sabato 20 giugno 2020

INVESTIMENTI CINESI IN ITALIA


A seguito dell'articolo di Sergio Bologna pubblicato in data 13 giugno sulla presenza dei capitali cinesi in Europa nel comparto della logistica, riportiamo un contributo di approfondimento fornitoci da un esperto, che ci consente di mettere in evidenza come in anni recenti siano state cedute alla Cina società importanti del nostro apparato industriale anche in settori tipici del made in Italy, senza che nessuno sollevasse obiezioni di sorta. Anche per questa ragione vi sono fondati motivi per ritenere che la campagna scatenata da certi gruppi contro l'eventualità d'investimenti cinesi nel porto di Trieste sia priva di giustificazioni e rivolta non tanto a difendere il nostro patrimonio industriale ma a colpire la persona di Zeno d'Agostino.
Scenario investimenti cinesi in Europa
Pur senza conoscere i dettagli, in quanto non esiste una banca dati esaustiva sugli investimenti cinesi all’estero, è noto però che gli interessi economici e politici di Pechino trovano sbocchi territoriali ormai un po' ovunque. I cinesi comprano centinaia di aziende in Europa, investono miliardi e finanziano progetti in tutto il mondo.
Secondo il report di Rhodium Group e Mercator Institute for China Studies (MERICS) - dati aggiornati al 2018 - si è assistito ad una involuzione degli investimenti diretti esteri (IDE) della Cina verso l’Unione europea, che sono risultati pari a 17,3 miliardi di euro. Si tratta quindi di un calo del 40% rispetto ai livelli del 2017 (29,1 miliardi€) e di circa la metà rispetto al picco di 37 miliardi raggiunto nel 2016. Tale involuzione non è riservata solo all’Ue, ma si estende su scala globale per effetto della più stretta politica di controllo dei capitali varata da Pechino.
Durante il 2018 il 45% del totale degli investimenti cinesi nel continente ha visto al primo posto la Gran Bretagna (4,2 miliardi €), seguita da Germania (2,1 miliardi €) e Francia (1,6 miliardi €). 
Nello stesso anno 2018 l’Italia invece, insieme ad altri Paesi dell’Europa del Sud quali: Spagna, Grecia, Portogallo, Slovenia, Croazia, Malta e Cipro hanno attirato solo 2,2 miliardi, con un trend calante rispetto agli anni del boom avvenuto tra il 2014 e il 2015. Negli ultimi due anni sono infatti arrivati in Italia “solo” 2,5 miliardi €.
Tuttavia, considerando un orizzonte più ampio, quello che va dal 2000 al 2019, come si nota dal seguente grafico Rhodium Group, l’Italia è stata la terza destinazione preferita degli investimenti cinesi in Europa, con un valore superiore a quello dei francesi. 

