Il 28 e 29 novembre si è
tenuto a Tbilisi, la capitale della Georgia, il ‘Belt and Road Forum’. L’
incontro, che segue quello avvenuto a Pechino nel maggio
2017, manifesta la volontà di questo paese post-Sovietico di affermarsi come
punto di snodo chiave nello sviluppo della ‘Nuova Via della Seta’.
Il progetto,
annunciato dal presidente cinese Xi Jinping nel 2013, prevede la costruzione di
vari corridoi di transito tra la Cina e il mercato europeo. Il governo cinese
prevede per il 2030 un traffico del valore di 24 trilioni di dollari ed è
impegnato in uno sforzo infrastrutturale del tutto straordinario: fino ad oggi,
infatti, è già stato stanziato quasi un miliardo di dollari per lo sviluppo
delle strutture necessarie ad attivare i vari corridoi.
L’estensione, le rotte e
l’impatto territoriale di questo progetto sono ancora in discussione. Il Belt
and Road Forum ha dunque ospitato per due giorni le speculazioni, le previsioni
e le performance che caratterizzano l’espansione di questa immensa rete
logistica.
Gli sviluppi economici e
infrastrutturali della Georgia presentati durante il Forum inducono a
riflettere su alcune delle caratteristiche ricorrenti nei discorsi che li
accompagnano. Di queste, si può innanzitutto notare la fondamentale assenza – o
meglio la spettralità – di due elementi centrali per lo sviluppo della
logistica: la forza lavoro e la geopolitica.
L’omissione, ripetuta e ribadita,
di questi due vettori chiave caratterizza i discorsi dei vari partecipanti al
Forum, sia dei rappresentanti di corporazioni che dei governi e delle
istituzioni presenti. L’attenzione a questo genere di omissioni può offrire, a
mio parere, una prospettiva sulla natura profonda delle connessioni globali
nell’era delle collaborazioni tra pubblico e privato.
Questa spettralità è
manifesta in primo luogo a livello materiale. L’incontro si svolge, infatti,
nei saloni del nuovo albergo a 7 stelle di proprietà degli Emirati Arabi Uniti,
il Biltmore Hotel. Questo albergo, inaugurato nel 2016 è stato costruito
all’interno del palazzo che fino alla rottura dell’Unione Sovietica ospitava
l’istituto per il Marxismo-Leninismo. La facciata del palazzo, lasciata intatta
a seguito delle accese proteste da parte di vari gruppi di conservatori
georgiani, conserva lo stile dell’architettura di epoca stalinista fatta di
pomposi colonnati neoclassici in granito. Tutto tipico tranne che per l’assenza
di ogni simbolo comunista, accuratamente raschiato, da questa come da quasi
tutte le altre superfici della città. Oltrepassata la facciata, però, nulla
rimane dell’istituto: l’interno è stato completamente svuotato e sostituito con
un grattacielo di trentadue piani che svetta sulla città, circondato dalla
cornice neoclassica. Quale potrebbe essere uno scenario migliore per
l’inaugurazione del nuovo futuro logistico di questo paese post-Sovietico della
tomba profanata di Marx e Lenin?
Presenti agli incontri ci
sono rappresentati di diversi governi, Georgia, Cina, UAE, Iran, Ucraina,
Moldavia, Slovacchia, Slovenia, Turchia, Kazakistan, Azerbaijan, e istituzioni
internazionali, Banca d’Investimento Europea, Commissione Europea per i
Trasporti, Banca Europea per lo Sviluppo e la Ricostruzione, Banca Asiatica per
lo Sviluppo, Organizzazione Mondiale per il Commercio, Banca Mondiale, oltre
che rappresentanti delle compagnie pubbliche e private con interessi già
definiti nei progetti della Nuova Via della seta: BP, Anaklia Development
Consortium, HuaLing, le Ferrovie azere, georgiane e kazake, Nenska Hydropower,
Silk Road Group e la compagnia di block-chain Bitfury Group, spiccano tra i
tanti.
