Per fare questo assieme a voi vi proponiamo tre articoli riassuntivi dello stato del dibattito e di quello che si muove in questa fine d'estate sul fronte dei porti:
Iniziamo da questo articolo di Massimo Minella su Repubblica che riassume i contenuti e il cronoprogramma della Riforma dei porti e della logistica.
Minella è un esperto di alto livello ma lo spazio di un articolo di Repubblica lo ha probabilmente costretto a ridurre i dati di riferimento al traffico container. Il ragionamento container - centrico in alcuni casi può risultare fuorviante nel ragionare sulle scelte da fare. non esiste solo il traffico container.
Meno burocrazia
al Nord e soldi pubblici al Sud l'Italia dei porti si rilancia
MASSIMO MINELLA
GENOVA. C'è un'Italia spaccata in due. È
quella dei porti italiani, che corrono al Nord e arrancano al Sud. Divisi alla
meta di una riforma attesa ormai da più di vent'anni. E in
mezzo c'è un governo che assicura interventi legislativi e soldi. Il fatto che questa volta le promesse dei ministri e dello stesso premier Matteo Renzi si possano concretizzare, a differenza di quanto accaduto dagli anni Novanta a questa parte, è legato a due passaggi istituzionali già andati in porto durante l'estate. Il primo riguarda l'approvazione, da parte del consiglio dei ministri, del piano della logistica e della portualità presentato dal titolare delle Infrastrutture Graziano Delrio, che lo aveva ereditato dal suo predecessore Maurizio Lupi. Presentato in consiglio e poi esaminato positivamente dalle commissioni di Camera e Senato, il piano è stato definitivamente licenziato dallo stesso consiglio e ora attende di concretizzarsi con una serie di azioni mirate. Il secondo elemento che induce a un (cauto) ottimismo è legato all'approvazione della legge Madia, sulla Pubblica Amministrazione, che delega al governo la definizione di una serie di azioni tese al rilancio di una portualità che attende ormai da troppo tempo di potersi confrontare con regole nuove. Piano e legge, insomma, si vanno a incrociare con il risultato che sarà a breve un decreto a intervenire su norme centrali quali la governance delle autorità portuali, l'alleggerimento della burocrazia sulle attività di controllo e di verifica della merce (procedure di sbarco e imbarco, sportello doganale) e sui dragaggi dei fondali. Norme solo all'apparenza tecniche, ma fondamentali per continuare a competere in un mercato quale quello marittimo, globale ancor prima che si ricorresse e si abusasse di questo termine. Sulla scena portuale, infatti, si stanno già affacciando navi in grado di trasportare fino a ventimila teu (l'unità di misura del container pari a un pezzo da venti piedi), giganti in grado di fare la fortuna di uno scalo, accettando di accostare alle sue banchine, o di abbatterlo, saltandolo per un'altra destinazione. Per questo, l'Italia ha bisogno di porti che nulla abbiano a che vedere con quanto accaduto finora, terminali di carico e scarico merci, colli di bottiglia in cui la merce arriva e, con estrema fatica, riparte per raggiungere la sua destinazione. Non è un caso che il governo Renzi abbia cominciato a usare altri termini, parlando di porti come "piattaforme logistiche" funzionali a servire al meglio il cammino della merce, capaci di legare al mare la strada o, ancor meglio, la ferrovia. Ma, si sa, non è (solo) con le parole che si cambiano situazioni così a lungo cristallizate come quelle dei porti italiani. Così nelle intenzioni del ministro Delrio c'è finalmente l'accorpamento delle authority, arrivate a 24 più per accontentare in passato la politica e dispensare poltrone, che per reali esigenze. Il futuro sarà quello delle authority "di sistema", che non dovrebbero essere più di 13-15.