In 19 anni l’Italia ha attratto 15,9 miliardi di euro, contro i 14,4 miliardi € della Francia, i 22,7 miliardi € della Germania e 50,3 miliardi € della Gran Bretagna (ante Brexit).
Operazioni principali sul territorio Italiano e differenziazione delle tipologie di investimento
Sempre secondo il report di Rhodium Group – dati 2018 -, tra il 2014 e il 2016 sul territorio italiano gli investimenti cinesi, di rilievo, sul territorio italiano sono: l’acquisto da parte di China National Chemical, di una quota  in Pirelli per 7,3 miliardi di euro, l’investimento da 400 milioni di euro di Shanghai Electric in Ansaldo Energia e l’acquisizione del 35% di Cdp Reti da parte del colosso dell’energia elettrica China State Grid, per un valore di 2,81 miliardi.
Nel 2018 ha avuto luogo l’acquisizione di NMS Group – settore medicale - da parte di SARI e quella del gruppo biomedicale Esaote da parte di una cordata di investitori cinesi.
Oltre ai grandi gruppi industriali cinesi ci sono poi una serie di acquirenti meno noti che hanno comunque fatto investimenti per centinaia di milioni in settori come la moda (Krizia), gioielli (Buccellati), macchinari industriali, componentistica e design auto.
In definitiva la lista dello shopping cinese in Italia è molto lunga e include: il gruppo Ferretti Yacht, l'oleario toscano Salov con i suoi marchi Olio Sagra e Filippo Berio, piccole e medie imprese, che rappresentano comunque delle eccellenze del Made in Italy, ad esempio: l'azienda dei trattori Goldoni di Carpi, la storica azienda dei marmi Quarella di Verona, il legno Masterwood di Rimini, la metalmeccanica Motovario di Formigine, la catena di cinema Odeon & Uci, e ancora la Emarc, società torinese che produce componenti per le più importanti case automobilistiche, la Moto Morini di Pavia, le milanesi specializzate in farmaceutica Newchem e Effechem.
Ed è proprio la così lunga lista dello shopping da parte della Cina in Italia a far sì che molti dichiarino che “L'Italia non è più italiana”.
Esiste poi un’altra categoria di investimenti che comprende operazioni di portfolio che riguardano società quotate; trattasi di acquisizioni, generalmente entro il 2%, da parte del SAFE (State Administration for Foreign Exchange) in società quotate come ENI, ENEL, Prysmian, FCA, Telecom Italia, Generali, Saipem, Intesa San Paolo, Unicredit.
N.B. A inizio 2019 la China State Administration of Foreign Exchange aveva in portafoglio azioni superiori al 2% in dieci delle maggiori imprese quotate italiane, attive nei comparti bancario, assicurativo, dell’energia e della produzione di autoveicoli, cavi e sistemi.  Nel complesso, lo stock di Investimenti Diretti Esteri cinesi in Italia nel 2017 (ultimo anno per cui sono disponibili dati annuali) ammonterebbe a circa 4,4 miliardi di euro, più o meno la metà dello stock investito dall’Italia in Cina.
Esiste infine un’ulteriore categoria di investimenti, il più delle volte poco evidente, ma che è comunque rilevante; ovvero gli investimenti da parte di numerosi imprenditori cinesi privati, provenienti da alcune province, es. Fujian, nel settore della ristorazione, del commercio al dettaglio e della manifattura (soprattutto a Prato). Questi investimenti spesso non rientrano nel flusso bilaterale di investimenti perché realizzati da società di diritto italiano con capitali già presenti in Italia.
Nella tabella che segue il Ministero degli Affari Esteri Italiano ha evidenziato le diverse tipologie di investimenti cinesi, quali: investimenti finanziari SAFE, investimenti strategici da parte di aziende pubbliche cinesi, M&A di grandi e medie società italiane, o di piccole società altamente specializzate, investimenti greenfield ed infine quelli ibridi (es. squadre di calcio Inter, Milan, Parma).

La figura sottostante evidenzia che, complessivamente nel 2017 più di 200 gruppi industriali cinesi erano presenti in Italia; a questi vanno aggiunti quelli con passaporto di Hong Kong i cui capitali, spesso, vengono direttamente dalla Cina continentale. Il totale ammonta a ca. 300 gruppi industriali che controllano più di 640 aziende italiane, grandi e piccole, con un numero di dipendenti complessivo di 32.690 ed un fatturato di poco inferiore a 18.000 miliardi di euro.