Oltre a posizionare la
Georgia al centro della mappa della Nuova Via della Seta, il Forum offre una
piattaforma per sviluppare accordi tra gli investitori e le compagnie presenti.
Se il primo giorno è stato dedicato a discussioni più o meno teoriche sul
significato, le potenzialità e le sfide della Nuova Via della Seta, il secondo
giorno è risultato invece uno showcase delle diverse opportunità d’investimento
nell’ ambito delle infrastrutture georgiane e le loro potenzialità in termini
di connettività con i paesi e corridoi limitrofi.
La Georgia si presenta,
dunque, come modello per la nuova connettività globale. Quali sono, però,
esattamente gli strumenti per raggiungere questa invidiabile posizione?
Il ministro dell’economia
sostenibile Dimitry Kumisishvili li riassume così nel suo intervento.
Per parlare di connettività
appare chiaro come le infrastrutture siano il punto di partenza. Queste, ad
oggi, sono quasi del tutto assenti sul territorio georgiano ma nel 2016 il governo
ha lanciato un piano
spaziale che prevede 3,5 miliardi di dollari in investimenti volti a
velocizzare il transito. Il piano prevede per il 2020 la costruzione di due centri
per la logistica alla periferia di Tbilisi e Kutaisi, 550 km di autostrade e un
potenziamento della rete ferroviaria che permetterà di connettere il centro del
paese con la costa del Mar Nero.
L’investimento più ambizioso si trova proprio
lì, al confine con la regione separatista dell’Abkhazia, dove il governo, in
partenariato con la compagnia privata Anaklia Development Consortium, ha già
avviato la costruzione di un porto in acque profonde, capace di ospitare i
vascelli Post Panamax e di gestire un transito di 100 milioni di tonnellate di
cargo per il 2015.
Già pronto è, invece, il treno merci Baku-Tbilisi-Kars, in
progettazione dal 2007, che vede la collaborazione tra la Georgia e i suoi
stati limitrofi Azerbaijan e Turchia.
Dalla panoramica fornita dal
ministro emerge però che queste infrastrutture materiali future vengono in
secondo piano rispetto alla rete di ‘infrastrutture soft’ a beneficio degli
investitori che il paese ha sviluppato nei suoi 25 anni d’indipendenza.
A detta della Banca Mondiale,
nessun altro paese è riuscito a implementare un portfolio di riforme per
favorire il libero scambio così ampio e in così breve tempo.
Questo ha
garantito al paese il nono posto nella classifica del World
Bank Doing Business Report per le agevolazioni nella realizzazione
di affari. I parametri di questa classifica, elencati non solo dal ministro
georgiano ma anche dalle varie compagnie che hanno stabilito i loro centri in
Georgia, sono vari. Primo di tutti la rapidità con cui si possono aprire,
registrare ed attivare aziende nel paese: questo è dovuto alle riforme
implementate dal precedente governo guidato da Mikhail Saakashvili. Nei 10 anni
del suo governo, infatti, Saakashvili, la cui visione neoliberale sembra essere
portata avanti dal governo attuale nonostante la loro storica opposizione, ha
snellito la burocrazia georgiana. Con lo scopo di attrarre investitori
stranieri e privatizzare l’ampio patrimonio pubblico ereditato dall’Unione
Sovietica, Saakashvili ha eliminato ogni tipo di licenza e concentrato in un
unico centro tutte le questioni legate agli affari. Una volta stabilita
un’attività il sistema
tributario georgiano garantisce l’abolizione della tassa sui profitti
alle aziende che reinvestono nel paese e favorisce le speculazioni immobiliari
con una tassa del 1% sulla proprietà.
Queste riforme hanno
garantito al paese il tredicesimo posto nella lista compilata dalla Heritage Foundation sulla
libertà economica.
