"L’impatto delle cd. “mega navi” sulla protezione ambientale e sulle norme ad essa relative"
Su FAQ TRIESTE la
Relazione del prof. Sergio Bologna
L’impatto
delle navi ultralarge sulle filiere retroportuali
Per poter valutare il fenomeno delle mega navi occorre
inquadrarlo nel più vasto orizzonte della finanziarizzazione dello shipping.1
Che cosa intendo dire? Che da qualche anno a questa parte, dal 2012/2013, si è
verificato un profondo cambiamento nel panorama degli attori che concorrono a
formare il complesso cluster marittimo.
Siamo abituati a considerare
protagonisti indiscussi di questo mercato gli armatori, ma chi conosce anche superficialmente questo mondo sa che la nozione di armatore può assumere
connotazioni molto diverse. Lo stesso termine di ship owner non trova una
definizione univoca. Cominciamo col dire dunque che la figura del proprietario
tende a staccarsi sempre più da quella di operatore e che tutte le grandi compagnie
marittime dispongono di una flotta mista, di navi di proprietà e di navi
noleggiate.
Per l’armatore/operatore la nave è uno strumento per
trasportare merci e passeggeri, è un mezzo di trasporto che caratterizza una
professione e si misura in un mercato determinato dalla domanda e offerta di
trasporto. Per il noleggiatore o non operating ship owner la nave è un asset da
far fruttare esattamente come un immobile per il proprietario del medesimo. Ha
un rapporto diretto con il cantiere, al quale ordina la costruzione di una nave
per noleggiarla, a viaggio o a tempo, a una compagnia marittima che la mette in
servizio su determinate rotte.
La
bolla finanziaria sale a bordo
Il cluster marittimo si è quindi popolato di figure di
noleggiatori che si sono trasformati, soprattutto in Germania, in operatori
finanziari ed hanno frammentato l’investimento nel
naviglio in entità che si
alimentano del piccolo risparmio privato e diventano dei piccoli fondi che traggono utili dalla gestione
dell’asset nave e in parte li distribuiscono ai risparmiatori.
Questo sistema si è sviluppato con le cosiddette KG,
società in accomandita.
Ma questo sistema di raccolta del risparmio privato per
incanalarlo verso l’investimento in naviglio rappresenta solo la base di una
piramide in cima alla quale ci stanno le grandi banche, alcune delle quali
specializzate nel finanziamento allo shipping. Il mercato della finanza dello
shipping quindi comprende una serie complessa di attori, esso tuttavia ha una
caratteristica specifica: assomiglia terribilmente al mercato della finanza per
l’immobiliare.
Le banche infatti concedono i prestiti preferibilmente ai
soggetti che possono dare in garanzia un bene, quindi sono disposte a fare a
questi soggetti condizioni – per esempio in termini di estensione temporale del
prestito – tutto diverse e molto più generose di quelle che praticano nei
confronti del settore manifatturiero. Avendo in garanzia l’asset nave, le
banche specializzate nello shipping non
sono andate tanto per il sottile negli anni successivi al cosiddetto
”superciclo”, hanno erogato crediti anche a società che non davano il minimo affidamento, alimentando in
tal modo una vera e propria “bolla” che è scoppiata – sebbene non con il
fragore della bolla dei mutui subprime – nel periodo in cui l‘effetto cumulato
della crisi, della contrazione della domanda e della caduta dei noli, ha messo
a dura prova il mondo dell’armamento. Centinaia di società in accomandita sono
fallite, creando ad Amburgo, capitale mondiale di questo tipo di imprese finanziarie,
dei problemi non indifferenti. Ma crisi di maggiori dimensioni hanno investito
anche grandi banche molto esposte nel settore dello shipping come Commerzbank,
la quarta banca tedesca, come Royal Scotland Bank e soprattutto HSH Nordbank –
che sta per Hamburg Schleswig Holstein Bank, la banca di proprietà dei due
Länder del nord della Germania, che nell’ottobre
2015 ha ottenuto dalla Commissione Europea l’autorizzazione a costituire una
bad bank dove rovesciare più di 6 miliardi di crediti inesigibili, dei 19 che
la banca pare si porti appresso.