mezzo c'è un governo che assicura interventi legislativi e soldi. Il fatto che questa volta le promesse dei ministri e dello stesso premier Matteo Renzi si possano concretizzare, a differenza di quanto accaduto dagli anni Novanta a questa parte, è legato a due passaggi istituzionali già andati in porto durante l'estate. Il primo riguarda l'approvazione, da parte del consiglio dei ministri, del piano della logistica e della portualità presentato dal titolare delle Infrastrutture Graziano Delrio, che lo aveva ereditato dal suo predecessore Maurizio Lupi. Presentato in consiglio e poi esaminato positivamente dalle commissioni di Camera e Senato, il piano è stato definitivamente licenziato dallo stesso consiglio e ora attende di concretizzarsi con una serie di azioni mirate. Il secondo elemento che induce a un (cauto) ottimismo è legato all'approvazione della legge Madia, sulla Pubblica Amministrazione, che delega al governo la definizione di una serie di azioni tese al rilancio di una portualità che attende ormai da troppo tempo di potersi confrontare con regole nuove. Piano e legge, insomma, si vanno a incrociare con il risultato che sarà a breve un decreto a intervenire su norme centrali quali la governance delle autorità portuali, l'alleggerimento della burocrazia sulle attività di controllo e di verifica della merce (procedure di sbarco e imbarco, sportello doganale) e sui dragaggi dei fondali. Norme solo all'apparenza tecniche, ma fondamentali per continuare a competere in un mercato quale quello marittimo, globale ancor prima che si ricorresse e si abusasse di questo termine. Sulla scena portuale, infatti, si stanno già affacciando navi in grado di trasportare fino a ventimila teu (l'unità di misura del container pari a un pezzo da venti piedi), giganti in grado di fare la fortuna di uno scalo, accettando di accostare alle sue banchine, o di abbatterlo, saltandolo per un'altra destinazione. Per questo, l'Italia ha bisogno di porti che nulla abbiano a che vedere con quanto accaduto finora, terminali di carico e scarico merci, colli di bottiglia in cui la merce arriva e, con estrema fatica, riparte per raggiungere la sua destinazione. Non è un caso che il governo Renzi abbia cominciato a usare altri termini, parlando di porti come "piattaforme logistiche" funzionali a servire al meglio il cammino della merce, capaci di legare al mare la strada o, ancor meglio, la ferrovia. Ma, si sa, non è (solo) con le parole che si cambiano situazioni così a lungo cristallizate come quelle dei porti italiani. Così nelle intenzioni del ministro Delrio c'è finalmente l'accorpamento delle authority, arrivate a 24 più per accontentare in passato la politica e dispensare poltrone, che per reali esigenze. Il futuro sarà quello delle authority "di sistema", che non dovrebbero essere più di 13-15.
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traffico container 2014 |
È in questo scenario che l'Italia dei
porti, penisola circondata da ottomila chilometri di costi che alle banchine ha
sempre guardato con interesse decisamente più modesto rispetto alle sue
potenzialità, si confronta con il suo futuro. Guardando appunto a un Nord che
cerca di resistere allo strapotere dei colossi europei (Rotterdam da solo vale
più che tutti i porti italiani messi insieme) con scali guida come Genova e La
Spezia e, in scala di traffici minori, l'Alto Adriatico, e un Sud in crisi, su
cui però il governo punta a investire proprio in un'ottica di rilancio. Non ci
sono alternative, da questo punto di vista, per non vanificare ad esempio
l'investimento pubblico di 450 milioni nel porto di Taranto o per continuare a
sostenere i progetti di Gioia Tauro, principale scalo nazionale sul fronte del
transhipment (il trasbordo del container dalla nave madre alle unità feeder
incaricate di redistribuire la merce in altri porti), o infine per dare una
risposta definitiva ai piani di rilancio di Napoli.
