sabato 25 aprile 2020

L'EMERGENZA COVID 19 E IL PORTO DI TRIESTE


Ci troviamo a riprendere questo blog in un momento eccezionale della storia dell’umanità, dove tante delle nostre certezze stanno crollando e tutte le assurdità del nostro modo di vivere e di produrre vengono a galla.

Ci sono molti che sperano in un grande cambiamento di mentalità e in un inizio di ripensamento capace di scatenare, proprio dentro la disperazione, una nuova stagione d’innovazione e di creatività. Anche noi lo speriamo perché in qualcosa oggi dobbiamo pur credere, ma l’esperienza ci dice che l’umanità dimentica presto anche le più immani tragedie e tutto continua come prima.
Uno dei grandi problemi che è emerso in questi giorni è quello del rapporto tra scienza e politica. 
Abbiamo visto com’è complesso e contraddittorio il mondo della scienza e come la sua iperspecializzazione, la sua divisione in comparti tra loro spesso non comunicanti, rendono difficile una visione olistica dei problemi. E’ comprensibile che il giudizio su una determinata questione possa essere diversissimo tra uno scienziato di laboratorio ed un primario di pronto soccorso, ma abbiamo bisogno delle conoscenze e dell’esperienza di tutti e due per uscire dal guado. Abbiamo saputo di progressi inimmaginabili fatti dalla ricerca ed abbiamo visto premi Nobel fare una figura meschina. Possiamo capire quindi che il decisore pubblico, di fronte a un fenomeno così inedito e così avvolto nell’oscurità, si sia trovato disorientato. E’ una situazione dove è impossibile non sbagliare. Ma da qui ad assolvere tutto e tutti c’è una certa differenza, da qui a non vedere la differenza tra scelte felici e virtuose ed errori che si persevera a commettere, ce ne corre.
La situazione dei luoghi di lavoro è apparsa subito molto problematica. C’è stata un’ondata di conflittualità che non si vedeva da decenni, provocata dalla preoccupazione di chi, non potendo lavorare in remoto, si sentiva messo a rischio ma al tempo stesso chiedeva di poter continuare a produrre reddito, in situazioni dove, per una serie di ragioni, gli ordini da evadere erano schizzati in alto - si pensi solo alla subfornitura del settore auto della Germania. E’ venuta alla luce la misera condizione salariale di tanti lavoratori e soprattutto il grado di diffusione di lavori precari, mal pagati, privi di qualunque ammortizzatore.
All’interno dei luoghi di lavoro il settore della logistica presentava problematiche ancora più complesse, da un lato si rivelava un servizio indispensabile, dall’altro la composizione della mano d’opera nei magazzini scontava una condizione diffusa di poca trasparenza, per usare un eufemismo, e di scarse tutele. Qui si è potuto constatare una volta di più come le regole del lavoro portuale, non avendo subito lo sfascio della liberalizzazione selvaggia, siano ancora un, seppure debole, baluardo contro lo sfruttamento del lavoro.
Come si è mosso il porto di Trieste in questa situazione?
Possiamo dire che in questo frangente ha dimostrato una volta di più di essere una risorsa per l’intera comunità cittadina e regionale. Approfittando di relazioni internazionali tessute negli ultimi anni, coinvolgendo il cluster marittimo-portuale e le sue risorse in termini di collegamenti marittimi e aerei, lavorando a stretto contatto con l’amministrazione regionale, cercando di dialogare il più possibile con le rappresentanze dei lavoratori, da un lato ha procurato mezzi di protezione per tutti, dall’altro è riuscito a creare condizioni di lavoro tali per cui di fatto la macchina del porto non si è mai dovuta fermare.
Su questo abbiamo iniziato a raccogliere una documentazione, lasciando per ora la parola ad uno dei protagonisti di questa vicenda.


“La diffusione del COVID 19 è sembrata dapprima come una notizia dal sapore esotico. Quasi nessuno, neppure tra gli addetti ai lavori, sul nascere delle prime notizie attinenti al virus, avrebbe potuto immaginare la dirompenza sul sistema-mondo che tale pandemia avrebbe assunto dai primi giorni di gennaio 2020 ai mesi successivi.
Il Porto però è un contesto a parte. È per sua natura una sinapsi dei flussi che regolano le sorti dell’economia delle nazioni. Fermo sul suo scoglio di terra, ma dinamico nel recepire i processi che avvengono anche dalla parte opposta del globo. Tale è poi lo scalo internazionale di Trieste, capolinea della Via della Seta, è insieme sia una delle principali porte dell’Europa per le merci in navigazione dalla Cina e dal Mediterraneo Orientale, sia una Comunità di persone consapevoli che quanto avviene lontano da noi, possa produrre degli effetti reali anche sull’economia del contesto locale.