Una delle cause principali della sovracapacità di cui
soffre oggi il mercato dello shipping sta proprio nella larghezza con cui sono
stati erogati crediti per la costruzione del naviglio. La crisi dei noli,
causata dalla sovracapacità, ha abbassato il rendimento dell’asset nave per gli
investitori, ha ridotto la liquidità degli operatori, impossibilitati a
restituire i prestiti ricevuti, ha creato la classica “bolla” fatta di eccesso
di offerta, rendimenti zero o negativi, prestiti in sofferenza.
Questo è il terreno sul quale è cresciuto il fenomeno
delle navi ultralarge. Non sono tanto i ragionamenti sulle economie di scala ad
aver portato a queste scelte. Le ULCC sono soprattutto il prodotto perverso di
una bolla finanziaria.
Manca un protagonista però, di questo dramma: l’industria
cantieristica. Sostenuta da pesanti sussidi
pubblici in paesi come la Cina, la Corea del Sud e il Giappone, l’industria
cantieristica ha continuato a sfornare navi a prezzi sempre più contenuti,
malgrado l’adozione di tecnologie sempre più sofisticate. Per il prezzo che MSC
ha pagato per la portacontainer “Zoe” da 19.000 Teu di capacità, una decina di
anni fa si comperava un traghetto di modeste dimensioni.
La necessità di mantenere l’occupazione nella
cantieristica (pensiamo a quale indotto mette in moto la costruzione di una
nave), la volontà di mantenere una leadership nel settore, hanno creato una
situazione drogata di aiuti pubblici all’industria che ha rappresentato proprio
quello di cui la finanza aveva bisogno per rendere ancora più esplosiva la
bolla finanziaria.
Costruire navi a sempre più buon mercato, mandarne in
demolizione molte ancora in piena efficienza è diventata quindi una forma di
business fine a se stessa, sempre più attenta agli aspetti finanziari e
dimentica sempre più delle merci, della domanda di trasporto. E’ quello che il grande
economista marittimo Martin Stopford ha chiamato trading ships not cargo, che potremmo
tradurre con “fare commercio di navi, non di carichi”.2 Le economie di scala,
che vengono sempre richiamate per giustificare la costruzione delle ULCC
(Ultralarge Container Carrier) non sono in realtà la molla decisiva che ha
fatto scattare il gigantismo navale, l’elemento determinante è stata la
finanziarizzazione dello shipping.
Economie di scala, un principio superato?
Ma il contributo analitico di Stopford non si è fermato
qui, è andato ben oltre. Creare economie di scala mediante mezzi di trasporto
di grande capacità era un principio già ben chiaro agli armatori genovesi del
Trecento, un principio mai messo in discussione nel mondo del trasporto.
Stopford si chiede se in realtà questo principio non sia oggi messo in
discussione dal modo in cui le nuove tecnologie stanno trasformando le leggi e
le consuetudini che hanno dominato fino ad ora l’economia aziendale.
Oggi siamo nell’epoca della connettività, della sharing
economy, oggi – in particolare nel mondo della logistica - non vince chi è
capace di portare grandi volumi concentrati da un punto A ad un punto B (il
classico business port-to port delle compagnie marittime del container) ma chi
è in grado di distribuire capillarmente e in tempi rapidi le merci. Non a caso
egli cita il caso di Amazon, accenna al discorso dell’”Internet delle cose”,
sostenendo quindi che il modello di business dell’armamento navale è ormai
obsoleto.
Sulle prime si fa un po’ di fatica a capire cosa intende
Stopford, ma poi, riflettendoci, occorre
riconoscere che il suo ragionamento ha senso: noi oggi ci troviamo di fronte a
un cambiamento di paradigma, non semplicemente ad un’accelerazione o
implementazione di modelli di business
già collaudati. Un esempio: i taxi, i classici, tradizionali yellow cab, nella
città di New York sono un po’ più di 13 mila. Da quando Uber ha sviluppato la
sua app, consentendo a chiunque sia proprietario di un’automobile di
trasformarsi in tassista, sono entrate in circolazione a New York 25 mila auto
impiegate nel conto terzi, i black cab. Che vuol dire? Che un’innovazione
tecnologica sviluppata da un piccolo gruppo di persone, con modesti investimenti,
ha saputo mobilitare delle risorse in quantità tali ed in così poco tempo che
solo la forma grande impresa avrebbe saputo fare in un’epoca fordista. La
velocità “virale” con cui si diffondono gli effetti di queste innovazioni
tecnologiche dell’èra digitale dimostra la competitività del nuovo modello
rispetto al modello di accumulazione perseguito dalla rivoluzione industriale
in poi.