Sembrerebbe quindi venuto il momento
delle scelte, di un piano che finalmente non cerchi di accontentare a pioggia
un po' tutti, ma individui i punti di forza del sistema e investa dove
necessario, sia sulle banchine, sia nelle aree retroportuali. Decisiva, da
questo punto di vista, sarà la partita delle infrastrutture, con l'Italia
inserita sulle direttrici dei corridoi europei. Il decreto che potrebbe essere
presentato nelle prossime settimane punta proprio a individuare queste
priorità, cambiando anche le regole del gioco. Come quella della nomina dei
presidenti delle autorità portuali, affidata direttamente al governo
"sentito" il presidente della Regione. Continuerà così a salire, nei
prossimi mesi, il numero dei porti retti da un commissario (sono già otto). I
nuovi presidenti, infatti, verranno scelti dopo la nascita delle autorità di
sistema, dopo la scelta degli accorpamenti.
In questo articolo Nicola Capuzzo descrive i percorsi e le scelte della "merce" in controtendenza alle linee guida del ministero (?).
APM Terminals lascia
Gioia Tauro e ICTSI fa dietrofront su Taranto
Fuga
dai porti del Sud
Nel
primo semestre del 2015 sono cresciuti i traffici nei porti di destinazione
finale mentre il trasbordo dei
container sembra attraversare una grande crisi
I porti di destinazione finale (cosiddetti gateway) crescono, mentre quelli impegnati
nel trasbordo di container (transhipment)
stanno vivendo nel 2015 un altro anno di crisi. Lo dicono i numeri e gli
investimenti (o disinvestimenti) dei
maggiori gruppi terminalistici relativi
al primo semestre.
Le statistiche raccolte dal centro studi Confetra mostrano
che nel primo semestre dell' anno i porti di transhipment hanno fatto
registrare volumi movimentati in calo:
Gioia Tauro ha visto diminuire l'attività del 13,2% sullo stesso periodo 2014, Cagliari scivola dello 0,4%,
mentre Taranto addirittura non ha
imbarcato né sbarcato container.
Di converso I porti di destinazione finale se la passano
meglio: Livomo cresce addirittura del 37,5% e
Venezia di ben 1121,2%, Napoli é in aumento del 10,9% e Genova del 6,9%,
stabile La Spezia, mentre cala soltanto Trieste (- 6,9%).
La crisi dei porti del Sud Italia (fra i quali bisogna
comprendere anche Napoli, il cui terminai Conateco é da settimane vittima
di scioperi) emerge non solo dai numeri,
ma anche dalle scelte d'investimento delle multinazionali. Significativa in tal
senso é ad esempio la scelta del Gruppo Maersk, primo vettore mondiale nel
trasporto marittimo, di cedere la partecipazione del 33% nel Medcenter Container
Terminai di Gioia Tauro detenuta da 15 anni attraverso il braccio
terminalistico Apm Terminals. La società in una nota spiega che la scelta è
dettata semplicemente dal fatto che questa partecipazione di minoranza era
nella lista delle cose da vendere perché considerata non-core e che questa
dismissione consente alla società di concentrarsi su altre operazioni ritenute
più strategiche.
Ad esempio la nuova infrastruttura portuale in costruzione a
Vado Ligure (Savona) che i vertici del gruppo danese definiscono «il porto
italiano del futuro» perché «grazie agli oltre 17 metri di profondità potrà servire le navi portacontainer di
ultimissima generazione». Contestualmente all' addio a Gioia Tauro, infatti, Apm Terminals si é comprato
dalla famiglia Orsero (GF Group) il Reefer Terminai di Vado Ligure, infrastruttura portuale adiacente
alla nuova piattaforma in costruzione.
Maersk in materia di porti (e di linee marittime) ha le idee
chiare: puntare sui porti gateway riducendo al minimo il trasbordo. Ecco perché
punta tutto sul nuovo terminai da 800 mila Teu/anno di Vado Ligure e perché da
tempo sta cercando un presidio portuale nel quale investire anche in Nord
Adriatico (Trieste e Koper sono in cima alla lista della spesa).
