Ci troviamo a
riprendere questo blog in un momento eccezionale della storia
dell’umanità, dove tante delle nostre certezze stanno crollando e
tutte le assurdità del nostro modo di vivere e di produrre vengono a
galla.
Ci sono molti che sperano in un grande cambiamento di mentalità e in un inizio di ripensamento capace di scatenare, proprio dentro la disperazione, una nuova stagione d’innovazione e di creatività. Anche noi lo speriamo perché in qualcosa oggi dobbiamo pur credere, ma l’esperienza ci dice che l’umanità dimentica presto anche le più immani tragedie e tutto continua come prima.
Ci sono molti che sperano in un grande cambiamento di mentalità e in un inizio di ripensamento capace di scatenare, proprio dentro la disperazione, una nuova stagione d’innovazione e di creatività. Anche noi lo speriamo perché in qualcosa oggi dobbiamo pur credere, ma l’esperienza ci dice che l’umanità dimentica presto anche le più immani tragedie e tutto continua come prima.
Uno dei grandi
problemi che è emerso in questi giorni è quello del rapporto tra
scienza e politica.
Abbiamo visto com’è complesso e
contraddittorio il mondo della scienza e come la sua
iperspecializzazione, la sua divisione in comparti tra loro spesso
non comunicanti, rendono difficile una visione olistica dei problemi.
E’ comprensibile che il giudizio su una determinata questione possa
essere diversissimo tra uno scienziato di laboratorio ed un primario
di pronto soccorso, ma abbiamo bisogno delle conoscenze e
dell’esperienza di tutti e due per uscire dal guado. Abbiamo saputo
di progressi inimmaginabili fatti dalla ricerca ed abbiamo visto
premi Nobel fare una figura meschina. Possiamo capire quindi che il
decisore pubblico, di fronte a un fenomeno così inedito e così
avvolto nell’oscurità, si sia trovato disorientato. E’ una
situazione dove è impossibile non sbagliare. Ma da qui ad assolvere
tutto e tutti c’è una certa differenza, da qui a non vedere la
differenza tra scelte felici e virtuose ed errori che si persevera a
commettere, ce ne corre.
La situazione dei
luoghi di lavoro è apparsa subito molto problematica. C’è stata
un’ondata di conflittualità che non si vedeva da decenni,
provocata dalla preoccupazione di chi, non potendo lavorare in
remoto, si sentiva messo a rischio ma al tempo stesso chiedeva di
poter continuare a produrre reddito, in situazioni dove, per una
serie di ragioni, gli ordini da evadere erano schizzati in alto - si
pensi solo alla subfornitura del settore auto della Germania. E’
venuta alla luce la misera condizione salariale di tanti lavoratori e
soprattutto il grado di diffusione di lavori precari, mal pagati,
privi di qualunque ammortizzatore.
All’interno dei
luoghi di lavoro il settore della logistica presentava problematiche
ancora più complesse, da un lato si rivelava un servizio
indispensabile, dall’altro la composizione della mano d’opera nei
magazzini scontava una condizione diffusa di poca trasparenza, per
usare un eufemismo, e di scarse tutele. Qui si è potuto constatare
una volta di più come le regole del lavoro portuale, non avendo
subito lo sfascio della liberalizzazione selvaggia, siano ancora un,
seppure debole, baluardo contro lo sfruttamento del lavoro.
Come si è mosso il
porto di Trieste in questa situazione?
Possiamo dire che in
questo frangente ha dimostrato una volta di più di essere una
risorsa per l’intera comunità cittadina e regionale. Approfittando
di relazioni internazionali tessute negli ultimi anni, coinvolgendo
il cluster marittimo-portuale e le sue risorse in termini di
collegamenti marittimi e aerei, lavorando a stretto contatto con
l’amministrazione regionale, cercando di dialogare il più
possibile con le rappresentanze dei lavoratori, da un lato ha
procurato mezzi di protezione per tutti, dall’altro è riuscito a
creare condizioni di lavoro tali per cui di fatto la macchina del
porto non si è mai dovuta fermare.
Su questo abbiamo
iniziato a raccogliere una documentazione, lasciando per ora la
parola ad uno dei protagonisti di questa vicenda.
“La
diffusione del COVID 19 è sembrata dapprima come una notizia dal
sapore esotico. Quasi nessuno, neppure tra gli addetti ai lavori, sul
nascere delle prime notizie attinenti al virus, avrebbe potuto
immaginare la dirompenza sul sistema-mondo che tale pandemia avrebbe
assunto dai primi giorni di gennaio 2020 ai mesi successivi.
