sabato 3 agosto 2019

UN PEZZO DI STORIA SIDERURGICA ITALIANA ILVA TARANTO






Vi segnaliamo questo articolo molto accurato sulla storia dell'ILVA di Taranto : da leggere e archiviare.




Acciaio, lavoro e fumo
       Bruno Settis        Salvatore Romeo
                                                                                                           2 Agosto 2019
L'Ilva di Taranto è stata prima il simbolo delle partecipazioni statali, poi del fallimento delle privatizzazioni infine il centro dello scontro ambientale tra fabbrica e città. Un libro ne ripercorre la storia dal 1945 a oggi
Lo stabilimento siderurgico di Taranto è stato emblema delle partecipazioni statali prima, delle privatizzazioni e del lorofallimento poi. Dal sequestro del 2012, la sua sorte è al centro del dibattito pubblico: ma le soluzioni fragili e miopi tentate dai governi degli ultimi anni non sono bastate a rispondere all’intrico di emergenza ambientale, occupazionale e di politica industriale, di sicurezza sul lavoro. È stata quest’ultima la miccia che ha acceso gli scioperi di luglio, arrivando vicino a spegnere gli impianti. Per comprendere i nervi scoperti, i conflitti e la posta in gioco di oggi, bisogna ripercorrere la storia dell’Italsider, dell’Ilva, del rapporto con l’economia italiana e con la città di Taranto. Lo facciamo con un’intervista a Salvatore Romeo, storico dell’economia e dell’industria e autore di L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi (Donzelli 2019).
Il tuo libro L’acciaio in fumo spiega bene ragioni, strategie e traversie della nascita del polo siderurgico di Taranto. Il racconto e l’analisi si svolgono su diversi piani: la città e il territorio, l’industrializzazione della regione, la crescita impetuosa dell’economia nazionale, nel quadro dinamico della cooperazione europea e dei mercati mondiali. Qual è stato il ruolo dello stabilimento di Taranto nello sviluppo della siderurgia del dopoguerra nel fornire, come intitoli il secondo capitolo, «acciaio per il boom»?
Direi che è stato un ruolo fondamentale. Taranto nasce come il più grande centro siderurgico del paese, e insieme il più avanzato tecnologicamente. Per coglierne l’importanza – e comprendere a fondo le ragioni che portarono alla sua realizzazione (1960-64) e, dopo pochi anni (1970-74), al «raddoppio» – si deve considerare che per tutti i cosiddetti «trenta gloriosi» l’Italia esprime una dinamica dei consumi siderurgici più vivace rispetto al resto dei paesi Ceca (poi Cee), presentandosi come uno sbocco interessante per le siderurgie comunitarie alle prese con mercati più maturi. I responsabili della politica economica e gli stessi produttori d’acciaio (allora in buona parte raccolti sotto l’ombrello di Finsider, la finanziaria di settore dell’Iri) si trovano dunque sistematicamente di fronte alla necessità fronteggiare il crescente fabbisogno di laminati e, al contempo, contrastare la pressione della concorrenza estera. Taranto gioca un ruolo decisivo in questa partita.  
Come si riverberano su Taranto le «grandi trasformazioni» dell’economia non solo italiana, ma anche mondiale, tra anni Sessanta e anni Settanta? 
In quel tornante inizia a emergere la crisi del meccanismo di sviluppo di ispirazione keynesiana adottato in Occidente nel secondo dopoguerra. Soddisfatto un certo livello di bisogni, la propensione al consumo va contraendosi, provocando la flessione della domanda aggregata. La siderurgia è molto sensibile a queste dinamiche, e già alla fine degli anni Sessanta nell’area Cee si delinea una crisi di «sovracapacità» produttiva (cioè un eccesso strutturale di offerta rispetto alla domanda). Il caso italiano è in parte diverso, come ho detto prima. Il nostro paese, partendo da posizioni più arretrate, continua a esprimere una dinamica economica più sostenuta, che sollecita la pressione della concorrenza estera. Questa situazione viene esasperata dalla crisi di metà anni Settanta. Dopo un crollo repentino, la domanda interna di acciaio torna a crescere a ritmi più rapidi che nel resto d’Europa: gli impianti appena entrati in funzione – in particolare quelli di Taranto – devono fronteggiare una competizione fortissima, fra l’altro in un contesto interno contrassegnato da un’intensa conflittualità sociale.
