lunedì 5 agosto 2019

L'INTERVISTA A MASSIMO D'ALEMA SU CINA E EUROPA


L’Europa deve evitare una vecchiaia rancorosa

Intervista a Massimo D’Alema Presidente della Fondazione ItalianiEuropei

diTommaso Brollo, dottorando in Economia all’Università di Siena

Presidente D’Alema, lei ha potuto osservare la Cina da un punto di vista privilegiato. Come si è trasformata negli ultimi anni?
Sono testimone della sua trasformazione moderna da un punto di vista impegnato. Andai per la prima volta nel 1979 e c’erano solo biciclette, adesso ci sono treni a levitazione magnetica che fanno 400 chilometri all’ora. Di fatto, negli ultimi trent’anni la Cina ha conosciuto uno sviluppo paragonabile a quello che l’Europa ha avuto nei due secoli che abbiamo alle spalle. Basti pensare che negli anni 80 rappresentavano appena il 2 per cento del Pil globale, oggi sono al 22 per cento e nel frattempo il Pil mondiale si è quadruplicato. Una crescita accelerata che non ha precedenti. Nemmeno la rivoluzione industriale in Europa fu così dirompente.

Quale torsione ha imposto al modello istituzionale e di politica economica il presidente Xi Jinping?
Fino al 2013 la Cina aveva sperimentato uno sviluppo industriale estremamente accelerato e concentrato nella produzione manifatturiera a basso valore aggiunto. Ciò ha dato modo di accumulare un’enorme quantità di risorse. Praticamente era diventata una specie di fabbrica del mondo. Ma uno sviluppo del genere presenta diversi problemi: forte impatto 



ambientale, anche con reazioni pubbliche di forte malcontento; enormi squilibri sociali in particolare sull’asse città-campagna; un’urbanizzazione non facilmente controllabile; fenomeni di corruzione abbastanza estesi. Su questi punti hanno operato una correzione sensibile riducendo gli investimenti industriali, qualificandoli, e moltiplicando quelli in ricerca e sviluppo, con l’idea di puntare su importanti programmi di innovazione come l’intelligenza artificiale e sui fondi per la ristrutturazione delle aree industriali dismesse, mettendo in conto una certa delocalizzazione di una parte dell’apparato industriale a minor valore aggiunto. Il tutto accompagnato da forti investimenti di recupero ambientale, quindi anche da una rilocalizzazione delle aziende lontano dalle aree urbane principali, e da un notevole miglioramento dei salari. Negli ultimi anni le retribuzioni sono cresciute di quattro volte, ormai il costo del lavoro di un operaio cinese è di circa mille euro. Considerato il potere d’acquisto, è un reddito dignitoso, e contemporaneamente è migliorata molto la qualità del lavoro e la produttività. Dal punto di vista del mix produttivo il salto di qualità è stato evidente: la Cina ha ormai una grande capacità innovativa. A questa ristrutturazione economica si è accompagnata una forte campagna contro la corruzione che ha portato alla sostituzione di un milione e ottocentomila quadri nel Paese, consegnando un maggiore controllo dell’economia al Partito Comunista dopo una fase di allentamento, per certi versi di liberalizzazione.

Quanto pesa allora la difficoltà europea di dispiegare una politica industriale coordinata nella capacità di inserirsi nella partita tecnologica che si sta giocando tra Stati Uniti e Cina?
Quando parliamo di Europa bisogna necessariamente tracciare alcune distinzioni. L’Europa ha effettivamente grandi problemi: mancano investimenti in ricerca e sviluppo, la capacità di produrre brevetti e patrimonio umano è deperita, e questo determina una perdita di competitività. Ciò è legato anche all’assenza di una politica industriale coordinata e, diciamo, alle politiche di austerità. Quanto al rapporto con la Cina, è un discorso un po’ più articolato, nel senso che la crescita cinese ha avuto effetti positivi per l’Europa, ma in modi molto diseguali, data la difficoltà di condurre una politica come Europa verso la Cina.  Alcuni hanno avuto dei vantaggi, altri meno, in particolare credo che il maggiore beneficio l’abbia tratto la Germania.