Un altro fattore citato come
fondamentale per il ‘successo’ georgiano è la debolezza
dello statuto del lavoro. Questa intrinseca debolezza viene definita nelle
varie presentazioni come ‘competitività del forza lavoro’ grazie alla quale non
è previsto un salario minimo e c’è totale assenza di controlli effettivi sul
lavoro così da garantire una manodopera quanto mai economica e altamente
ricattabile.
In Georgia ad oggi ci sono 5 zone franche industriali (FIZ)
all’interno delle quali è proibito iscriversi ad un sindacato. I regimi lavorativi
e di organizzazione territoriale vigenti in queste zone emergono in questo
Forum come il modello da imitare per lo sviluppo logistico dell’intero paese.
La critica nordamericana Keller Easterling ci fa notare come le FIZ siano dei
‘prodotti spaziali’ (2014, 2005) che si basano su dei regimi eccezionali
rispetto a quelli vigenti nel resto del territorio che le ospita. All’interno
di questi spazi, diritti riconosciuti come fondamentali – almeno sulla carta –
per i cittadini di uno stato, come il diritto a manifestare dissenso o i
diritti di tutela della forza lavoro, vengono dismessi a beneficio di processi
di scambio più fluidi. In questi spazi, dunque, efficienza e rapidità
sovrastano e trascurano la componente umana dei processi lavorativi.
La normalizzazione di questi
spazi come forma territoriale prediletta per lo sviluppo della Nuova via della
seta ha delle conseguenze pratiche e comunicative. Se le prime possiamo
immaginarle osservando le recenti lotte nel settore della logistica su scala
locale e globale, le seconde strutturano la retorica dei partecipanti al Forum.
Nelle molte ore di dibattito sui progetti della Nuova via della seta i
lavoratori non vengono quasi mai menzionati.
Nonostante sia spesso indicato che
gli investimenti infrastrutturali produrranno un gran numero di posti di
lavoro, non viene mai specificato che tipo di posti, per chi e sotto quali
condizioni. Le uniche volte in cui la forza lavoro viene menzionata è per
descriverla come ‘competitiva’ – aggettivo che chiaramente non si riferisce
alla qualità ma allo scarso prezzo sul mercato. La forza lavoro è, dunque,
discussa solo come una merce e uno dei vari ‘assets’ che la Georgia ha da
offrire ai potenziali investitori.
La deregolarizzazione del
settore economico a livello locale è la precondizione degli accordi
internazionali di cui il paese si vanta: la Georgia è l’unico paese ad avere
simultaneamente accordi bilaterali di libero scambio con l’Unione Europea e con
la Cina (effettivi da gennaio 2018).
Questi accordi concretizzano la proverbiale
definizione del paese come “mano tesa tra Oriente e
Occidente”.
La connettività emerge,
dunque, dalle relazioni presentate nel Forum come il risultato
dell’eliminazione di barriere di vari tipi. Le barriere spaziali che vengono
superate con investimenti in progetti infrastrutturali non sono sufficienti,
infatti, a connettere effettivamente lo spazio globale all’ interno della Nuova
via della seta. L’ostacolo più importante sono le barriere create dalle
legislazioni locali: il protezionismo commerciale e le limitazioni allo
sfruttamento delle risorse e della mano d’opera. Queste, come conferma il
direttore generale della Commissione Europea per la Mobilità e per i Trasporti,
Henrik Hololei: “sono un ostacolo alla gioia della nostra gente e dei nostri
affari”
È questo approccio che ci
porta al secondo elemento fondamentale assente dal Forum: la geopolitica, con
le rivalità e i calcoli territoriali che la caratterizzano, sembra svanire del
tutto all’interno di commoventi descrizioni dell’espansione logistica come ‘una
vittoria per l’umanità intera’.