Ma se Gioia Tauro può consolarsi con Contship Italia e Msc
che rimarranno azionisti dei terminai, Taranto è invece ancora alla disperata
ricerca di un investitore interessato a rilevare Il terminai dopo l'addio della
cordata formata da Hutchison, Evergreen e Gruppo Maneschi. L'unico gruppo
straniero che aveva aperto alla possibilità di puntare su Taranto era Ictsi, ma
dal vicepresidente della società terminalistica filippina arriva una doccia
fredda. Hans-Ole Madsen a MF Shipping&Logistica dice infatti:
«II porto di Taranto non ha comunicato pubblicamente le
proprie intenzioni, dunque è difficile poter valutare questa opportunità». Poi
aggiunge: «Taranto è un progetto molto difficile e il business sarebbe basato sul transhipment dal momento che il bacino di mercato
circostante è molto limitato. Strategicamente, però, Ictsi ha da tempo deciso di non investire in
terminai portuali dedicati esclusivamente al trasbordo di container».
Ergo: non
siamo più interessati. Un duro colpo per il terminal di trasbordo e una brutta
notizia per i porti del Mezzogiorno che il Governo Renzi e il Ministro dei
Trasporti, Giaziano Delrio, vorrebbe rilanciare ma che intanto sono alle prese
con cali dei traffici e gravi emergenze occupazionali.
NICOLA CAPUZZO
E per concludere questa visione d'insieme un articolo sul Poro di Gioia Tauro con la sua Zona Economica Speciale in progetto
Gioia Tauro: la Cina rallenta il futuro ora si gioca nel
retroporto
IL CALO DEI TRAFFICI CON L’ASIA SI FA SENTIRE SUI VOLUMI DEL TRANSHIPMENT
NEANCHE L’ALLARGAMENTO DI SUEZ PROMETTE RECUPERI NELL’IMMEDIATO.
LA SOLUZIONE È NEI NUOVI BUSINESS DA INSEDIARE NELL’AREA. E UNA SENTENZA PUÒ
VENIRE IN AIUTO Patrizia Capua Gioa Tauro
I volumi di traffico attesi si sono
arenati sulla muraglia della crisi cinese. L’impasse, tuttavia, non ha
scoraggiato Mct, Medcenter Container Terminal, l’anima terminalista di Gioia
Tauro, che fa capo al concessionario Contship Italia. Progetta il rilancio
dell’hub transhipment, dopo la cessione ufficializzata un mese fa da parte
della danese Maerks del suo 33,3%, confluito nella Csm Italia Gate, joint
venture paritaria tra la stessa Contship e una società collegata all’armatore
Gianluigi Aponte. Il timone di Gioia Tauro è ora in mano a Contship, che il 15
settembre festeggia i 20 anni di attività, e la guida è ancora più salda poiché
la Port Authority dello scalo commerciale è stata commissariata con delega pro
tempore al comandante della capitaneria, Davide Barbagiovanni Minciullo.
La
Msc, Mediterranean Shipping Company, di Aponte, cliente unico del porto di
Gioia Tauro, per il recupero autunnale contava sull’export dalla Cina, da cui
dipende la maggior parte dei volumi importati in Europa, invece l’indice è
sprofondato a meno 9%. E il terminal calabrese, dopo la crisi globale degli
ultimi anni, nel primo semestre del 2015 per effetto della riorganizzazione dei
servizi di linea, ha registrato un calo dei traffici del 13%. Medcenter
comunque ha un piano di investimenti triennale di 30 milioni di euro che
prevede tra l’altro l’ammodernamento della flotta degli straddle carrier, i
carrelli per lo stoccaggio dei container, il revamping di alcune gru che sono
22, di cui 9 per le navi giganti, le uniche operative in Italia, e i sistemi di
videosorveglianza per il controllo in remoto delle operazioni. Il progetto
riguarda poi i dragaggi, per portare tutti i fondali da 16 a 18 metri. Intanto
però la crisi si sente. C’è meno lavoro e in agosto i lavoratori del porto di
Gioia Tauro hanno fermato i mezzi e incrociato le braccia.