Come dovrebbe muoversi l’Italia in questa nuova globalizzazione a guida cinese, tenendo anche conto delle trazioni sull’asse atlantico?
C’è spazio per una cooperazione significativa. Certo, le cose procedono in modo abbastanza confuso. Intanto, si nota la crescita degli investimenti e di nuove forme di collaborazione, non soltanto la crescita dei commerci, anche se la Cina è sempre di più un grande mercato verso il quale bisognerebbe avere una strategia come sistema Paese, e noi non ce l’abbiamo, procediamo in ordine sparso. Io dico sempre che uno dei grandi sforzi che dobbiamo fare è spiegare ai cinesi che la tecnologia non è solo tedesca, ma anche italiana, e che il vino non è solo francese. Siamo arrivati in Cina tardi e male, con una politica incerta, e questo pesa. Quando ero ministro degli Esteri avevo negoziato con Pechino una cosa straordinaria: loro avevano deciso di creare quaranta nuove città, una sorta di fascia da Nord a Sud per evitare che l’urbanizzazione si concentrasse nei grandi agglomerati della costa, e volevano affidare all’Italia la costruzione di una di queste città. Noi avevamo messo insieme un consorzio, molto faticosamente, perché non c’era da noi un’impresa che avesse le dimensioni tali per fare da capofila a un’operazione del genere. Poi cadde il governo e, siccome Berlusconi in campagna elettorale aveva detto che i cinesi facevano bollire i bambini, loro replicarono che con questo nuovo governo non avrebbero fatto più nulla. Abbiamo perso una commessa enorme. La progettazione dei servizi urbani, delle reti, avrebbe potuto essere una straordinaria vetrina per l’industria italiana.

L’attuale governo come si sta muovendo, specie a seguito della firma del memorandum?
Nel nostro rapporto con la Cina, certe sgrammaticature risalgono anche ai precedenti governi. Quanto a questo esecutivo, non si capisce bene che cosa voglia o cosa sia. Da una parte firma un documento più di propaganda che altro. Poi però Salvini va in America nel pieno della guerra economica e commerciale e dichiara “noi siamo dalla parte degli americani”. Non so come i cinesi possano valutare simili prese di posizione. Ai loro occhi l’interlocutore Italia appare piuttosto confuso e inaffidabile. I leader degli altri Paesi europei sono stati più bravi. Non hanno firmato nessun documento, anzi, i francesi si sono presentati lì a nome dell’Europa unita e hanno portato a casa contratti per un valore dieci o dodici volte quelli italiani. Una sana partnership economica. Ora, io sono a favore della Via della Seta. È un grande programma di interconnessione euroasiatico che prevede investimenti infrastrutturali e la creazione di joint ventures. Un’idea più armoniosa della globalizzazione, certamente a forte egemonia cinese, a partire dal fatto che l’ideologia sottostante è il confucianesimo. Però, a differenza di quelli che ti vogliono controllare mettendo i dazi sui tuoi prodotti, i cinesi vogliono fare affari insieme. Può anche darsi che guadagnino più di te, ma dipende dalla tua capacità di interfacciarti e di metterti in relazione con una grande strategia di sviluppo. La tanto vituperata Commissione europea ha condotto con i cinesi una trattativa intelligente, chiedendo che i loro investimenti si raccordassero con i programmi di sviluppo dell’Unione – una cosa non facile, ma in linea di principio intelligente –, e che ci fosse parità di condizioni per le imprese del nostro continente che operano in Cina. Di recente, i cinesi hanno approvato una nuova legge di protezione degli investimenti stranieri che raccoglie alcune delle richieste europee, come l’abolizione del requisito del 50 per cento di capitale cinese in ogni joint venture che volesse operare là, insieme a misure di maggior protezione della proprietà intellettuale. Un altro aspetto da tenere in considerazione è che mentre l’interscambio tra l’Unione europea e la Cina vede un enorme vantaggio per Pechino sul terreno dello scambio dei beni – tranne che per la Germania –, sulla bilancia dei servizi c’è un piccolo ma significativo vantaggio europeo. Ora, una maggiore attenzione a questo campo, dove gli europei sono più competitivi e a cui la Cina si sta aprendo, sarebbe auspicabile. Ad esempio, penso a cosa significhi, in un Paese in cui il mercato dell’automobile sta crescendo enormemente, entrare nel campo delle assicurazioni auto. Quindi, la questione è essere capaci di misurarsi con quella che è una grande strategia, non solo economica, quale la Via della Seta. Senza demonizzare la Cina e, al tempo stesso, senza nascondersi le sue ambizioni egemoniche. D’altronde, sono un grande impero. Una cosa che non si può dire ai cinesi è che loro siano un Paese emergente: sono stati per duemila anni la più grande potenza economica del mondo e considerano questa relativa caduta che inizia alla fine del Settecento come una semplice parentesi. Ora tornano semplicemente a esercitare il ruolo che hanno storicamente ricoperto.

