusa ostinazione. Non è neppure il precariato a vita l’effetto
peggiore, è la svalutazione delle competenze il
danno più grave, la mortificazione del “capitale umano”, quel misto di
apprendimento e di esperienza, di talento e di cultura, indispensabili per
vivere nella knowledge economy. E’ proprio il
lavoro intellettuale, creativo e artistico quello che paga il prezzo più alto
della politica di flessibilità a tutti i costi. Sono vent’anni che non si
riduce l’assurdo peso fiscale sul lavoro dipendente e si continua a togliere
diritti ai nuovi assunti. Se aggiungiamo la scarsa propensione all’investimento
e le delocalizzazioni, avremo la miscela perfetta per produrre declino – anche
senza dover tirare in ballo “la casta” e certe sue nefandezze. De te cara Confindustria, fabula narratur.
È in questo
quadro sconfortante che vanno lette le vostre proposte sul lavoro portuale,
cari signori. I fenomeni di un mercato particolare e tutto sommato ristretto
come quello del lavoro nei porti vanno letti nel contesto macroeconomico
generale. E in questo contesto la classe dirigente italiana fa davvero una
figura meschina.
Sergio Bologna
ACTA, Associazione consulenti terziario avanzato, sister organization of the Freelancers Union (USA), member of the European Forum of Independent Professionals – www.actainrete.it
[1] Ringrazio i grandi gruppi terminalistici PSA e
Eurogate che mi hanno fornito supporto organizzativo necessario al buon fine di
queste missioni d’indagine autofinanziate; le conclusioni che ne ho tratto sono
del tutto personali e non coinvolgono minimamente queste società.
[2] Il contribuente italiano sarà lieto di sapere
che l’oculata Ragioneria dello Stato ha ritenuto eccessivo il contributo
ammissibile al ripianamento dei deficit delle Compagnie e lo ha ridotto di 1
milione di euro; sarà meno lieto di sapere che i 2251 esuberi dell’Alitalia
sono tutti a suo carico e si chiederà allora come mai il costo del Mose è
passato da 1 a 5 miliardi senza che nessun ragioniere trovasse qualcosa da
eccepire.
[3] Sono circa un centinaio dall’inizio dell’anno
gli episodi di sciopero, comprese le fermate di 1-2 ore, organizzati dai Cobas,
i cui attivisti sindacali fanno riferimento in Veneto a Adl Cobas di matrice
operaista e in Emilia Romagna a SI Cobas di matrice internazionalista. La quasi
totalità delle vertenze riguarda l’applicazione del contratto nazionale. Eppure
le associazioni datoriali e la stampa continuano a trattarli come fomentatori
di violenze e d’illegalità. Le singole imprese invece e gli stessi committenti
continuano a firmare accordi aziendali con i Cobas, forse hanno capito che è
meglio trattare con loro che con la criminalità organizzata. Quando lo capiranno
anche le istituzioni avremo fatto un passetto avanti.
[4] Il 5 giugno u.s. come rappresentante di
un’associazione di professionisti sono stato ascoltato, assieme ad altri
colleghi, dalla Commissione Lavoro del Senato, presente un rappresentante del
governo, oltre al sen. Pietro Ichino, alla senatrice Ghedini ed altri, in
merito alla Legge Delega e mi sono permesso in quella sede di proporre
un’indagine parlamentare sulle condizioni del lavoro manuale e intellettuale in
Italia, che abbia l’ampiezza e la profondità dell’Inchiesta Jacini
sull’agricoltura dei primi anni dello Stato unitario. Sono convinto che la
politica non abbia per niente le idee chiare sulla situazione reale
dell’occupazione nel Paese.
[5] www.mbres.it, ultima edizione dello studio (2013); per la
precisione: imprese quotate, impieghi e risorse 2010-2012: 2,3% circolante,
13,4% disponibilità, 25,4% impieghi finanziari, 28,0% immobilizzazioni
tecniche, 30,4% dividendi.
* Sergio Bologna
(Trieste, 1937) ha insegnato in varie Università, in Italia e in Germania. Si è
occupato di storia del movimento operaio, ha partecipato alla fondazione di
riviste quali «Classe operaia» e «Primo Maggio».
Espulso dall’Università, ha scelto di fare il consulente e in questa veste
è stato coordinatore del settore merci del Piano Generale dei Trasporti e della
Logistica (1998-2000), membro del Comitato scientifico per il Piano Nazionale
della Logistica (2010-2012) ed esperto del CNEL sui problemi
marittimo-portuali.
A tutto quello contenuto nell'articolo di Sergio bisogna aggiungere il lavoro volontario dovuta dalle necessità di EXPO ovvero dall'occasione più importante per L'ITALIA di promuovere l'eccellenza del saper fare.
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