Nel corso della parabola dell’Ilva, muta l’atteggiamento, e direi anche il ruolo oggettivo, del sindacato, in particolare di quello cui dedichi più attenzione – la Fiom. Dopo anni di repressione, l’esplosione di conflittualità del 1969 manifesta un mutamento profondo dei rapporti di forza, che si evolve via via in una partecipazione del sindacato alle discussioni sulle politiche aziendali, ma anche una condivisione del peso delle responsabilità nelle crisi che si susseguono a partire dagli anni Settanta. Che giudizio possiamo dare di questa vicenda e che eredità lascia alla situazione attuale?
Il ruolo e la posizione del sindacato muta chiaramente sulla base dell’evoluzione dei rapporti di forza. A un primo momento caratterizzato da bassa conflittualità fa seguito, dall’inizio degli anni Settanta, una radicalizzazione del movimento operaio. Con il «raddoppio» entrano in fabbrica molti giovani che avevano vissuto la contestazione di fine anni Sessanta ed emerge con urgenza il tema della sicurezza, soprattutto nell’appalto. L’iniziativa sindacale si articola soprattutto intorno a due temi: il controllo operaio sull’organizzazione del lavoro e la diversificazione del tessuto produttivo locale. Quest’ultimo è l’obiettivo perseguito nella lunga vertenza per il ricollocamento dei lavoratori dell’appalto espulsi dopo la conclusione del «raddoppio» – la cosiddetta «vertenza Taranto». Si cerca di spingere Italsider a favorire la nascita di un indotto autonomo dal siderurgico. L’obiettivo è rendere quest’ultimo un fattore di sviluppo dell’economia locale, superando l’atteggiamento strumentale con cui l’azienda si era rapportata fino ad allora al contesto circostante. Tuttavia la tempesta che sconvolge la siderurgia europea negli anni Ottanta obbliga Finsider a concentrarsi sulla ristrutturazione, e lo stesso sindacato è costretto a «disciplinarsi». Nell’arco di poco più di un decennio vengono espulsi – tramite prepensionamenti – circa 10mila lavoratori, con conseguenze inevitabili sui rapporti di forza. Ma il colpo decisivo arriva con la privatizzazione. I Riva realizzano un drastico turn overdella manodopera, che in pochi anni porta in fabbrica lavoratori giovanissimi assunti con contratti a termine e sottoposti da subito a un «imprinting» che mira a farne soggetti subalterni; contestualmente, le figure intermedie – gli impiegati e, soprattutto, i tecnici – vengono irreggimentate. Il sindacato è tagliato fuori, e solo col tempo riuscirà a scavarsi una nicchia. Si forma una comunità aziendale caratterizzata dalla subalternità dei lavoratori e da una sostanziale estraneità rispetto al contesto. Sono questi presupposti a conferire alla vertenza ambientale che si aprirà con il nuovo millennio l’aspetto di uno scontro fabbrica/città.
Nel panorama desolante delle privatizzazioni degli anni Novanta, quella dell’Ilva spicca come un caso particolarmente disastroso. Colpa senz’altro dell’atteggiamento predatorio dei Riva, ma inscrivibile nella più generale logica della dismissione dell’industria pubblica. Tu parli di «esaurimento della formula delle “partecipazioni statali”», ovvero del «rapporto dialettico fra performance aziendali e perseguimento di obiettivi generali», due linee entrate in contraddizione a partire dalla crisi degli anni Settanta (crisi economica e crisi del settore siderurgico in tutta Europa, ma anche scoperta della crisi ambientale). Puoi spiegarci questo passaggio, anche alla luce del recente ritorno delle nazionalizzazioni – perlopiù retorico – nel dibattito pubblico italiano?