Motivazioni per investimenti cinesi in Italia
Per quanto riguarda la tipologia di investimenti, quali M&A o Greenfield, le motivazioni principali per gli investimenti in Italia sono le seguenti:
a.       Acquisizione di quote di mercato in Italia e Europa. Invece di costruire nuove fabbriche, per espandersi rapidamente, l’investitore cinese compra aziende esistenti, a volte ex fornitori.
b.       Acquisizione di tecnologie per offrire prodotti migliori sul mercato cinese e sopravvivere in un mercato sempre più competitivo.
c.       Operazioni ibride (acquisizione squadre di calcio) motivate soprattutto dal ritorno di immagine per l’acquirente.
d.       Risorse, specialmente intangibili, come marchi, conoscenze e competenze.
In aggiunta, la posizione strategica dell’Italia per UE e Mediterraneo gioca un ruolo significativo.
Principali settori di investimenti cinesi in Italia
I principali settori di investimenti cinesi in ordine di importanza, con una maggiore concentrazione nel Nord del Paese (Lombardia, Piemonte, Veneto, Toscana), sono:
§  Manifatturiero
§  Trade
§  Logistico
§  Costruzioni
§  Servizi
Fonte: Database Reprint
Il caso Huawei
Il caso Huawei meriterebbe un discorso a parte per i timori di spionaggio informatico e per gli investimenti in settori “sensibili”, quali l’innovazione tecnologica nel campo dei semiconduttori per applicazioni wireless nel contesto della rete 5G.
Ci si limita a dire che Huawei è presente sul mercato italiano dal 2004 e conta a oggi ca. 800 dipendenti di cui circa 100 impiegati nel Centro ricerche per le tecnologie "microwave" di Segrate. L’anno scorso Huawei ha annunciato un nuovo investimento in Italia, che ammonta a 1,7 milioni di dollari all’insegna dell’innovazione: il Microelectronics Innovation Lab, realizzato in partnership tra il Centro di Ricerca di Milano/Segrate e l’Università di Pavia, ateneo che annovera un polo di eccellenza di prestigio internazionale nell’ambito della microelettronica. (Fonte Huawei.com)
Può questo investimento costituire una reale minaccia per lo spionaggio informatico? È difficile dirlo.
Di sicuro invece sarà un’opportunità per favorire l’attrattività dell’Italia e frenare la cosiddetta ‘fuga dei cervelli’ che ha contribuito alla creazione del divario digitale oggi esistente con gli altri Paesi dell’Unione Europea.
Il progetto Belt and Road Initiative (BRI)
• Sono coinvolti oltre 133 paesi che hanno firmato accordi con il Governo cinese.
Investimenti cinesi nei Paesi BRI: oltre 460 mld di USD; totale progetti concessi in appalto: 500 mld.
• Paesi attraversati da BRI: la Cina ha costruito 82 zone di cooperazione economica e commerciale; insediate             3.995 imprese generando 244.000 posti di lavoro.
La BRI ha dato vita ad un intenso dibattito internazionale, specie nell’ultimo anno. Molti si chiedono se i progetti e gli investimenti previsti contribuiranno a sostenere l’economia globale, a far crescere l’occupazione nei paesi coinvolti e sollevare milioni di persone dalla povertà, oppure la Cina sta usando questo programma per guadagnare influenza geopolitica e per riversare su nuovi partner commerciali una quota crescente della propria sovraccapacità produttiva? 
Ed ancora, l’adesione dell’Italia all’iniziativa faciliterà l’aumento delle esportazioni verso la Cina e sbloccherà nuove opportunità d’investimento nei due sensi e in paesi terzi?
In aggiunta, esiste il rischio che alcuni paesi beneficiari degli investimenti cinesi, specie quelli meno sviluppati e finanziariamente solidi, sviluppino una pericolosa dipendenza dai prestiti erogati da Pechino, trovandosi così non in grado di onorare i debiti contratti per lo sviluppo di infrastrutture e vedendosi costretti a cederne la proprietà? Questo fenomeno, recentemente, a causa della pandemia Covid-19 ha già visto diversi paesi chiedere alla Cina di rinegoziare le condizioni dei prestiti.


Conclusioni
Per concludere, considerato che la partecipazione azionaria di gruppi cinesi all’interno del nostro paese non è per niente modesta, anche se in calo negli ultimi anni, viene spontaneo chiedersi se gli investimenti cinesi in Italia rappresentino un’opportunità o una minaccia per gli italiani.
Di sicuro c’è chi, da una parte, potrebbe interpretare questi dati come il segno di un’industria italiana in declino, vedendo in questi investimenti una minaccia e una sorta di “conquista straniera“; dall’altra, bisognerebbe chiedersi cosa succederebbe se non ci fosse questo forte investimento straniero; la conseguenza peggiore potrebbe essere la probabile chiusura di aziende italiane?
Esiste poi il rischio che una maggiore vicinanza tra Roma e Pechino possa tradursi, oltre che in nuove opportunità commerciali per il nostro Paese, anche in nuove operazioni di trasferimento di asset italiani in mano cinese? 
 A questo proposito riuscirà l’Unione Europea, con lo scudo che si accinge a lanciare, ovvero un “golden power” continentale, a proteggere le aziende strategiche da scalate ed acquisizioni da parte di soggetti cinesi, sovvenzionati con soldi pubblici nel loro paese, o è ormai troppo tardi?
Oltre questi interrogativi è anche opportuno chiedersi cosa significhi lavorare per un investitore cinese in Italia, andando però a sfatare alcuni miti e senza incorrere in stereotipi quali: una comunità troppo chiusa, che vive solo per lavorare, con orari di lavoro al limite di ciò che è umanamente accettabile, una cultura del business poco flessibile etc.
E’ indubbio che si possano riscontrare delle difficoltà quando si parla di adattamento dei dipendenti italiani (o europei) alla cultura lavorativa cinese ma lo stereotipo di cui sopra, allora, andrebbe allontanato, mettendo in luce invece le esperienze positive di italiani con datori di lavoro cinesi, con contratti regolari, molti a tempo indeterminato, con stipendi in linea con la media europea e con rapporti tra capi e dipendenti sempre più diretti e meno gerarchici.
Ed infine, il rallentamento degli investimenti cinesi sul mercato Italiano negli ultimi 3-4 anni, può dipendere dai maggiori controlli di capitale, dalla minor liquidità in Cina e dall’incremento dei controlli da parte europea?
Come pure, quale sarà l’impatto dell’epidemia Covid-19 sui flussi di capitale globale, inclusi gli investimenti della Cina all’estero?


1 commento:

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