I problemi che l'informazione affronta a livello globale finiscono, con le debite proporzioni, per assomigliarsi tutti, Ci sono poi dei fatti e delle interpretazioni nell'informazione mondiale che finiscono per determinare scelte e giudizi anche nella piccola provincia.
Per questi motivi riportiamo questi due articoli apparsi ieri su Repubblica ( 2 aprile 2015 ) per aggiungere contenuti e fotografare un livello del dibattito a partire da ragionamenti sulla stampa e informazione britannica che vanta una tradizione importante e caratteristiche speciali.
Enrico Franceschini per “la Repubblica”
«Mi hanno licenziato perché abbiamo fatto un buon giornale».
Tony Gallagher, direttore del Daily Telegraph, ha il groppo alla gola. Tra i
suoi reporter, assiepati nella sala riunioni dell’ultra centenario quotidiano
londinese, l’emozione è palpabile. Un passato da cronista d’assalto, una
reputazione da stakanovista, una direzione
brillante: Gallagher pensava di
avere ancora molto da dare. Invece è finita.
Stacca dal muro il
ritaglio di uno scoop, alza un braccio in segno di addio, apre la porta che lo
condurrà per l’ultima volta fuori di lì. E in quel momento, come a un segnale
prestabilito, i redattori cominciano a battere il pugno sulle scrivanie, un
tam-tam ritmato, assordante, veloce, sempre più veloce: il vecchio rituale di
Fleet street per manifestare rispetto a un membro della confraternita che se ne
va.
E che confraternita. A Fleet street, la “via
dell’inchiostro” com’era chiamata un tempo, non è rimasta più neanche la
redazione di un giornale: si sono trasferite tutte altrove, per lo più in
periferia, lontano dal traffico e dai prezzi folli del centro di Londra. Ma
all’inizio del ‘700 in quella strada è nato il giornalismo e il suo spirito è
sopravvissuto ai cambiamenti di ogni genere, traslochi compresi: basta la
parola per evocare i vizi, le virtù e i miti del mestiere. Il viaggio
avventuroso e stupefacente che nei tre secoli successivi ha portato
l’informazione mondiale sul web, sugli smartphone, sulla nuova frontiera della rivoluzione
digitale, è cominciato in questa viuzza della capitale britannica, fra antiche
taverne, luoghi di malaffare, carrozze, fango, nebbia e boccali di birra.
L’epica storia di Fleet street, naturalmente, è piena di
direttori di giornale licenziati. Ma non capita spesso che un giornale ne
licenzi cinque in dieci anni. Gallagher è il penultimo. Ma la sua uscita di
scena dal Telegraph, un anno fa, sembra una parabola del presente, scrive un
quotidiano rivale, il Financial Times.
Sembra il simbolo di un declino, o perlomeno di un problema,
più generale.
Non è stato il solo
ad andarsene. Il mese scorso Peter Oborne, più famoso columnist del Telegraph ,
ha dato le dimissioni accusando la proprietà del giornale di avere censurato
articoli sulla Hsbc, la grande banca britannica coinvolta nello scandalo dei
conti segreti in Svizzera per evasione fiscale. Come mai? Perché, spiega il
commentatore, sir David e sir Frederick Barclay, i fratelli gemelli che nel
2004 acquistarono il Telegraph per 665 milioni di sterline (un miliardo di
euro), contano molto sulle sostanziose inserzioni pubblicitarie della Hsbc.
È qualcosa di più, secondo Oborne, del classico conflitto di
interessi per proteggere un amico a cui si deve qualcosa. Il piacere fatto alla
banca, sostiene, è il sintomo di un malessere più ampio: la sottomissione della
proprietà ai suoi inserzionisti. La tiratura dell’edizione cartacea cala a
causa della concorrenza dell’informazione digitale, la pubblicità online cresce
ma non abbastanza, le soluzioni tentate dai giornali — paywall parziale o
completa, sito gratuito — non hanno ancora individuato la formula magica, i
profitti scendono: questo è il contesto, praticamente dovunque. E in una
situazione simile può scattare il vassallaggio nei confronti di chi compra
pagine di pubblicità, ultima fonte sicura di guadagni.
Il Telegraph ha risposto sdegnato al j’accuse del suo
columnist, ribadendo la «totale indipendenza » della redazione da esigenze
commerciali. Ma altri quotidiani hanno rincarato la dose, segnalando ulteriori
malefatte del giornale dei fratelli Barclay. Il quale ha reagito tirando fuori
presunti scheletri dagli armadi degli altri: il Guardian avrebbe accettato un
patto con la Apple promettendo di non pubblicare articoli critici sull’azienda
californiana nei giorni in cui escono sue inserzioni; due dirigenti
dell’ufficio pubblicità del Times si sarebbero suicidati negli ultimi sei mesi
per lo stress e la pressione a incrementare le vendite.
Sembra innegabile,
nell’incrocio di smentite e contro smentite, che ci sia sotto almeno una parte
di verità. E i cinque direttori licenziati dal Telegraph in dieci anni
testimoniano incertezza, fragilità, paura, in parte attribuite ai proprietari,
in parte all’amministratore delegato Murdoch MacLennan, un manager 65enne così
lontano dall’era digitale che detta le email alla segretaria invece di
scriverle da sé.
Quest’ultimo gossip è
del Financial Times , che ha sbattuto in copertina sul suo inserto week-end un
giornale avversario, titolando “Tumulto al Telegraph” come se fosse sull’orlo
della chiusura, nonostante 60 milioni di sterline l’anno di attivo (ma ha
recuperato solo metà della somma sborsata dai Barclay per comprarlo): ipotesi
che porterebbe al quotidiano finanziario non pochi lettori del Telegraph, visto
che hanno età, reddito e simpatie politiche simili.
Neanche il quotidiano
della City, del resto, è immune da preoccupazioni: pur essendo quello che
gestisce meglio il passaggio al digitale (ha più abbonati online che copie
vendute e ricava dal web la maggior parte delle entrate), è sempre in predicato
di essere venduto dalla Pearson, maggiore casa editrice scolastica del mondo.
Non è chiaro a chi.
La morale è che oggi nessuno è tranquillo, a Fleet street
come nel resto del panorama giornalistico: e a Londra, dopo la tempesta del
Tabloidgate, lo scandalo delle intercettazioni illecite che ha investito i
quotidiani popolari di Murdoch, ora tremano anche i “quality papers”, i
giornali più seri e rispettabili. Quello che sta accadendo al Telegraph, tira
le somme Meredith Levien, manager del New York Times , «è un avvertimento su
come potrebbe arrivare la fine», sottinteso per tutti.
Ma la culla del
giornalismo, la leggendaria “via dell’inchiostro”, è davvero in procinto della
fine o cammina invece, pur fra inevitabili difficoltà, verso praterie nuove ed
ardite, come suggeriscono la nomina per la prima volta di due donne alla
direzione di Economist e Guardian, sintomo di vitalità e di rinnovamento?
«È la stampa,
bellezza! La stampa! E tu non puoi farci niente! »: la famosa battuta del
vecchio film con Humphrey Bogart su un direttore di giornale che si oppone alla
cessione del suo quotidiano per portare avanti una campagna d’informazione
suona ancora attuale, nonostante tutto. Chissà se è venuta in mente a Tony
Gallagher, mentre lasciava il suo ufficio di direttore del Telegraph, salutato
dal tam-tam dei pugni sulla scrivania dei suoi redattori.
Nessun commento:
Posta un commento