Il
Porto però è un contesto a parte. È per sua natura una sinapsi dei
flussi che regolano le sorti dell’economia delle nazioni. Fermo sul
suo scoglio di terra, ma dinamico nel recepire i processi che
avvengono anche dalla parte opposta del globo. Tale è poi lo scalo
internazionale di Trieste, capolinea della Via della Seta, è insieme
sia una delle principali porte dell’Europa per le merci in
navigazione dalla Cina e dal Mediterraneo Orientale, sia una Comunità
di persone consapevoli che quanto avviene lontano da noi, possa
produrre degli effetti reali anche sull’economia del contesto
locale.
Ed
è per tale ruolo internazionale assunto dal nostro Porto che la
Regione Friuli Venezia Giulia, prima delle altre in Italia, già il
giorno 14 febbraio 2020 ha dovuto considerare tra le possibilità non
remote che un potenziale caso di soggetto positivo al Coronavirus
potesse accusare i sintomi della patologia in navigazione in
avvicinamento alla costa Giuliana. Per tale motivo, in tale data, un
team di Tecnici di AdSP MAO, assieme alla Direzione Sanità della
Regione, ai Comandi delle Capitanerie di Porto di Trieste, Monfalcone
e San Giorgio di Nogaro, Protezione Civile, 118 e USMAF ha dovuto
elaborare e trasmettere al Ministero della Salute una procedura che
contemplasse metodi di lavoro, risorse, strumentazioni e profilassi
sanitaria per gestire in sicurezza e biocontenimento l’eventuale
evacuazione di un soggetto contagiato dalla nave in rada al primo
nosocomio regionale in grado di gestire efficacemente la degenza
ospedaliera del paziente.
Dal
14 Febbraio al giorno 22 dello stesso mese la prospettiva e la
consapevolezza della minaccia cambiava radicalmente. I primi focolai
di infezione erano già sistematicamente registrati
dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità già in tutti gli Stati
del Vecchio Continente e alcuni importati cluster di contagio
colpivano la Lombardia e il vicino Veneto. La minaccia a questo punto
non giungeva più dal mare, ma direttamente dall’entroterra,
correva sulla gomma e sulla rotaia.
Cosa
fare.
Non
è stato un interrogativo, ma un fermo immagine tra consapevolezza,
pragmatismo, senso d’impreparazione, isteria collettiva, necessità
di razionalizzazione. Il bias soggettivo di restituzione è stato
sollecitato tanto a livello individuale, quanto di Comunità, mentre
il Governo iniziava a produrre il primo di una lunga serie di DPCM.
Una sigla – questa – che assieme a quelle di OMS, FFP2, DPI,
COVID 19, e così avanti ci avrebbe resi tutti “esperti” di
qualcosa che per la maggioranza delle persone risultava, solo a
gennaio di quest’anno, un bolo indigesto di acronimi
impronunciabili e sconosciuti.
Il
primo intento di AdSP MAO, poi portato avanti con la fatica e
dedizione di tutto ciò che richiede la costanza nei momenti di
emergenza, è stato quello di perseguire le uniche linee di azione
che avrebbero potuto risultare da subito efficaci, con validità
anche nel medio periodo: la trasparenza, la conoscenza e la
definizione di regole.
Si
è avviato così un percorso vissuto spalla a spalla tra tutti gli
Operatori della Sanità e della Sicurezza sul Lavoro su scala
regionale e locale, in relazione con i Servizi di Prevenzione e
Protezione delle Imprese portuali di Trieste e di Monfalcone, sempre
ascoltando la voce dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza
di Sito produttivo. Attraverso questo percorso si sono analizzate
settimanalmente le disposizioni cogenti emanate dai vari dicasteri,
le linee guida di prevenzione e profilassi approvate su scala
internazionale dimensionando il tutto sui paradigmi del contesto
portuale, per renderlo fruibile tanto ai Datori di Lavoro delle
imprese, quanto agli stessi Lavoratori, diffondendone i contenuti con
la forma del bollettino delle emergenza “Comunicazione
COVID 19 n° __ di data ____ delle ore _____”.
Tali comunicazioni risultavano un concentrato di commenti ai
requisiti normativi sul tema del Coronavirus, modelli di autodiagnosi
delle condotte organizzative di prevenzione alla diffusione del virus
assunte dalle imprese, protocolli operativi.
Assieme
a tale diffusione della consapevolezza si è poi agito sulla
necessità di garantire alla Comunità Portuale la necessaria
fornitura di quegli strumenti definiti sempre più essenziali ai fini
del proseguo in sicurezza delle attività produttive svolte presso lo
Scalo: le mascherine per la protezione delle vie respiratorie in
primo luogo, il gel idroalcolico per la disinfezione delle mani, la
sanificazione dei locali di uso comune, la messa a disposizione di
guanti in lattice, l’installazione di barriere protettive in tutti
i plessi di uso comune e di interfaccia operatori – utenti. Anche
in tale caso non è stato un processo lineare e privo di ostacoli.