Dove non arrivano le grandi navi
E’ solo dopo aver affrontato di petto le grandi
problematiche concettuali della moderna economia che Stopford accenna
direttamente al fenomeno del gigantismo navale, con una critica alle compagnie
marittime del container per aver rinunciato a quella che, secondo lui, era una delle loro caratteristiche vincenti,
cioè la capacità di offrire servizi differenziati per qualità e prodotto lungo
l’intera filiera logistica, door-to-door. Il gigantismo a suo avviso sarebbe il
segnale della rinuncia a queste strategie e della ritirata nel più comodo ed
elementare mercato del port-to-port e del servizio indifferenziato.
A questo punto e solo dopo aver seguito Stopford nei suoi
ragionamenti precedenti, possiamo affrontare
l’argomento delle filiere retroportuali. Quali problematiche, quali criticità, solleva il modus operandi di una
ultralarge nella parte retrostante il porto, in quel segmento della catena logistica che va dal
caricatore o dall’utilizzatore finale al
ciglio banchina? E perché le compagnie marittime se ne infischiano di queste
criticità? Perché se ne infischiano lo ha già detto Stopford: perché dopo aver inizialmente
tentato di padroneggiare tutta la catena ed aver messo sul mercato i primi
servizi door-to-door con forte attenzione alla qualità del servizio e alla sua
differenziazione, le compagnie si sono ritirate ad operare solo nel segmento di
cui controllano quasi tutte le variabili (tranne quella del bunker). Del
primitivo intento di controllare la catena resta soltanto il carrier haulage
dei trasporti intermodali. Un giorno, messo di fronte a questi rilievi, il responsabile
dei servizi marittimi di AP Moeller ha replicato, a sua scusante, che il gruppo
Maersk aveva cercato di offrire un servizio di alta qualità, il Daily Maersk,
ma di fronte alla riluttanza dei clienti a pagarlo di più, ci aveva rinunciato.
Da parte nostra vorremmo osservare tuttavia che l’intenzione di estendere il
controllo del carrier sull’intera catena di trasporto - e che ha indotto alcune
compagnie marittime a costituire dei “bracci logistici” mediante società controllate
(si pensi a NYK Logistics o alla stessa Damco di AP Moeller) – comporta dei
costi non indifferenti in quanto si tratta di competere con dei giganti come
K&N o DHL su un terreno a loro assai più familiare.
Se in termini generali è abbastanza intuibile quali
criticità crea l’arrivo di una ultralarge in un terminal inserito dentro un
porto gateway di destinazione finale – diverso è il caso del transhipment, dove
le problematiche retroportuali sono ridotte al minimo – per poter avere un quadro attendibile occorre analizzare le
specificità del singolo scalo portuale. A titolo di esempio possiamo leggere
insieme un documento scritto dall’Associazione Spedizionieri di Amburgo nel luglio 2014, preoccupati del
progressivo degrado della qualità dei servizi, anche se
il fenomeno delle ultralarge non è esplicitamente citato.4 Prima però occorre
ricordare qualche dato di base sul porto tedesco. Esso occupa un’area a ridosso
della quale opera una popolazione assai numerosa di imprese di logistica (si
parla di 6.000 imprese), quest’area è situata molto vicino al centro storico
della città lungo le rive del fiume Elba a diverse miglia dalla foce.