Sapendo dunque con chi si ha a che fare, un’Europa capace di negoziare i propri interessi può concepire questa grande strategia come un’opportunità. In questo contesto cosa abbiamo da dare noi?
Tecnologie innovative, soprattutto applicate alle Pmi. La piccola e media impresa è la grande sfida cinese dei prossimi decenni, perché è quella che può generare ricchezza diffusa e occupazione. I grandi settori strategici sono pubblici e tali resteranno, ma certamente noi possiamo essere partner dello sviluppo cinese, ad esempio nell’agro-industria di qualità. Le opportunità di collaborazione sono tantissime, è un errore credere che dobbiamo soltanto vendere i nostri porti. I cinesi hanno una strategia chiara, hanno comprato il porto del Pireo che è diventato il loro grande hub nel Mediterraneo e prenderanno concessioni in altri scali. Parliamoci chiaro: tutti vogliono vendersi a loro, perché significa soldi, investimenti, flusso di merci, posti di lavoro. Se le grandi compagnie cinesi decidono che l’approdo verso i mercati dell’Europa centrale è Trieste, a Trieste vi saranno molti benefici, che però non si estenderanno a tutti i porti italiani: Gioia Tauro, ad esempio, ha avuto grandi fortune nell’attività di transhipping perché aveva le caratteristiche e le profondità necessarie, ma i cinesi hanno già individuato il loro hub nel Pireo, il transhipping lo fanno e lo faranno lì. Prima si parlava di industrie strategiche e di come in Cina rimangano saldamente sotto il controllo pubblico, come nel modello italiano ante anni Novanta. Noi, nel frattempo, questo modello l’abbiamo smantellato. Questo dipende purtroppo dal capitalismo privato italiano, che di fronte alle privatizzazioni si è mosso seguendo una logica di rendimenti finanziari a breve, più che secondo una visione strategica e industriale di lungo periodo. La nostra scelta sulle privatizzazioni non era facoltativa. L’accordo firmato da Andreatta sullo smantellamento dell’Iri è stato qualcosa che abbiamo trovato, una parte degli impegni legati all’applicazione delle regole europee. I cinesi invece non si sono ispirati all’Iri, hanno costruito un’economia mista partendo, da un lato, da una considerazione dei difetti del modello statalista sovietico e, dall’altra parte, da una critica di un capitalismo occidentale non regolato e governato dallo Stato.