Dalla prospettiva di un
paese come la Georgia con due confini attualmente contestati con la Russia,
questo nuovo ottimismo sembra fuori luogo. Nel suo intervento inaugurale, il
vice ministro cinese per il commercio Quian Keming descrive l’approccio che
informa la Nuova via della seta come ‘win win approach’. Dietro a questa
definizione c’è la volontà di erodere i calcoli geopolitici per lasciare spazio
alla nuova razionalità geo-economica della logistica globale.
Come ci fanno notare i
geografi Deborah Cowen e Neil Smith (2009), la geopolitica è una pratica
discorsiva e costituente che organizza lo spazio globale secondo lotte per il
dominio territoriale di specifiche aree. Il funzionamento della geopolitica si
appoggia su pratiche di guerra che eccedono i confini territoriali degli stati
nazione ma anche quello che loro indicano come “il sociale geopolitico” vale a
dire: l’agglomerato storico delle pratiche discorsive che giustificano e
materializzano i calcoli geopolitici. La Nuova via della seta si propone come
un superamento di questo sociale geopolitico a favore di una nuova razionalità
geo-economica che riorganizza la sicurezza dei territori e le loro rivalità
storiche per favorire il passaggio di flussi sopranazionali. Nei due giorni del
Forum, la performance di una nuova socialità geo-economica ha preso forma.
All’interno di questa nuova
configurazione avvengono degli spostamenti fondamentali. Primo tra tutti, una
nuova epistemologia territoriale: se Mackinder, uno dei fondatori della
geopolitica moderna, definiva la competizione territoriale come “conflitto per
il centro” (1904), la Nuova via della seta abbandona questa definizione di
centro. Il progetto cinese ridefinisce lo spazio globale come un continuo flusso,
le risorse che guidano il desiderio di nazioni in competizione non sono più
localizzate in un luogo preciso, al contrario sono estese lungo tutta la rete
logistica che costituisce lo scheletro di questa nuova visione territoriale. Il
centro è dunque un agglomerato cyborg di infrastruttura, territorio, manodopera
e risorse.
Di conseguenza avviene un
riposizionamento dei potenziali nemici non più caratterizzati come gli eserciti
delle forze rivali. I principali ostacoli allo sviluppo di dominio territoriale
e di estrazione di risorse sono allo stesso tempo astratti ed in carne ed ossa:
le barriere descritte da Hololei sono temporali, spaziali ma soprattutto
fisiche. I lavoratori, dunque, grandi assenti del Forum sono il nuovo ostacolo,
le loro rivendicazioni equiparate all’esercito nemico in marcia, la loro
‘umanità’ la sfida da superare.
La Nuova Via della Seta è
dunque la prospettiva di un mondo senza barriere, un mondo dove la logistica
non è un mezzo ma un fine. Un mondo in cui la connettività è produttiva in se
stessa. Questa visione, ripetuta più e più volte dai vari partecipanti al
convegno non è solamente uno slogan vacuo per un progetto complesso e ancora da
definire. È la manifestazione della lotta in corso tra una geopolitica
mackinderiana volta alla conquista di risorse e territori e una emergente
razionalità geo-economica volta a produrre nuove risorse tramite investimenti
infrastrutturali e creazioni di nuovi mercati. Questa lotta, come specificano
Cowen e Smith, non risulterà in una evoluzione semplice da un paradigma all’
altro. Al contrario: sarà la frizione tra le due che definirà i cambiamenti a
venire.
Evelina GAMBINO
Bibliografia
Cowen, D. Smith, N. (2009).
‘After Geopolitics? From the Geopolitical Social to Geoeconomics’. In Antipode 41(1)
22–48.
Easterling, K. (2005). Enduring Innocence. Global architecture and its
Political Masquerade. Cambridge, Ma: MIT Press.
Easterling, K. (2014). Extrastatecraft: The power of Infrastructure
Space. London: Verso.
Mackinder, H. (1904). ‘The Geographical Pivot of History’. Geographical
Journal. 4(xxiii) 421-437.
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