Negli anni Cinquanta si apre un intenso dibattito sul ruolo delle partecipazioni statali, che punta a introdurre elementi di indirizzo politico nella gestione di imprese che erano a tutti gli effetti operatori di mercato – sebbene controllati da enti pubblici. L’obiettivo che una parte delle classi dirigenti dell’epoca si pone è modificare il meccanismo di sviluppo dell’economia italiana, che produceva spontaneamente la dilatazione degli squilibri fra Nord e Sud. L’impresa pubblica avrebbe dovuto agire in questa direzione, localizzando nel Mezzogiorno robusti investimenti. Le resistenze di una parte dei manager pubblici vengono superate con un compromesso: la politica indica alcuni interventi ritenuti prioritari – e mette a disposizione strumenti finanziari e giuridici per perseguirli –, mentre le aziende mantengono il pieno controllo degli aspetti propriamente industriali. Questo equilibrio emerge per la prima volta proprio con la costruzione del siderurgico di Taranto. Finsider accetta di realizzare il suo quarto centro a ciclo integrale nel Mezzogiorno, ma inscrive l’investimento nella strategia di penetrazione dei mercati del Centro-Nord che andava perseguendo dal dopoguerra. La prospettiva del siderurgico come fattore propulsivo per lo sviluppo del Sud viene dunque superata nei fatti. Le politiche varate alla fine degli anni Cinquanta non alterano nella sostanza il meccanismo di sviluppo dell’economia italiana: esse ottengono un’«integrazione subalterna» di alcune zone del Mezzogiorno all’interno di quella dinamica. Ne deriva un’intensificazione degli squilibri che porta, alla fine del decennio, al rilancio del ruolo propulsivo delle partecipazioni statali. Da una parte, i governi di centro-sinistra provano a espandere la presenza dell’industria nel Sud con nuove iniziative. Dall’altra, sono le stesse imprese pubbliche a intensificare gli investimenti nel Mezzogiorno, avviando una tendenza che di lì a poco coinvolgerà anche operatori privati. Al Sud si guarda con interesse per gli incentivi pubblici, ma anche perché sembra estraneo alle tensioni sociali e politiche che attraversano il Centro-Nord. Il processo di industrializzazione si diffonde così ad aree e settori che fino ad allora ne erano stati esclusi. Ma man mano che la loro presenza si estende, le partecipazioni statali diventano i terminali privilegiati delle istanze di sviluppo che emergono dai contesti locali. Sono soprattutto il movimento operaio e la sinistra a farsi portatori di questa prospettiva. Questa tendenza si intensifica con la crisi di metà anni Settanta: mentre i gruppi privati abbandonano il Mezzogiorno si chiede uno sforzo crescente alle imprese pubbliche, pure in gravi difficoltà economiche. La tensione fra «economicità» e «obiettivi sociali» che aveva caratterizzato fino ad allora l’attività delle partecipazioni statali inizia così a farsi sempre più stridente, e la sinistra finisce col trovarsi in una posizione tragica. Intorno a questo nodo va definendosi un’opzione liberista. È emblematico, da questo punto di vista, lo scontro che si consuma nel 1977 fra Pietro Armani, direttore generale dell’Iri, e Pasquale Saraceno, uno dei protagonisti della storia dell’interventismo pubblico e dello sviluppo dell’industria nel Sud, sulla realizzazione di un nuovo siderurgico a Gioia Tauro. A Saraceno, che sosteneva la necessità dell’investimento per ragioni sociali, Armani ricordava che le partecipazioni statali non erano imprese nazionalizzate, e quindi non erano tenute ad assumersi «oneri impropri». L’argomentazione di Armani – che prospettava di fatto un ritorno alla formula originaria delle partecipazioni statali – si fa strada in un paese che si trova ad affrontare una situazione economica molto delicata (instabilità finanziaria, alta inflazione, perdita di competitività di molti settori). La stessa sinistra politica e sindacale assume quell’indirizzo, con l’auspicio di riuscire a tenere insieme risanamento e rilancio delle imprese pubbliche. Ma la ridefinizione del quadro macroeconomico – la rivalutazione del cambio che fa seguito all’ingresso dell’Italia nello Sme e la politica di alti tassi d’interesse praticata dalla Banca d’Italia – renderanno quanto mai arduo il perseguimento di quell’obiettivo. Il risanamento si tradurrà di fatto in una progressiva dismissione, divenuta precipitosa con la crisi di inizio anni Novanta. 
Il libro mostra efficacemente come la tensione tra istanze di salvaguardia dell’ambiente e della salute e sicurezza dei lavoratori, quella dell’occupazione, e gli obiettivi aziendali sia un tratto caratterizzante di tutta la storia dell’Ilva, ed esplode negli anni Settanta. La contrapposizione frontale tra regole e istituzioni sanitarie e ambientali da una parte, azienda e politica dall’altra, sembra corrispondere proprio all’esaurimento di quella formula. Articolare un discorso che coniughi questione ambientale e difesa dei posti di lavoro è diventato molto difficile nell’attuale contesto, e ormai quando si pensa a Taranto è quasi scontato pensare agli scempi del territorio e alle morti per tumori causate dal siderurgico. In questa narrazione non trova posto una riflessione sul ruolo storico che hanno giocato i poli industriali nello sviluppo dell’economia meridionale. Difendere i pochi presidi industriali rimasti nel tessuto produttivo del Sud Italia diventa perciò un’operazione che rischia di risultare poco spendibile nell’agone politico. Intravedi qualche via d’uscita?