Come è noto le mascherine filtranti semifacciali diventavano da
subito introvabili e solo le relazioni fiduciarie interpersonali
delle Persone ai vertici dell’Autorità di Sistema Portuale hanno
consentito di reperire presso contesti nazionali esteri meno colpiti
dall’emergenza, le risorse per garantire la distribuzione porta a
porta - fuori e dentro al Porto - di adeguate quantità di strumenti
di protezione a tutti gli operatori, a volte contando la sera il
numero risibile di pezzi rimasti, pregando perché la nave su cui
viaggiavano i dispositivi in arrivo non tardasse neppure di un’ora.
Una
svolta – anche a livello Nazionale – è stata rappresentata dalla
sigla tra i Rappresentanti delle Parti Datoriali e Sindacali e il
Governo il Sabato 14 Marzo 2020 del “Protocollo di intesa” che ha
fatto maggiore chiarezza e creato univocità di interpretazione su
quali dovessero essere i protocolli essenziali da seguire al fine di
consentire il mantenimento in attività di quelle ormai poche
attività produttive la cui azione non era stata ancora interdetta e
cui facevano sostanzialmente parte tutte le imprese di Servizi e
Operazioni portuali attive nel contesto governato da AdSP MAO.
Dall’approvazione di tale Protocollo ha fatto seguito già il 16
marzo l’emanazione del Provvedimento del Presidente di AdSP MAO col
quale, ancora una volta, da un lato si recepiva integralmente quanto
definito dal documento del 14 Marzo e dall’altro si
contestualizzavano, nell’ambito dei Porti di Trieste e di
Monfalcone, le misure ivi previste.
Partiva
allora una nuova azione: quella consistente nel rendere “sterili”
gli accessi al Porto via terra, ovvero predisponendo un sistema
capillare di misurazione della temperatura corporea a partire dal 20
Marzo 2020 presso tutti i Varchi carrabili del Porto di Trieste
(Varco 4 e Varco 1 per il Punto Franco Nuovo, Varco 1 sul Punto
Franco Vecchio, lo Scalo Legnami e il Porto Franco Olii Minerali) e
di Monfalcone (dove vi è un solo Varco stradale di accesso). A
occuparsi dell’importante procedimento sono state – in misura
equamente distribuita – le imprese di fornitura di manodopera
portuale di Trieste e Monfalcone, rispettivamente la ALPT e l’Impresa
Alto Adriatico e la Cooperativa Servizi Portuali di Trieste. Su tale
fronte non sono mancate difficoltà che a oggi – superate –
possono intendersi come “normalmente
prevedibili”, ma
che allora hanno sistematicamente minacciato la riuscita efficace del
processo: le temperature rigide al mattino e alla sera
compromettevano la funzionalità dei termoscanner manuali e le forti
giornate di bora delle ultime settimane di Marzo hanno reso eroico
l’impegno dei Lavoratori avviati alla mansione di termometristi
agli occhi di tutta la Comunità portuale.
Gestire
un’emergenza che ha origini ancora oggi incerte, effetti letali
purtroppo ben noti e numericamente drammatici, veloce rapidità di
espansione e lunghi periodi di incubazione nel 80% dei casi del tutto
asintomatici, ha inoltre costituito un fattore di forte
sollecitazione dell’animosità di svariati gruppi di persone, fuori
e dentro i confini del Porto. Tale fermento, a volte anche
trascendente la legittimità, pur considerando il disorientamento
sociale vissuto, ha portato in talune fasi a momenti di contenzioso
anche duro e acceso in occasione di lavoro presso i vari Terminal,
determinando prese di posizione e minacce alla sospensione delle
attività. Da un lato c’è stato chi ha cavalcato l’onda
dell’emotività complessiva acuendo timori pur comprensibili e
fondati, dall’altra parte non c’è mai stata la serenità da
parte di alcuno nell’affermare certezze che sistematicamente nei
giorni successivi venivano smentite, poi confermate e poi ancora
rielaborate dalla Comunità scientifica internazionale. Per tale
motivo in queste fasi la linea assunta da AdSP MAO, dagli RLSS, dalle
Rappresentanze dei Lavoratori e da parte dei responsabili degli
avviamenti dell’Agenzia del Lavoro Portuale e delle Imprese
Portuali è stata quella di mettersi all’ascolto, recepire il
disagio, affrontare le istanze pervenute, capire le necessità e
implementare le procedure non ancora interpretate nel modo più
opportuno. Da tali momenti di confronto sono emerse giorno dopo
giorno le ulteriori misure applicative di prevenzione al contagio da
COVID 19 del Porto di Trieste e di Monfalcone, quelle che rendevano
più efficaci i protocolli dettati a livello internazionale al
contesto operativo delle Imprese portuali: la sanificazione periodica
degli ambienti di lavoro a più alto flusso di persone,
l’igienizzazione degli abitacoli dei mezzi d’opera a ogni cambio
turno, la distribuzione delle mascherine anche alle mansioni per cui
in una fase normativa intermedia non ne era ancora previsto
l’obbligo, le messa a disposizione di gel igienizzante e guanti in
lattice, la parcellizzazione degli accessi ai locali di interesse
comune, trattamenti di profilassi di servizi igienici e spogliatoi.