Ed è per tale ruolo internazionale assunto dal nostro Porto che la Regione Friuli Venezia Giulia, prima delle altre in Italia, già il giorno 14 febbraio 2020 ha dovuto considerare tra le possibilità non remote che un potenziale caso di soggetto positivo al Coronavirus potesse accusare i sintomi della patologia in navigazione in avvicinamento alla costa Giuliana. Per tale motivo, in tale data, un team di Tecnici di AdSP MAO, assieme alla Direzione Sanità della Regione, ai Comandi delle Capitanerie di Porto di Trieste, Monfalcone e San Giorgio di Nogaro, Protezione Civile, 118 e USMAF ha dovuto elaborare e trasmettere al Ministero della Salute una procedura che contemplasse metodi di lavoro, risorse, strumentazioni e profilassi sanitaria per gestire in sicurezza e biocontenimento l’eventuale evacuazione di un soggetto contagiato dalla nave in rada al primo nosocomio regionale in grado di gestire efficacemente la degenza ospedaliera del paziente.
Dal 14 Febbraio al giorno 22 dello stesso mese la prospettiva e la consapevolezza della minaccia cambiava radicalmente. I primi focolai di infezione erano già sistematicamente registrati dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità già in tutti gli Stati del Vecchio Continente e alcuni importati cluster di contagio colpivano la Lombardia e il vicino Veneto. La minaccia a questo punto non giungeva più dal mare, ma direttamente dall’entroterra, correva sulla gomma e sulla rotaia.
Cosa fare.
Non è stato un interrogativo, ma un fermo immagine tra consapevolezza, pragmatismo, senso d’impreparazione, isteria collettiva, necessità di razionalizzazione. Il bias soggettivo di restituzione è stato sollecitato tanto a livello individuale, quanto di Comunità, mentre il Governo iniziava a produrre il primo di una lunga serie di DPCM. Una sigla – questa – che assieme a quelle di OMS, FFP2, DPI, COVID 19, e così avanti ci avrebbe resi tutti “esperti” di qualcosa che per la maggioranza delle persone risultava, solo a gennaio di quest’anno, un bolo indigesto di acronimi impronunciabili e sconosciuti.
Il primo intento di AdSP MAO, poi portato avanti con la fatica e dedizione di tutto ciò che richiede la costanza nei momenti di emergenza, è stato quello di perseguire le uniche linee di azione che avrebbero potuto risultare da subito efficaci, con validità anche nel medio periodo: la trasparenza, la conoscenza e la definizione di regole.
Si è avviato così un percorso vissuto spalla a spalla tra tutti gli Operatori della Sanità e della Sicurezza sul Lavoro su scala regionale e locale, in relazione con i Servizi di Prevenzione e Protezione delle Imprese portuali di Trieste e di Monfalcone, sempre ascoltando la voce dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza di Sito produttivo. Attraverso questo percorso si sono analizzate settimanalmente le disposizioni cogenti emanate dai vari dicasteri, le linee guida di prevenzione e profilassi approvate su scala internazionale dimensionando il tutto sui paradigmi del contesto portuale, per renderlo fruibile tanto ai Datori di Lavoro delle imprese, quanto agli stessi Lavoratori, diffondendone i contenuti con la forma del bollettino delle emergenza “Comunicazione COVID 19 n° __ di data ____ delle ore _____”. Tali comunicazioni risultavano un concentrato di commenti ai requisiti normativi sul tema del Coronavirus, modelli di autodiagnosi delle condotte organizzative di prevenzione alla diffusione del virus assunte dalle imprese, protocolli operativi.