Hanno elaborato una sorta di terza via. Da ultimo, una domanda da Vladimir Il’ic: che fare? Come dovrebbe muoversi una forza socialista sul rapporto con la Cina e per governare il cambiamento di paradigma di sviluppo?
Vaste programme... La domanda tende ad aprire orizzonti vastissimi. La Cina è un interlocutore prezioso. Bisogna mantenere un dibattito critico con loro sui diritti umani, ma anche da questo punto di vista sono convinto che si possa cominciare un’evoluzione, come dimostra l’accordo che stanno concludendo con la Chiesa Cattolica: il fatto che queste due grandi potenze dell’Est e dell’Ovest trovino un’intesa apre uno scenario, specie sul piano culturale, di grandissimo interesse. La Cina è questo inevitabile interlocutore. Per certi aspetti è fondamentale, loro condividono con l’Europa l’idea di una governance multilaterale del mondo, un’opposizione alla rozzezza della politica di potenza alla maniera americana o russa, un rigoroso rispetto del diritto internazionale: è un Paese che affida le sue ambizioni egemoniche a mezzi pacifici. Parliamoci chiaro: all’inizio del secolo scorso, l’Europa contava circa il 25 per cento della popolazione mondiale, con un’età media di 25 anni. Un continente giovane e importante. Ancora negli anni 80 rappresentava più del 30 per cento della produzione di ricchezza del mondo. Oggi si avvia ad avere poco più del 7 per cento della popolazione mondiale, l’età media è di 44 anni, e rappresenta appena il 13 per cento della ricchezza del mondo. Dal punto di vista relativo parliamo di un continente in pieno declino. L’Europa avrebbe bisogno di una classe dirigente intelligente, capace di capire che si tratta di gestire una fase di ridimensionamento del suo peso relativo, capace di investire sul nostro patrimonio di civiltà. Il vero vantaggio competitivo rispetto alle altre potenze è che noi siamo la parte del mondo dove c’è più cultura, più intelligenza sociale, dove c’è la migliore qualità della vita. Anziché assecondare una reazione rancorosa e sostanzialmente impotente al declino, che accentuerà la crisi – l’Europa rischia di vivere una brutta vecchiaia, come quei vecchi rancorosi che ce l’hanno coi ragazzini che giocano a pallone –, abbiamo bisogno di una classe dirigente capace d’interpretare questa fase, che cerchi di interagire con il mondo che sta cambiando tramite politiche intelligenti, specie in ambito industriale, individuando i settori in cui noi ancora siamo competitivi o abbiamo un primato, e investire su quelli. Ma richiederebbe una classe dirigente europea all’altezza e allo stato attuale delle cose non la vedo. 

Secondo lei può esistere una classe dirigente europea, in senso collettivo, che prescinda dagli interessi ora della Francia, ora della Germania, ora dell’Italia? Ma gli interessi nazionali in che cosa consistono, in quanto contrapposti all’interesse europeo?
Non so, è una visione molto di breve respiro. È chiaro che questi nazionalismi sono più l’espressione di una crisi che di un reale conflitto d’interessi. Si dovrebbe avere la consapevolezza che soltanto l’Europa unita ha un peso politico e una capacità di incidere sulle dinamiche globali che nessun Paese membro, da solo, potrebbe mai avere. Il nazionalismo aveva un senso quando qui si decideva il destino del mondo. Ora che le questioni importanti le discutono gli americani e i cinesi, con i russi che già per arrivare a quel tavolo devono sparare un po’ di bombe, ci capiamo. Anche per questo respiriamo un nuovo clima da guerra fredda: un’Europa spinta dagli americani a una politica rancorosa porta a loro volta i russi a fare ciò che non vorrebbero, ossia diventare parte di un blocco euroasiatico a guida cinese. Si aprono scenari che richiederebbero una classe dirigente all’altezza di questo passaggio d’epoca, sapendo che certe tendenze non possono essere rovesciate, ma gestite sì, con la consapevolezza che il 13 per cento su una ricchezza del mondo che cresce quattro volte equivale a più del 30 per cento in termini assoluti. Questa ricchezza accresciuta, anche se il peso relativo è diminuito, come la vuoi giocare? Qual è la nostra specializzazione nel mondo? È questo il grande problema di una politica industriale europea. 

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