Dobbiamo prendere atto di un elemento: la funzione e le caratteristiche dei poli industriali meridionali è cambiata nel corso del tempo. Non si può parlare oggi del siderurgico di Taranto o della fabbrica di automobili di Pomigliano come se ne sarebbe parlato negli anni Settanta, cioè immaginando per quelle unità un ruolo propulsivo per il Mezzogiorno o anche per le rispettive aree di insediamento. Oggi quegli stabilimenti rappresentano, in molti casi, nodi di articolazioni industriali multinazionali, che condividono molto poco coi contesti territoriali su cui insistono – e in nessun modo una comune prospettiva di sviluppo. Per mezzo di quelle strutture le comunità locali sono esposte agli andamenti del mercato globale praticamente senza mediazioni; viceversa, la loro capacità di incidere nel rapporto con attività produttive spesso cruciali per le rispettive economie è minima. È una relazione fortemente asimmetrica, che alimenta un malessere profondo. Di fronte a questa situazione le classi dirigenti meridionali e nazionali reagiscono immaginando per il Sud una prospettiva di sviluppo tutta incentrata sugli elementi in assoluto più «territorializzati»: agricoltura e turismo, in primis. Ma in questo modo si alimenta un circolo vizioso che porta il Mezzogiorno ad attestarsi ai livelli più bassi della divisione internazionale del lavoro, con conseguenze drammatiche sul piano sociale.  
Nelle pieghe di questa tensione affondano anche le radici del Movimento 5 Stelle nel tarantino. Come sono cambiate la retorica, la base militante, la linea dalle prime uscite pubbliche degli Amici di Beppe Grillo nel 2007 all’odierno ministero Di Maio?
Il Movimento 5 Stelle tarantino conosce una prima significativa svolta nel 2012, dopo la «lunga estate calda» dei sequestri. Da quel momento assume la questione Ilva come punto centrale della sua iniziativa politica e stabilisce un legame sempre più stretto con i movimenti emersi in quella fase, in particolare il «Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti». Questo rapporto diventa organico in occasione delle elezioni amministrative del 2017, quando i «liberi e pensanti» riescono a imporre un proprio uomo (Francesco Nevoli) come candidato sindaco del Movimento. La rottura si consuma lo scorso anno, quando i liberi e pensanti denunciano il «tradimento» di Di Maio per non aver chiuso la fabbrica e abbandonano il Movimento, mentre i parlamentari ionici eletti nei 5 stelle restano fedeli al governo. Fin qui la cronaca politica, che mostra come la questione Ilva sia stata decisiva nell’evoluzione del Movimento a Taranto. Tuttavia se si guarda ai risultati elettorali i 5 stelle conseguono un exploit alle politiche del 2018 (48%), quando la campagna elettorale è meno legata alle questioni locali, mentre alle amministrative dell’anno precedente – in cui la questione Ilva l’aveva fatta da padrona – raggiungono appena il 12%; di contro, alle ultime europee – al netto di un tracollo in termini percentuali e di voti assoluti – il Movimento si è confermato primo partito in città (col 25%), raccogliendo consensi soprattutto nei quartieri popolari (compreso Tamburi, il rione in cui è localizzato l’impianto industriale), nonostante il contestatissimo accordo sull’Ilva. La posizione sullo stabilimento ha quindi rappresentato un forte elemento di identificazione per il gruppo dirigente locale, ma molto meno un catalizzatore di consenso.
L’Ilva di Taranto è stata definitivamente integrata nel cartello internazionale dell’acciaio Arcelor Mittal alla fine dell’anno scorso. Cosa implica questo passaggio per il sistema industriale italiano nel suo complesso?
