«Grande è la ricchezza di un’epoca in agonia» scriveva Ernst Bloch. Forse
troppo per un fine anno, ma induce il senso della storia per capire il
presente. Per spiegarmi la fusione tra Peugeot e Fca ho guardato al Viaggio a Detroit di Beppe Berta. Per cercar di
capire l’ansia per il lavoro, primo problema per gli italiani, mi sono
letto Ritorno a Trieste libro dello storico Sergio
Bologna. Scritti di un over 80, che ha attraversato l’epoca, per poi tornare
nella sua città crocevia di una coscienza di luogo da Mittel Europa che
incontra la Via della Seta con il suo porto.
Temi grandi che rimandano allo spaesamento geoeconomico e geopolitico.
Trieste per il lavoro e per l’impresa non è Detroit, ma i saggi raccolti nel
libro sono utile archeologia di sapere per capire. Sia Berta che Bologna, uno
industrialista e l’altro operaista, sono partiti dalla Fiat, dalla composizione
tecnica del capitale per capire i mutamenti della composizione sociale
nell’epoca del fordismo e dell’operaio massa che non è più.
Proprio nel
rovesciamento del “non più” nel “non ancora” dell’oggi scava il libro di
Bologna. Amaro e duro verso le retoriche del tardo Novecento che hanno fatto
scivolare politiche e sindacato nell’astrazione del lavoro avvolto dalla
retorica della terziarizzazione felice. Perdendo così, la capacità di
rappresentare la condizione lavorativa e le forme concrete dei lavori. Tornando
al concreto, Bologna analizza il passaggio dalla catena del valore dell’operaio
multinazionale alla ragnatela del valore che incorpora sapere e tecnica nel
lavoro professionale dove non scompare alienazione, fatica, comando. Anzi,
arriva al “non ancora” del conflitto tra lavori concreti, gig economy e padroni
degli algoritmi dell’oggi. Il tutto con un racconto da antropologo di una
composizione sociale frammentata. Fa meraviglia il suo partire dal mitico ’68,
giustamente storicizzato non come rivoluzione per la presa del palazzo
d’inverno, ma come «rivoluzione in quanto ha affrontato la critica dei
paradigmi culturali e scientifici con i quali si formano le professioni».
Seguendo professioni e competenze prima con la conricerca in fabbrica, poi
per sua professione nella logistica e nelle reti, Sergio Bologna racconta la
fabbrica diffusa, la frammentazione e la precarizzazione del lavoro: il
capitalismo molecolare. Qui ho incontrato Sergio Bologna che ha insegnato, a
noi dei distretti, che il lavoro autonomo di prima generazione, evoluzione
postfordista dell’artigiania, era anche lavoro operaio concreto e diffuso da
continuare a cercare fabbrichetta per fabbrichetta nella città infinita delle
imprese a cielo aperto nella pedemontana lombarda e veneta con i suoi porti,
Genova e Trieste, che imbarcavano le merci nel produrre per competere nella
globalizzazione. Già nel lavoro di fabbrica aveva colto il “ruolo sociale dei
tecnici” per poi seguirli fuori nel farsi lavoratori della conoscenza, lavoro
autonomo di seconda generazione che proliferava nella città infinita della
conoscenza globale in rete a base urbana. Spalmati in quella logistica hard e
soft che muoveva merci scomponendo le antiche cooperative e mutue dei porti, i
camalli di Genova in molecole di facchinaggio, e la rete che metteva al lavoro
nel ciclo della conoscenza un esercito di partite Iva nel design, nella
creatività, nel marketing… nel lavorare comunicando. Da qui il suo impegno
militante in Acta (l’Associazione dei freelance) per vedere riconosciuti
diritti, ruolo, ai “nuovi lavori” cercando di dare coscienza di sé a quella
moltitudine raccontata come fantasmi e allegoria delle start-up per tutti con
pochi salvati, nelle alte tecnologie, e tanti sommersi. In questa perdita di
potere e di negoziazione di una composizione sociale, Bologna individua uno dei
driver principali della decadenza della classe media.
Censita nel ’900 da Sylos Labini ed oggi raccontata come simulacro di una
società signorile (Ricolfi) di massa come gig economy. Che si svela nel
dispiegarsi del lavoro autonomo di terza generazione messo al lavoro dal capitalismo
delle reti e dell’algoritmo con l’ “uberizzazione” o con Amazon e i ritmi dei
padroncini dei furgoni che ci consegnano la merce, che diventano biciclette che
consegnano pasti caldi a ceti medi impoveriti che sperano di recuperare la
rendita di un tempo tramite Airbnb nella gentrificazione digitale delle
città. Ritorno a Trieste è un messaggio in bottiglia per
una rivitalizzazione della rappresentanza verso le forme concrete dei lavori e
della vita materiale quotidiana per dare un senso all’economia della conoscenza
ed industria 4.0: quello del buon lavoro. Il libro termina con riflessioni
autobiografiche del giovane Bologna, nella Trieste della guerra e dei
nazionalismi. Un monito per la politica da quel porto Adriatico che ha l’Europa
alle spalle e davanti la Via della Seta. Un libro ancora da scrivere.
Aldo Bonomi bonomi@aaster.it
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