E’, come
tutti i grandi porti del Northern Range, Le Havre, Rotterdam, Anversa, Bremerhaven,
un porto fluvio-marittimo con vie d’acqua e canali di accesso estremamente sensibili
ai fenomeni del congestionamento, condizionato sensibilmente dalle maree (Tidehafen),
in perenne sforzo di manutenzione dei fondali che richiedono costante e costosa
opera di dragaggio, governato da una Port Authority e gestito, per la parte
riguardante i container, da due operatori,
un operatore pubblico, la HHLA (Hamburger Hafen und Logistik AG, controllata
dalla città-stato, che possiede il 68,4% delle azioni mentre il 23,4% è in mano
a investitori istituzionali e l’8,2% distribuito tra piccoli azionisti) e un
operatore privato, il gruppo Eurogate, al quale fa riferimento, com’è noto,
Contship Italia. La distanza tra il porto e il mare aperto è di circa 40 miglia
nautiche, e per accedervi sono necessari certe volte tre distinti gruppi di
piloti, i piloti della Deutsche Bucht, l’area antistante la foce dell’Elba, i
piloti dell’Elba ed i piloti del porto (Hafenlotse). I tentativi della Port
Authority di approfondire i fondali dell’Elba in vista dell’arrivo delle
ultralarge si sono scontrati con l’opposizione massiccia di centinaia di
comitati che sono riusciti a portare la questione addirittura a livello della
corte costituzionale tedesca. Il porto di Amburgo, tramite la HHLA, è stato
all’avanguardia sia della informatizzazione (il sistema Dakosy,
Datenkommunikationssystem, risale alla metà degli Anni 80) sia
dell’automazione. Sin dal 2002 il terminal CTA (Container Terminal Altenwerder)
ha introdotto l’automazione nella fase di trasferimento dei container da
banchina a piazzale e viceversa mediante veicoli elettrici guidati automaticamente
(AGV) e nella fase di carico e scarico da truck a piazzale, lasciando solo il
trasferimento da piazzale a terminal ferroviario al sistema tradizionale. Il
porto, che ha sempre avuto problemi di congestione, scaricati in genere sull’autotrasporto,
ha investito massicciamente nel trasporto ferroviario, in particolare la HHLA negli
ultimi esercizi ha investito molto in materiale di trazione a favore di
Metrans, l’impresa ferroviaria controllata. Ciononostante i problemi di
congestione e di disservizio non si sono aggravati con l’aumento forte dei
volumi dovuto essenzialmente al transhipment per i porti russi e del Baltico,
ma si sono aggravati negli anni 2013 e 2014 proprio in coincidenza con gli arrivi
delle prime ultralarge, alle quali la Port Authority aveva fatto ponti d’oro in
termini di tasse portuali. Quindi né l’automazione di Altenwerder, né la
crescita costante del traffico ferroviario sono riusciti ad attenuare l’impatto
delle grandi navi.
Ora, tornando al documento citato dell’Associazione degli
Spedizionieri, noi leggiamo che le proposte che in quella sede vengono fatte
per ovviare alla congestione ed ai disservizi sono abbastanza banali. Per
esempio: nel cambio turno del personale dei terminal si perde circa mezz’ora,
sufficiente a creare grosse code ai gates, si propone di introdurre orari più
flessibili per evitare questo inconveniente; migliorare e in taluni casi
istituire il servizio fast lane per gli autotrasportatori che hanno dato
preavviso di arrivo; creare degli incentivi per attirare gli operatori nei
periodi di minore presenza di volumi; prolungare i tempi di apertura dei magazzini
dei ricevitori delle merci e dei caricatori; decongestionare le strade di
accesso al porto con la creazione di nuove arterie di collegamento; creare una
nuova uscita sud dall’interporto di Altenwerder; dare priorità all’automazione
integrale delle operazioni al gate; implementare il sistema telematico del
porto in modo da evitare perdite di tempo nel caso in cui la nave venga
spostata da una banchina ad un’altra; differire alle ore notturne i lavori di manutenzione
del sistema informatico; assicurare la copertura di rete integrale in tutte le
aree del porto (la Dogana ha adottato dei mezzi mobili per spostare i
funzionari da un punto all’altro del porto rapidamente, andando incontro alle
esigenze dei clienti, ma in alcune aree non c’è copertura di rete e, nel caso
di navi spostate da una banchina ad un'altra con poco preavviso, può capitare
che la mancata copertura renda impossibile l’effettuazione dei controlli
doganali); introdurre urgentemente un sistema capillare di rilevazione RFID.