Assieme a tale diffusione della consapevolezza si è poi agito sulla necessità di garantire alla Comunità Portuale la necessaria fornitura di quegli strumenti definiti sempre più essenziali ai fini del proseguo in sicurezza delle attività produttive svolte presso lo Scalo: le mascherine per la protezione delle vie respiratorie in primo luogo, il gel idroalcolico per la disinfezione delle mani, la sanificazione dei locali di uso comune, la messa a disposizione di guanti in lattice, l’installazione di barriere protettive in tutti i plessi di uso comune e di interfaccia operatori – utenti. Anche in tale caso non è stato un processo lineare e privo di ostacoli. Come è noto le mascherine filtranti semifacciali diventavano da subito introvabili e solo le relazioni fiduciarie interpersonali delle Persone ai vertici dell’Autorità di Sistema Portuale hanno consentito di reperire presso contesti nazionali esteri meno colpiti dall’emergenza, le risorse per garantire la distribuzione porta a porta - fuori e dentro al Porto - di adeguate quantità di strumenti di protezione a tutti gli operatori, a volte contando la sera il numero risibile di pezzi rimasti, pregando perché la nave su cui viaggiavano i dispositivi in arrivo non tardasse neppure di un’ora.
Una svolta – anche a livello Nazionale – è stata rappresentata dalla sigla tra i Rappresentanti delle Parti Datoriali e Sindacali e il Governo il Sabato 14 Marzo 2020 del “Protocollo di intesa” che ha fatto maggiore chiarezza e creato univocità di interpretazione su quali dovessero essere i protocolli essenziali da seguire al fine di consentire il mantenimento in attività di quelle ormai poche attività produttive la cui azione non era stata ancora interdetta e cui facevano sostanzialmente parte tutte le imprese di Servizi e Operazioni portuali attive nel contesto governato da AdSP MAO. Dall’approvazione di tale Protocollo ha fatto seguito già il 16 marzo l’emanazione del Provvedimento del Presidente di AdSP MAO col quale, ancora una volta, da un lato si recepiva integralmente quanto definito dal documento del 14 Marzo e dall’altro si contestualizzavano, nell’ambito dei Porti di Trieste e di Monfalcone, le misure ivi previste.
Partiva allora una nuova azione: quella consistente nel rendere “sterili” gli accessi al Porto via terra, ovvero predisponendo un sistema capillare di misurazione della temperatura corporea a partire dal 20 Marzo 2020 presso tutti i Varchi carrabili del Porto di Trieste (Varco 4 e Varco 1 per il Punto Franco Nuovo, Varco 1 sul Punto Franco Vecchio, lo Scalo Legnami e il Porto Franco Olii Minerali) e di Monfalcone (dove vi è un solo Varco stradale di accesso). A occuparsi dell’importante procedimento sono state – in misura equamente distribuita – le imprese di fornitura di manodopera portuale di Trieste e Monfalcone, rispettivamente la ALPT e l’Impresa Alto Adriatico e la Cooperativa Servizi Portuali di Trieste. Su tale fronte non sono mancate difficoltà che a oggi – superate – possono intendersi come “normalmente prevedibili”, ma che allora hanno sistematicamente minacciato la riuscita efficace del processo: le temperature rigide al mattino e alla sera compromettevano la funzionalità dei termoscanner manuali e le forti giornate di bora delle ultime settimane di Marzo hanno reso eroico l’impegno dei Lavoratori avviati alla mansione di termometristi agli occhi di tutta la Comunità portuale.
Gestire un’emergenza che ha origini ancora oggi incerte, effetti letali purtroppo ben noti e numericamente drammatici, veloce rapidità di espansione e lunghi periodi di incubazione nel 80% dei casi del tutto asintomatici, ha inoltre costituito un fattore di forte sollecitazione dell’animosità di svariati gruppi di persone, fuori e dentro i confini del Porto. Tale fermento, a volte anche trascendente la legittimità, pur considerando il disorientamento sociale vissuto, ha portato in talune fasi a momenti di contenzioso anche duro e acceso in occasione di lavoro presso i vari Terminal, determinando prese di posizione e minacce alla sospensione delle attività. Da un lato c’è stato chi ha cavalcato l’onda dell’emotività complessiva acuendo timori pur comprensibili e fondati, dall’altra parte non c’è mai stata la serenità da parte di alcuno nell’affermare certezze che sistematicamente nei giorni successivi venivano smentite, poi confermate e poi ancora rielaborate dalla Comunità scientifica internazionale. Per tale motivo in queste fasi la linea assunta da AdSP MAO, dagli RLSS, dalle Rappresentanze dei Lavoratori e da parte dei responsabili degli avviamenti dell’Agenzia del Lavoro Portuale e delle Imprese Portuali è stata quella di mettersi all’ascolto, recepire il disagio, affrontare le istanze pervenute, capire le necessità e implementare le procedure non ancora interpretate nel modo più opportuno. Da tali momenti di confronto sono emerse giorno dopo giorno le ulteriori misure applicative di prevenzione al contagio da COVID 19 del Porto di Trieste e di Monfalcone, quelle che rendevano più efficaci i protocolli dettati a livello internazionale al contesto operativo delle Imprese portuali: la sanificazione periodica degli ambienti di lavoro a più alto flusso di persone, l’igienizzazione degli abitacoli dei mezzi d’opera a ogni cambio turno, la distribuzione delle mascherine anche alle mansioni per cui in una fase normativa intermedia non ne era ancora previsto l’obbligo, le messa a disposizione di gel igienizzante e guanti in lattice, la parcellizzazione degli accessi ai locali di interesse comune, trattamenti di profilassi di servizi igienici e spogliatoi.