L’acquisizione di Taranto da parte di Arcelor Mittal – il principale produttore siderurgico del mondo – va letta tenendo conto della crisi in cui si dibatte la siderurgia a livello globale. Le imprese reagiscono cercando di rafforzare il loro potere di mercato: intensificando fusioni e acquisizioni e premendo sui governi per ottenere protezioni. Si prospetta dunque la formazione di oligopoli in grado di condizionare in maniera decisiva l’offerta di beni strategici. È una tendenza che si è già affermata negli Usa e che sta emergendo anche nell’Unione Europea. Qui assistiamo a una crescente predominanza di Arcelor Mittal: i suoi principali concorrenti, ThyssenKrupp e Tata Steel, non sono riusciti a completare la loro fusione per l’opposizione della Commissione Europea e oggi si trovano in grosse difficoltà; quel che resta della siderurgia inglese è alla bancarotta; gli altri gruppi sono di portata inferiore. A ciò si aggiungono le pressioni sulla Commissione perché intensifichi le misure protezionistiche verso la concorrenza extracomunitaria. A fare le spese di tutto questo sarebbero soprattutto i consumatori più deboli, fra cui molte imprese italiane. Ma c’è un altro elemento che merita di essere menzionato. Per Arcelor Mittal lo stabilimento di Taranto è solo uno fra i tanti della sua galassia multinazionale (e, ad ora, il meno remunerativo). Impianti e manodopera saranno quindi gestiti in maniera più flessibile che in passato. I 1.400 lavoratori messi in cassa integrazione di recente sono un primo assaggio di cosa questo significhi. Tale vicenda mostra inoltre che dalla nuova configurazione assunta dal siderurgico discendono anche rapporti di forza più favorevoli all’azienda.
La morte del gruista Cosimo Massaro lo scorso 10 luglio ha innescato una protesta che, dalla questione della sicurezza del lavoro, si è estesa alla messa in discussione delle sorti dell’azienda e dei suoi lavoratori. Fiom, Fim e Uil hanno inizialmente convocato uno sciopero, revocandolo però poche ore dopo, mentre Usb ha mantenuto la mobilitazione. Qual è la situazione ora?
Direi che è una situazione di stallo, in cui i nodi veri restano al pettine: su tutti, la volontà di Arcelor Mittal di valorizzare il sito di Taranto. Su questa prospettiva gravano una serie di incognite politiche. Da una parte, c’è il tentativo del Movimento 5 stelle di recuperare credibilità con una serie di iniziative sul piano ambientale: il riesame dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), l’adozione di una valutazione preventiva del danno sanitario, la revisione in senso restrittivo della cosiddetta «immunità penale». Dall’altra c’è l’azienda, che ha già denunciato l’insostenibilità di almeno alcune di queste novità. Si è aperta dunque una partita politica in cui la posizione del Movimento è debole, poiché la Lega è schierata nettamente dalla parte della multinazionale. Le iniziative dei 5 Stelle appaiono dunque velleitarie, anche perché Di Maio e i suoi non hanno la forza per prospettare un piano B nel caso Mittal decidesse di farsi da parte. C’è da segnalare, al contempo, un’importante (e inattesa) novità: la grande mobilitazione dei lavoratori in occasione sia dell’apertura della cassa integrazione che della morte di Massaro. Si sono raggiunti livelli altissimi di adesione agli scioperi e, in quello del 10 luglio, si è andati molto vicini allo spegnimento completo degli impianti. È probabilmente un segnale dell’insofferenza dei lavoratori. D’altra parte, nell’attuale situazione di incertezza, il sindacato deve anche stare molto attento alle sue mosse: un’esasperazione del livello dello scontro potrebbe favorire l’eventuale strategia di dismissione da parte di Mittal.
Come possiamo giudicare, per il momento, l’intesa appena raggiunta tra Di Maio, Arcelor Mittal, i commissari straordinari e i sindacati (Usb esclusa)?
È un accordo che riguarda essenzialmente la sicurezza, prospettando un piano di interventi straordinario. Per il momento si stanno tenendo degli incontri sugli impianti per individuare le situazioni di criticità; dovrebbe seguire la definizione degli investimenti. Ma tutto dipenderà dall’esito della partita più generale di cui ho detto sopra.  
*Salvatore Romeo ha conseguito il dottorato in Storia economica all’Università di Verona nel 2014 e si occupa di storia dell’industria e dell’ambiente. È curatore della raccolta di scritti di Alessandro Leogrande, Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale (Feltrinelli 2018), e di ricerche sulla siderurgia italiana e il polo di Taranto, sino al libro L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi (Donzelli 2019). Bruno Settis è autore di Fordismi. Storia politica della produzione di massa (il Mulino 2016) e ricercatore alla Fondazione Einaudi di Torino.

Nessun commento:

Posta un commento