Tra
il 16 e 20 Marzo in una prima fase e tra il 09 e il 18 Aprile poi,
sono state avviate sistematiche azioni di riscontro sul campo delle
misure di prevenzione adottate “sul campo” da parte delle singole
Imprese di servizi e di operazioni portuali di Trieste e di
Monfalcone, coinvolgendo, soprattutto nella seconda fase, anche i
cantieri navali, le agenzie di spedizioni e i depositi di merci di
rilevanza più significativa.
Numericamente
sono state eseguite oltre 90 verifiche ispettive mirate sui singoli
requisiti della prevenzione alla diffusione dei contagi da COVID 19
presso i luoghi di lavoro in ambito portuale da parte del Nucleo
Ispettivo di AdSP MAO e dagli Ufficiali di Polizia Giudiziaria
dell’ASUGI. Da tali verifiche è stata riscontrata nella quasi
totalità dei casi un pieno soddisfacimento dei requisiti essenziali
e idonei previsti, rilevando solo in poche circoscritte situazioni
carenze facilmente gestibili.
Oggi
la curva di espansione del virus vede una crescita marginale
negativa. Da poche settimane la funzione di diffusione ha perso
caratteristiche di tipo esponenziale e la sua derivata prima è
divenuta una costante con tendenza alla negatività.
Non
è ancora tempo di stilare bilanci, in quanto è noto ed evidente che
i focolai di diffusione sono ancora lungi dall’essere debellati e
il novero delle vittime risulta drammatico. Tuttavia alcune
riflessioni ad oggi possono già essere spese. I casi di positività
tra lavoratori dei porti e loro “contatti stretti” si sono
limitati a poche unità su una comunità che tra Trieste e Monfalcone
vede una massa complessiva di circa 10.000 persone dia che accedono a
tali scali per operazioni rese alle merci o per servizi complementari
alle imprese che realizzano la logistica dei traffici. I fattori del
successo e il conforto di tali numeri non saranno forse mai spiegati
con analisi lineari e assolute. Sicuramente hanno inciso i vasti
spazi di lavoro a disposizione della maggior parte degli utenti,
l’operatività presso luoghi aperti per la percentuale maggiore dei
lavoratori e si può anche constatare come l’età media degli
utenti e dei lavoratori dei porti sia sicuramente di molto inferiore
a quella delle fasce di popolazione mondiale maggiormente colpita.
A
oggi il lavoro da svolgere in materia di prevenzione dal contagio da
Coronavirus in porto non è finito. Rimangono da attuare – da un
lato – le iniziative congiunte con gli RLSS, la Direzione Sanità
della Regione FVG e ASUGI volte a pervenire a un protocollo di
esecuzione dei tamponi rinofaringei che veda tempi di esecuzione
particolarmente celeri per i Lavoratori portuali e loro contatti
stretti, sulla scorta di quanto già attuato presso gli scali
genovesi. Dall’altro lato vi è la gestione del mantenimento di
elevati standard di sorveglianza presso le imprese portuali e i
flussi di persone che accedono o transitano per i porti: se da una
lato la curva gaussiana dei contagi in Italia vede la sua fase
calante, i trend rilevati presso importanti nazioni di interscambio
merci dello scalo giuliano sono ancora in crescita esponenziale (è
il caso della Turchia), mentre altri paesi hanno curve di
accrescimento geometrico, ma costante, che non lasciano intravvedere
significativi segnali di arresto (è il caso dell’Iran).
Il
caso nazionale della Cina insegna poi che non vanno trascurati i
“rimbalzi” ovvero i casi di nuovi focolai determinati proprio
dalla riapertura dei flussi di circolazione delle merci e delle
persone tra Stati con presenza o meno di focolai più rilevanti di
infezione. Sicuramente la “fase 2” – ancorché non già
certificata – è iniziata. Ma da qui al raggiungimento di soglie di
“accettabilità del rischio” il percorso è ancora molto lungo.”
Giovanni
Civran, responsabile sicurezza dell’Autorità Portuale
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