Sono circa 3.000
quelli impiegati sulle banchine, tra fissi e di ditte esterne autorizzate, e
400 gli esuberi. Chiedono che l’azienda investa e porti più traffici allo scalo
della Piana. «Anche noi vogliamo fare più business », replica Domenico Bagalà,
amministratore delegato di Mct, calabrese di Vibo Valentia, 48 anni, ingegnere
civile. « L’attrazione di investimenti esteri diretti è la chiave dello
sviluppo», dice Bagalà. Tra i progetti mai attuati, per esempio, c’è la Zes,
Zona economica speciale, un’area franca limitata nel tempo da attuare nei 700
ettari urbanizzati del retro porto. È già operativa in 12 paesi in Europa,
compresi Portogallo e Spagna. Dal governo in questa direzione è arrivato un
segnale positivo e c’è anche il Piano nazionale della logistica che per la
Calabria prevede un’unica autorità portuale. Intanto qualcosa si muove.
Un
fondo americano, Lcv Capital Management, ha intenzione di fabbricare tra Gioia
Tauro (nelle aree dell’ex Isotta Fraschini) e Bari l’auto del futuro. Ma ci
sono altre novità. A sbloccare nuovi investimenti contribuirà anche la chiusura
di un annoso contenzioso giudiziario: il tribunale di Reggio Calabria ha
chiarito che gli spazi dello scalo di Gioia Tauro sono dell’Autorità portuale e
non del Consorzio per lo sviluppo industriale. Ed è una sentenza importante
perché tranquillizza gli investitori, prima timorosi di controversie. Intanto
però il primo obiettivo di Mct è mantenere i collegamenti navali, che uniscono
Gioia Tauro con 120 porti nel mondo.
«Se non preservi il transhipment – spiega
l’ad di Mct- non puoi sviluppare una politica industriale nel retro porto. Ma
Gioia Tauro deve diventare anche un nodo di distribuzione per il Centro Sud:
parliamo di quattro regioni con 16 milioni di abitanti. C’è da attuare misure
urgenti. Molte delle quali chieste da anni. Eliminare la tassa di ancoraggio,
anzitutto: non siamo in concorrenza con altri porti italiani perché Taranto ha
chiuso, ma gli altri scali fuori dall’Italia o l’imposta non ce l’hanno, oppure
la hanno in misura ridottissima. Basta il confronto con Malta o Port Said: noi
produciamo a costi europei e vendiamo a costi africani». Infine c’è il peso
delle accise sui mezzi che operano all’interno del terminal e quello del costo
del lavoro.
Si attende una risposta alla richiesta di incentivi al trasporto
merci, per realizzare a Gioia Tauro il gateway per il traffico ferroviario. Nel
2008 dal porto partivano 3000 treni all’anno carichi di container, ma con la
crisi le Ferrovie hanno smesso di investire sul cargo. Ora Renzi sembra voglia
ripartire, anche se sono necessari interventi sulla rete per agevolare il
passaggio dei convogli con i container nelle gallerie. Così come Contship si dice
pronta a organizzare i treni per Bari necessari al trasporto dei componenti per
l’auto progettata dagli americani di Lcv. Gioia Tauro entra così in una fase
calda.
Msc, unico cliente, non può bastare da solo. Anche se fa la sua parte:
ha costituito in gennaio 2M, una società con la danese Maersk per operare sulle
rotte Asia e Nord America, movimentando 5 milioni di teus di capacità. «Insomma
– osserva Bagalà - qui abbiamo un’alleanza mondiale. E il nuovo canale di Suez
renderà ancora più conveniente questa rotta. L’offerta di stiva crescerà perché
nei prossimi cinque anni arriveranno le navi più grandi. Ma la crisi cinese può
vanificare tutto questo. E per farcela dobbiamo puntare sui nuovi business».
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