Come si vede, sono richieste banali ma che testimoniano
come le consuetudini aziendali non si lascino modificare così facilmente e come
un organismo estremamente complesso come un porto e la sua area circostante
contengono tante e così diverse variabili che pensare di organizzare lo spazio
pubblico di un porto con la stessa precisione con cui si può organizzare uno
spazio privato di un terminal è semplicemente utopia.5 Ora, l’impatto della
grande nave ha un effetto domino così forte che costringe tutti gli attori
coinvolti a modificare qualcosa nelle loro abitudini. Ma con quale vantaggio?
Riesce difficile capire come le compagnie marittime possano pretendere di far
cambiare la vita agli altri con costi aggiuntivi e senza nessun risparmio o
guadagno percepibile. E’ un puro e semplice atto di violenza scardinare un
sistema che da decenni impiega ogni sforzo per poter funzionare in maniera
programmata e continuata e pretendere che subisca i contraccolpi dei grandi
picchi e delle lunghe pause, con tutte le diseconomie della discontinuità.
Com’è stato già detto nelle precedenti relazioni, le ultralarge scaricano e
caricano in una volta sola volumi ben superiori a quelle delle navi sotto i 10
mila Teu, impiegando più tempo nella sosta in porto e stressando mezzi di
movimentazione e uomini all’estremo.
Chi non vuole le
ultralarge
Ha suscitato
clamore e un po’ di sconcerto la presentazione, nel maggio di quest’anno a
Lipsia, dello studio The Impact of Mega Ships6 dove si formulano seri dubbi sull’economicità delle ultralarge e si mette
in guardia le amministrazioni pubbliche sui costi che possono gravare sui contribuenti
se molte infrastrutture di trasporto debbono subire degli adeguamenti per sopportare
l’impatto di queste navi. Non entreremo nel merito di queste argomentazioni,
che sostanzialmente condividiamo, per chiederci invece quali sono gli ambienti
nei quali lo scontento, la preoccupazione e la protesta per le scelte delle
compagnie di navigazione si fanno sentire di più.
Chris Welsh, segretario generale del Global Shippers’
Forum, è certamente uno dei più severi osservatori del mondo del trasporto
marittimo. Parlando a nome dei caricatori, cioè dei clienti delle compagnie
marittime, ha espresso forti critiche al sistema delle grandi alleanze che a
suo avviso pregiudicano la qualità del servizio. E’ stato, in seno
all’International Maritime Organization, uno dei più accesi sostenitori della
necessità di verificare il peso dei container e di monitorare le performances
delle compagnie, in particolare nel container. Per quanto riguarda le
ultralarge, ha espresso forti critiche sul modo in cui le compagnie marittime prendono
le decisioni infischiandosene degli effetti che queste decisioni possono avere
sui clienti. Ma i caricatori e gli spedizionieri non dovrebbero esser contenti
per il livello così basso dei noli, giunti ai loro minimi storici? No, lo hanno
espresso molto chiaramente nell’ultima survey che la rivista “Containerisation
International” ha condotto a settembre sul sentiment dei caricatori: i noli
troppo bassi sono il sintomo di un mercato insano, dalla volatilità eccessiva che
crea incertezze; i caricatori non vogliono noli per cui le compagnie ci
perdono, non vogliono risparmiare, vogliono stabilità di prezzi. Anche Martin
Stopford, quando ha pronunciato la sua relazione Trading ships not cargo,
parlava a una platea di caricatori.
Si legge sulla stampa specializzata che anche la prossima
assemblea di Feport, l’associazione europea dei terminalisti privati, sarà
dedicata al problema delle mega navi.
L’altro fronte che si muove contro le ultralarge è un
fronte composito di studiosi, analisti, politici, amministratori pubblici,
ambientalisti, che gravitano nelle aree fortemente influenzate dall’economia marittimo-portuale
del Northern Range, in particolare però dei porti tedeschi.
