sabato 5 ottobre 2019

DAL COLLETTIVO AUTONOMO LAVORATORI PORTUALI DI GENOVA


LAVORARE IN PORTO È COME LA ROULETTE RUSSA: LA PISTOLA È ARMATA CON IL RICATTO DELLA PRODUTTIVITÀ


Un altro portuale ucciso dalle operazioni a bordo di una nave ro-ro nel porto di Trieste. Le autorità stanno verificando le responsabilità, se c’è stato il rispetto delle regole. Nuovi protocolli saranno sottoscritti, rinnovata la vigilanza, incrementata la formazione e la prevenzione. Ci vogliamo credere, anche perché nel porto di Trieste negli ultimi anni è stato fatto un lavoro di concerto tra istituzioni e sindacato per offrire maggiori garanzie di sicurezza. Vogliamo credere che verrà tratta una lezione da questa tragedia. 

Vogliamo tuttavia aggiungere un ragionamento, per evitare che anche questa morte sia dimenticata nel mentre si torna a lavorare con la mera speranza che non succeda più. 


Un ragionamento che dia senso allo sciopero indetto dal sindacato, non solo il senso della solidarietà e della riprovazione morale, ma anche il senso delle cause e quindi delle responsabilità che producono questi incidenti.
Quando un lavoratore resta ucciso sul lavoro in un qualsiasi porto, noi portuali ci sentiamo in dovere di scioperare. A molti pare un rituale superato, che produce perdita di produzione, di salario e nessun vantaggio. Perché sarebbe uno sciopero senza controparte, perché gli incidenti sul lavoro non hanno responsabili istituzionali, che sia l’impresa o l’autorità costituita, bensì responsabili occasionali, individuali, da perseguire civilmente o penalmente. 

Ma noi continuiamo per istinto a scioperare perché abbiamo chiaro che si tratta innanzitutto di responsabilità politiche, che attengono ai rapporti di produzione; che le circostanze in cui è successo l’incidente mortale a Trieste sono le stesse che ritroviamo sui ponti e nei garage di qualsiasi nave ro-ro o traghetto su cui andiamo a operare, in qualsiasi porto lavoriamo. Che quella “scena del delitto”, in altre parole, si ripresenta più o meno ogni volta, e che solo il caso o una diversa concatenazione degli eventi, fanno sì che non accada il peggio. 

Come attesta INAIL in un recente rapporto i traghetti sono le navi più pericolose e soprattutto nelle operazioni in banchina in cui avviene il 60% degli infortuni ai lavoratori marittimi e ciò nonostante gli armatori hanno l’impudenza di reclamare l’autoproduzione.



Demagogia? Fatalismo? Guardiamo alla realtà. Per ogni incidente che accade, mortale o no, sono innumerevoli i “quasi infortuni” (near miss), quegli eventi che accadono durante il lavoro e che “sfiorano la tragedia”. Essi sono i più efficaci indicatori del pericolo (infatti si guardano bene dal pubblicarli). Essi mostrano che è costante la pressione della gara per la produttività, tale da mettere il lavoro sempre sul filo del rischio. Le norme ci sono e in linea di massima si rispettano, ma in pratica la condotta a cui sono costretti i lavoratori per garantirsi un salario decente prevede lo sfidare le regole e le procedure sino al limite. Ci vuole spesso un niente per attraversare quel limite e, quando la sorte è avversa, nel rimanerne vittima, come in una sfida alla roulette russa.



Questo è conseguenza del fatto che l’occupazione è sempre più precaria e che il salario non è più il risultato del tempo di lavoro, bensì principalmente della produttività (il moderno cottimo). Ma se il tempo è un dato condiviso, il risultato produttivo invece è una responsabilità propria dell’impresa, che viene addossata ipocritamente sui lavoratori. È l’impresa infatti che deve garantire una organizzazione del lavoro efficace, con tecnologie e organici adeguati, primi fattori della sicurezza. Ma il nostro capitalismo brilla per la scarsità di investimenti in innovazione e capitale umano. Per cui gli obiettivi di produttività che le imprese pretendono non sono socialmente sostenibili, non sono a misura della salute e della sicurezza dei lavoratori, ma solo del profitto che si pretende a ogni costo di ricavarne. Così tra i costi ricadono “fatalmente” anche la salute e la vita dei lavoratori perché tali sono considerati dalle imprese (si è mai vista un’azienda commemorare i propri lavoratori morti, dopo il primo pianto per i media?).
Pertanto non ci bastano il cordoglio, l’appello a una maggiore sicurezza e nemmeno nuovi protocolli migliorativi. Ben vengano. Ma bisogna rovesciare la logica che le imprese ci impongono con il ricatto dell’occupazione e del salario. La produttività, le rese, i tempi di consegna e di fine lavoro, devono essere negoziati sulla base di parametri che fissino, con adeguati margini di salvaguardia, i target massimi consentiti da una prestazione lavorativa sicura e che i premi siano attribuiti in un quadro così ordinato e condiviso e non di solo sfruttamento.

Insomma, prima gli uomini e poi le merci. La sicurezza dei lavoratori non deve essere una variabile, la produzione sì.

COLLETTIVO AUTONOMO LAVORATORI DEL PORTO DI GENOVA           4 OTTOBRE 2019



3 commenti:

  1. Il ragionamento del collettivo autonomo dei lavoratori del porto di Genova coglie il punto reale del problema della sicurezza,lo considero una rarità rispetto alla moltitudine dei comunicati sindacali. Li ringrazio per la semplicità con cui hanno affrontato questo delicato tema, in particolare nella parte finale del testo, è sono d'accordo con le loro richieste

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  2. Remare insieme, remare uniti....contro un sistema che non porta rispetto a chi lavora e rischia la vita ogni giorno....

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  3. D'accordo al 100%. A Trieste in pochi anni la.movimentazione dei container è + che raddoppiata (e anche quella di camion e altro), eppure i lavoratori sono + o meno sempre lo stesso numero. W
    Hindi ogni lavoratore non solo ha già prodotto di pup, ma le aziende continuano a chiedere ancora di più. Per salari sempre uguali, naturalmente, perché oggi va bene,a domani non si sa, dicono le aziende. Quindi la responsabilità di incidenti e morti è + che cjiara

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