Tra il 16 e 20 Marzo in una prima fase e tra il 09 e il 18 Aprile poi, sono state avviate sistematiche azioni di riscontro sul campo delle misure di prevenzione adottate “sul campo” da parte delle singole Imprese di servizi e di operazioni portuali di Trieste e di Monfalcone, coinvolgendo, soprattutto nella seconda fase, anche i cantieri navali, le agenzie di spedizioni e i depositi di merci di rilevanza più significativa.
Numericamente sono state eseguite oltre 90 verifiche ispettive mirate sui singoli requisiti della prevenzione alla diffusione dei contagi da COVID 19 presso i luoghi di lavoro in ambito portuale da parte del Nucleo Ispettivo di AdSP MAO e dagli Ufficiali di Polizia Giudiziaria dell’ASUGI. Da tali verifiche è stata riscontrata nella quasi totalità dei casi un pieno soddisfacimento dei requisiti essenziali e idonei previsti, rilevando solo in poche circoscritte situazioni carenze facilmente gestibili.
Oggi la curva di espansione del virus vede una crescita marginale negativa. Da poche settimane la funzione di diffusione ha perso caratteristiche di tipo esponenziale e la sua derivata prima è divenuta una costante con tendenza alla negatività.
Non è ancora tempo di stilare bilanci, in quanto è noto ed evidente che i focolai di diffusione sono ancora lungi dall’essere debellati e il novero delle vittime risulta drammatico. Tuttavia alcune riflessioni ad oggi possono già essere spese. I casi di positività tra lavoratori dei porti e loro “contatti stretti” si sono limitati a poche unità su una comunità che tra Trieste e Monfalcone vede una massa complessiva di circa 10.000 persone dia che accedono a tali scali per operazioni rese alle merci o per servizi complementari alle imprese che realizzano la logistica dei traffici. I fattori del successo e il conforto di tali numeri non saranno forse mai spiegati con analisi lineari e assolute. Sicuramente hanno inciso i vasti spazi di lavoro a disposizione della maggior parte degli utenti, l’operatività presso luoghi aperti per la percentuale maggiore dei lavoratori e si può anche constatare come l’età media degli utenti e dei lavoratori dei porti sia sicuramente di molto inferiore a quella delle fasce di popolazione mondiale maggiormente colpita.
A oggi il lavoro da svolgere in materia di prevenzione dal contagio da Coronavirus in porto non è finito. Rimangono da attuare – da un lato – le iniziative congiunte con gli RLSS, la Direzione Sanità della Regione FVG e ASUGI volte a pervenire a un protocollo di esecuzione dei tamponi rinofaringei che veda tempi di esecuzione particolarmente celeri per i Lavoratori portuali e loro contatti stretti, sulla scorta di quanto già attuato presso gli scali genovesi. Dall’altro lato vi è la gestione del mantenimento di elevati standard di sorveglianza presso le imprese portuali e i flussi di persone che accedono o transitano per i porti: se da una lato la curva gaussiana dei contagi in Italia vede la sua fase calante, i trend rilevati presso importanti nazioni di interscambio merci dello scalo giuliano sono ancora in crescita esponenziale (è il caso della Turchia), mentre altri paesi hanno curve di accrescimento geometrico, ma costante, che non lasciano intravvedere significativi segnali di arresto (è il caso dell’Iran).
Il caso nazionale della Cina insegna poi che non vanno trascurati i “rimbalzi” ovvero i casi di nuovi focolai determinati proprio dalla riapertura dei flussi di circolazione delle merci e delle persone tra Stati con presenza o meno di focolai più rilevanti di infezione. Sicuramente la “fase 2” – ancorché non già certificata – è iniziata. Ma da qui al raggiungimento di soglie di “accettabilità del rischio” il percorso è ancora molto lungo.”

Giovanni Civran, responsabile sicurezza dell’Autorità Portuale

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