Docenti dell’università di Brema, analisti dell’Institute
for Shipping and Logistics di Brema, hanno collaborato allo studio dell’ITF. In
effetti i porti del Northern Range sono quelli più esposti al rischio di
incidenti nelle vie di accesso. Se una ultralarge dovesse incagliarsi nel percorso
di 40 miglia nautiche tra il porto di Amburgo e la foce dell’Elba o nel
percorso di 50 km dalle banchine dei
terminal di Bremerhaven alla foce del Weser, i due porti rischierebbero la paralisi. Secondo gli
esperti delle società di salvage, non esiste oggi una gru in grado di scaricare
una portacontainer gigante incagliata su un banco di sabbia. Da questo punto di vista i porti mediterranei non
sono esposti a questo rischio, non subiscono le conseguenze di forti maree, non
hanno canali di accesso con chiuse o altri sistemi artificiali, non sono
all’interno del corso di fiumi.
Conclusioni
Ci si chiede se la corsa al gigantismo navale finirà
prima o poi e se le compagnie marittime cambieranno strategia di ordini, sotto
l’incalzare della stagnazione dei traffici proprio sulla rotta Asia-Europa nella quale sono impiegate
le ultralarge. Ulrich Malchow, docente di economia marittima alla Facoltà di Scienze
Applicate dell’Università di Brema in un recente articolo su “Lloyd’s List”
dichiara: The industry, even in today‘s consolidated condition, cannot escape
by its own initiative from this vicious circle but obviously needs some help
from outside. Ports, which for the
time being are all fighting (and suffering) on their own could take the
initiative by co-operating to set size limits.
E’ un’opinione condivisibile, soprattutto se si pensa al comportamento
delle banche prima e dopo la crisi del 2008. Pur sapendo perfettamente che le loro
pratiche, gli investimenti in titoli tossici, i crediti concessi senza
scrupoli, avrebbero portato al crack, non hanno cambiato modalità di operare
sul mercato, hanno ripetuto ostinatamente gli stessi errori, incapaci o
impossibilitate a scendere dal treno impazzito sul quale correvano incontro al
disastro. Potrebbe cambiare la strategia delle compagnie marittime perché molte
banche si sono ritirate da questo mercato, moltissimi fondi sono falliti e
quindi è diventato più difficile procurarsi capitali? No, perché i vecchi
investitori istituzionali ritiratisi dal mercato sono stati subito sostituiti
dalle banche cinesi, dal private equity, dai fondi sovrani di alcuni stati.
Denaro a disposizione ce n’è in abbondanza. La finanziarizzazione non ha fatto
un passo indietro, anzi l’orizzonte degli investitori si fa ancor più
ristretto, le loro aspettative di ricavi ancor più a breve termine.
Non può che venire dall’esterno, dalla società civile, la
pressione sulle compagnie marittime perché
abbandonino questa strategia del gigantismo, la quale, sempre nelle parole di
Malchow, ha portato verso a tragic and global lose-lose-lose situation for
ports, terminals and the lines. Anche la regolazione, che è il tema che
affrontiamo oggi, ha dimostrato ormai i suoi limiti. Ma su queste questioni,
che non sono il mio pane, non mi addentro.
Sergio Bologna
1 Per una
trattazione più approfondita rimando al mio libro, Banche e crisi. Dal petrolio
al container. Derive&Approdi
editore, Roma 2013, con postfazione di Gian Enzo Duci.
2 Martin
Stopford, Will the next 50 years be as chaotic as
the last? su “Lloyd’s List”, 15 maggio 2015.
3 Un’analisi più
dettagliata delle posizioni di Stopford nel mio scritto inedito Trading ships not cargo.
Alcune considerazioni sulla fase attuale del mercato marittimo-portuale, in
occasione della stesura del ‘Piano dei porti e della logistica’. Milano, giugno 2015.
4 Verband
Hamburgische Spediteure, Diskussionspapier,
24 luglio 2014.
5 E’ ancora più
significativo che la HHLA abbia risposto a questa lettera con l’annuncio che
sareebbero stati assunti più di 100 nuovi dipendenti. Alla faccia dell’automazione
integrale!
6 Lo studio si
può scaricare dal sito http://www.internationaltransportforum.org/Pub/pdf/15CSPA_Mega-Ships.pdf
7 La domanda
era: are you happy to see Asia-Europe spot rates at the
record lows reached? 67% ha risposto di no.
8 The
curse of the economies of scale in “Lloyd’s List”, 19 ottobre 2015.
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